giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

A che punto è il contrasto alla corruzione privata?

A cura di: Alfredo Caruso

Ndr: L’argomento viene analizzato alla luce della relazione del prof. Sergio Seminara tenuta al Convegno “Il diritto penale dell’impresa, tra riforme attese, concluse e annunciate” , il 18 dicembre 2017, svoltosi presso l’ASGP (Alta scuola Federico Stella sulla giustizia penale).

 

Sommario: 1. Il quadro europeo di riferimento, 2. I dubbi interpretativi, 3. Confronto con la corruzione pubblica, 4. Perché si parla di “favoreggiamento”, se è un reato autonomo?, 5. La “ritrosìa” del legislatore nel conformarsi alla Decisione Quadro ed alla Convenzione del Consiglio di Europa.

  1. Il quadro europeo di riferimento

Il contrasto al fenomeno corruttivo nel settore privato va inquadrato nel più ampio contesto della regolamentazione europea delle dinamiche di mercato.

Con la Decisione Quadro n. 568 del 2003 GAI il Consiglio dell’Unione Europea vincola gli stati membri dell’Unione ad introdurre il reato di corruzione privata, considerando, all’articolo 1 che ”Insieme alla globalizzazione si è assistito negli ultimi anni ad un aumento degli scambi transfrontalieri di merci e servizi. Di conseguenza, i casi di corruzione nel settore privato all’interno di uno Stato membro non sono più soltanto un problema nazionale, ma anche un problema transnazionale, affrontato in maniera più efficace mediante un’azione comune a livello dell’Unione europea.”

Pertanto, ai sensi dell’articolo 2: Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare che le seguenti condotte intenzionali costituiscano un illecito penale allorché sono compiute nell’ambito di attività professionali:

  1. a) promettere, offrire o concedere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura ad una persona, per essa stessa o per un terzo, che svolge funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, affinché essa compia o ometta un atto in violazione di un dovere;
  2. b) sollecitare o ricevere, direttamente o tramite un intermediario, un indebito vantaggio di qualsiasi natura, oppure accettare la promessa di tale vantaggio, per sé o per un terzo, nello svolgimento di funzioni direttive o lavorative di qualsiasi tipo per conto di un’entità del settore privato, per compiere o per omettere un atto, in violazione di un dovere.”[1]

A sua volta, la Convenzione del Consiglio di Europa 7 gennaio 1999, ratificata nel 2002 legge n.110 dall’Italia, prevedeva la costituzione di un particolare organo GRECO (Group of States against corruption) il cui compito era quello di verificare l’implementazione dei contenuti fissati dal consiglio di Europa all’interno degli stati membri.[2]

In ben due occasioni, prima dell’ultima riforma dell’art 2635 c.c. introdotta dall’art. 3, D.Lgs. 15.03.2017, n. 38 con decorrenza dal 14.04.2017, il controllo di conformità della normativa nazionale (D.lgs n.61 del 2002 e legge n.190 del 2012) alle direttive comunitarie, da parte del GRECO, ha prodotto un risultato negativo.

Il Decreto legislativo n. 38 del 2017 segna quindi, potremmo dire, la terza edizione della norma.

L’attuale formulazione dell’art 2635 c.c. prevede al comma 1 che “salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.”[3]

  1. I dubbi interpretativi

Emergono sin da subito delle perplessità. Innanzitutto: cosa sono gli enti privati? Possono essere i partiti politici e i sindacati?

La risposta formalmente dovrebbe essere positiva perché non c’è nessuna limitazione alla configurazione rispetto ai sindacati e ai partiti politici della nozione di ente privato. Il problema è che l’art. 2635 c.c. viene riproposto a proposito della responsabilità della persona giuridica e il D.lgs n.231 del 2001 esclude soggetti di rilevanza costituzionale come i sindacati e i partiti politici. Per cui, portando ad un livello più elevato la nozione di ente privato, si notano conflitti gravissimi tra cosa si possa intendere per ente privato nella responsabilità della persona giuridica e cosa si debba intendere per ente privato rispetto al reato di corruzione privata.[4]

Ma il problema non è solo questo. Dalla lettura dell’art. 2635 c.c. con riferimento ai soggetti attivi, si nota che sul versante della corruzione passiva si tratta di: amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori di società o enti privati. A parte il concetto di amministratore, che va dal condominio alla società quotate in borsa, tutti gli altri soggetti si trovano nel codice civile, in riferimento al diritto commerciale, con riguardo ai reati societari. Il reato di corruzione privata rimane dunque un reato societario. E in questo modo viola gli articoli 7 e 8 della Convenzione del Consiglio di Europa che menzionano la persona che dirige un ente privato o che vi lavora. Non ci sono specificazioni rispetto alla tipologia delle funzioni espletate o rispetto alla caratterizzazione di queste funzioni.

Lo stesso paragrafo 54 del rapporto esplicativo della convenzione ci dice che: “The second important difference concerns the scope of recipient persons in Article 7. This provision prohibits bribing any persons who “direct or work for, in any capacity, private sector entities”. Again, this a sweeping notion to be interpreted broadly as it covers the employer- employee relationship but also other types of relationships such as partners, lawyer and client and others in which there is no contract of employment. Within private enterprises it should cover not only employees but also the management from the top to the bottom, including members of the board, but not the shareholders. It would also include persons who do not have the status of employee or do not work permanently for the company -for example consultants, commercial agents etc.- but can engage the responsibility of the company.”[5]

La scelta di riportare il testo in lingua originale deriva dal rischio di traduzioni imprecise, vista la specificità della materia. Il concetto che viene espresso, in sostanza, è un concetto assai ampio. Invero nella nozione “soggetto della corruzione passiva” rientra non solo la relazione tra datore di lavoro ed impiegato ma anche ulteriore tipi di rapporto come ad esempio tra i soci, tra l’avvocato e il suo cliente ed altre ancora tra le quali non ricorre il contratto di lavoro. Nelle imprese private la nozione deve comprendere non solo i dirigenti salariati ma anche i membri del consiglio di amministrazione ma non gli azionisti.

Questa definizione con l’art. 2635 c.c. c’entra ben poco. Sul versante della corruzione passiva abbiamo amministratori, direttori generali, dirigenti ecc.

L’art. 2635 c.c. prevede poi, nella parte finale del comma 1, in aggiunta ai soggetti attivi menzionati, che: “si applica la stessa pena se il fatto è commesso da chi nell’ambito organizzativo della società o dell’ente privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo.”

E al comma 2 che: “si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.”

Per farla breve, l’avvocato non rientra nell’art. 2635 c.c.; il libero professionista che lavora per conto della società, non rientra tra gli amministratori, dirigenti ecc. e proprio in quanto libero professionista non è sottoposto alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti apicali delle società.

Per cui, sotto questo profilo, la distanza tra la norma italiana e quelle internazionali, è una distanza assoluta.

  1. Confronto con la corruzione pubblica

Dal punto di vista dell’analisi del reato, si tratta di un reato di condotta legato alla corruzione antecedente perché il fatto è quello di questi soggetti, nominati sul versante passivo, che sollecitano o ricevono per sé o per altri denaro o altra utilità o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà.

Qui però insorge un problema di carattere dogmatico: nella corruzione pubblica noi abbiamo un soggetto che è il pubblico funzionario il quale accetta una dazione o una promessa, ed un privato il quale offre o dà il denaro o altra utilità. Cioè i reati di corruzione pubblica sono fondati su uno scambio e questo scambio consuma il reato e si lega all’accettazione o all’offerta di denaro oppure di altra utilità. Questo è il motivo per cui si dice che il reato di corruzione è certamente un reato bilaterale, perché si consuma alla luce di questo accordo vestito attraverso la dazione di denaro o altra utilità, e quindi è necessario che vi sia la condotta di chi dà o offre e la condotta di chi riceve o accetta. Se ci fosse solamente la condotta di chi tenta di farsi promettere o tenta di farsi dare ovvero tenta di offrire, si applicherebbe l’art. 322 c.p. (istigazione alla corruzione) che incrimina proprio quella condotta monosoggettiva che non potrebbe entrare neppure in forma tentata all’interno di un reato bilaterale.

Quindi sotto questo profilo, in giurisprudenza è assodato che il reato di corruzione si può avere nella forma tentata ma bisogna fare attenzione: perché per il tentativo di corruzione occorrono condotte dirette in modo non equivoco anche da parte dell’altro soggetto. Per cui è necessaria una fase di trattative che non si traduca in un accordo: in questo caso avremo una corruzione tentata.

Se invece una delle due parti non svolge alcuna attività, non possiamo avere atti idonei ed univoci da parte di entrambi i soggetti ma possiamo avere solo un tentativo unilaterale che trova il suo spazio nell’art 322 c.p.

Il legislatore del 2017, ignorando le nozioni di reato bilaterale o monosoggettivo, tipizza la condotta, rispetto agli amministratori ecc. (quindi sul versante passivo), come il fatto di chi sollecita o riceve la dazione o la promessa. Allo stesso modo, sul versante della corruzione attiva, viene punito chi offre, promette o dà denaro.

Questo significa che il legislatore del 2017, inconsapevolmente si è conformato ad un modello che prevale su scala internazionale dove non c’è la distinzione tra gli artt. 318, 319 e 322 c.p. Dunque, quelle condotte monosoggettive di sollecitazione o di offerta che caratterizzano, nell’ordinamento italiano l’art. 322 c.p., fanno parte invece, nel panorama internazionale, del reato di corruzione attiva o di corruzione passiva. Impostazione che è anche il comune denominatore adottato dal Consiglio di Europa e dalla decisione quadro.

Il legislatore nostrano, non rendendosi conto di ciò, ha tipizzato il reato di corruzione privata, portando dentro la corruzione delle condotte unilaterali, quindi il reato di corruzione privata, sotto questo profilo, si allontana nettamente dall’archetipo degli articoli 318 e 319 c.p.; il reato di corruzione privata è cosi costruito come un reato monosoggettivo rispetto alle condotte di sollecitazione e di offerta e bilaterale rispetto alle condotte di dazione  e accettazione.

Si potrebbe dire che tutto sommato è un’incongruenza dal punto di vista dogmatico: la corruzione privata è punita meno della corruzione pubblica e nondimeno incrimina la condotta monosoggettiva allo stesso modo della condotta plurisoggettiva.

Il problema si pone purtroppo perché l’articolo 3 della decisione quadro prevede che: “ciascuno Stato adotta le misure necessaria a far si che l’istigazione ai tipi di condotta di cui all’articolo 2 (cioè la corruzione attiva e la corruzione passiva) e il loro favoreggiamento, siano puniti come reato.”

 

  1. Perché si parla di “favoreggiamento”, se è un reato autonomo?

Il problema qui è di natura meramente lessicale. In tutti gli altri paesi infatti questo articolo 3 viene tradotto nel senso che tutti gli stati membri adottano le misure necessarie a far sì che l’istigazione e la complicità siano previste come reato. Il legislatore comunitario, in maniera probabilmente ridondante, ha inteso dire che va punito anche il concorso con il corruttore attivo o il corruttore passivo.

Essendo però nel nostro ordinamento il favoreggiamento già punito, il legislatore italiano si è occupato solo dell’istigazione ex art. 2635 bis c.c., per cui: “chiunque offre o promette denaro o altra utilita’ non dovuti agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di societa’ o enti privati, nonche’ a chi svolge in essi un’attivita’ lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, affinche’ compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedelta’, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 2635, ridotta di un terzo.”

Qui, nei fatti, il legislatore prevede una norma che mutua sostanzialmente il contenuto dell’articolo 322 c.p. Così come c’è il reato di corruzione e di istigazione alla corruzione, così noi abbiamo il reato di corruzione privata e l’istigazione alla corruzione privata. Ma l’istigazione è già punita dall’art. 2635 c.c. Cioè, il legistatore non si è reso conto che l’istigazione coincide perfettamente con la sollecitazione prevista dall’art. 2635 c.c. Quindi abbiamo due norme, due norme consecutive, la prima delle quali dice che come corruzione privata viene punita la sollecitazione o l’offerta, una seconda norma la quale ci dice che la sollecitazione all’offerta, qualora l’altra parte non abbia aderito, è punita con la riduzione di un terzo.

Cioè, quella condotta che è già consumata rispetto all’art. 2635 c.c. , viene ripresa in esame dall’art. 2635 bis c.c. e sancisce per essa una riduzione della pena.

Ciò che rileva è dunque un problema di assoluta incomprensione del legislatore.

Si trasforma il reato di corruzione da bilaterale, in un reato che contiene anche la condotta monosoggettiva. E poi, si dedica una norma apposita per punire la condotta monosoggettiva con una riduzione di pena, qualora alla condotta monosoggettiva non abbia risposto la controparte, trascurando però che quella condotta monosoggettiva ha già integrato il reato precedente, per il quale non si richiede che vi sia l’accettazione della controparte.

La situazione appare paradossale perché esistono due categorie di soggetti attivi: da un lato i soggetti apicali, dall’altro i soggetti sottoposti alla vigilanza altrui. Nell’art. 2635 bis c.c., il legislatore, con grande generosità, ha ritenuto che nei confronti dei soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza, non c’è bisogno di prevedere il reato di istigazione alla corruzione perché il loro fatto è meno grave. Per cui potrebbe palesarsi una inidoneità della condotta, quindi, l’art. 2635 bis c.c. prevede solo un’istigazione alla corruzione o degli apicali ovvero nei confronti degli apicali. Il risultato è che i soggetti sottoposti alla direzione o alla vigilanza sono puniti esclusivamente dall’art. 2536 c.c. che però non prevede la riduzione di pena. In sostanza, prevedendosi una riduzione di pena solo per la categoria superiore, si è finito con l’assoggettare l’altra categoria al trattamento sanzionatorio più gravoso ex art. 2635 c.c.

  1. La “ritrosìa” del legislatore nel conformarsi alla Decisione Quadro ed alla Convenzione del Consiglio di Europa.

Il reato di corruzione privata è un reato di difficile definizione. Si può dire che è un reato che viola la relazione di agenzia: vi è un principale che è il datore di lavoro, vi è un agente che dovrebbe svolgere il proprio mandato in assoluta buona fede e lealtà, e invece accetta una retribuzione per danneggiare in qualunque modo gli interessi del principale. Ma se ricostruissimo il reato di corruzione privata all’interno di questo rapporto giuslavoristico, ma comunque duale, secondo la relazione di agenzia, avremmo consegnato il reato di corruzione privata ad una dimensione strettamente patrimoniale. Il datore di lavoro potrebbe consentire alla corruzione del proprio sottoposto, magari pagandolo molto poco e suggerendogli di farsi retribuire dai clienti entro un certo limite che si risolve in un pregiudizio per gli interessi del datore di lavoro. Dunque se si costruisse questa prospettiva microeconomica del reato di corruzione privata, in realtà l’incriminazione perderebbe molto del suo fondamento.

Infine, perché sul reato di corruzione privata grava una forte pressione internazionale?

Si è affermata oggi l’idea che tale reato offenda gli interessi della concorrenza: la concorrenza si svolge secondo un principio di parità di chance e il reato di corruzione altera la posizione di eguaglianza dei competitori, facendo sì che la gara venga aggiudicata a colui che abbia corrisposto la tangente e non a colui che si trova nelle condizioni migliori per gestire a sua volta economicamente il bene o per adempiere alle prescrizioni della gara.

Il legislatore italiano in qualche modo il problema se lo è posto e ha stabilito nel penultimo comma dell’art. 2635 c.c. che: “si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.”

La procedibilità a querela trae nerbo dalla prospettiva microeconomico/patrimoniale sovraesposta ma incontra un limite nella distorsione della concorrenza.

Ma cosa vuol dire distorsione della concorrenza? Se si pensa alla fenomenologia della corruzione, la situazione è completamente diversa; di solito, più una gara è inquinata dalla corruzione, minore è il numero dei partecipanti, perchè i partecipanti sanno che comunque quella gara non la vinceranno mai ed  è inutile spendere tempo e denaro.

Quindi, richiedere che via sia una distorsione nell’acquisizione di beni o di servizi, desunta dal fatto che vi sia stata una distorsione nell’aggiudicazione in favore del concorrente meno meritevole, significa, in sostanza, subordinare la perseguibilità di ufficio alla pluralità dei partecipanti alla gara.

 

[1] Decisione Quadro 2003/568/GAI del Consiglio del 22 luglio 2003 relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32003F0568&from=IT

[2] Convenzione del Consiglio di Europa del 7 gennaio 1999 sulla corruzione; https://www.admin.ch/opc/it/federal-gazette/2004/6253.pdf

[3] Decreto legislativo 15 marzo 2017, n. 38 Attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato.

[4] Decreto legislativo, 08/06/2001 n° 231 Responsabilità amministrativa da reato.

[5] Explanatory Report to the Criminal Law Convention on Corruption; https://rm.coe.int/16800cce44

 

 

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