giovedì, Aprile 18, 2024
Criminal & Compliance

Bigamia: contrarre un secondo matrimonio senza aver sciolto il primo

La Bigamia (dal latino bis “due volte e dal greco γάμος “nozze”) nel diritto romano  era confusa con l’adulterio; come reato per sé stante ha assunto rilievo con il diritto canonico, che ha concepito  il matrimonio, oltre che come un contratto, anche come un sacramento. L’istituto ha subito varie modifiche nel corso del tempo e attualmente è regolato nel codice penale italiano dall’articolo 556 che recita quanto segue:

“Chiunque, essendo legato da matrimonio avente effetti civili, ne contrae un altro, pur avente effetti civili, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi, non essendo coniugato, contrae matrimonio con persona legata da matrimonio avente effetti civili.
La pena è aumentata se il colpevole ha indotto in errore la persona, con la quale ha contratto matrimonio, sulla libertà dello stato proprio o di lei.
Se il matrimonio, contratto precedentemente dal bigamo, è dichiarato nullo, ovvero è annullato il secondo matrimonio per causa diversa dalla bigamia, il reato è estinto, anche rispetto a coloro che sono concorsi nel reato, e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.”

Il bene-interesse tutelato è individuato nella salvaguardia del rapporto di coniugio e la norma è posta a tutela del dovere che incombe alla persona congiunta di non contrarre nuovo matrimonio in costanza del primo. La norma non contempla la definizione di matrimonio avente effetti civili, dovendosi richiamare la legge civile. Il dolo è generico in quanto consiste nella volontà di contrarre nuovo matrimonio con la consapevolezza dell’esistenza di uno precedente. Si può riscontrare anche un dolo eventuale, caratterizzato dal dubbio circa la validità del primo matrimonio; dove tale dubbio esiste l’agente vuole anche il fatto come reato, sia pure quale semplice eventualità che si realizzi, nel caso si riscontra come sussistente quella situazione di diritto che gli appare incerta. La bigamia è un delitto bilaterale (che non implica, però, l’imputabilità e la punibilità di entrambi i soggetti) è un delitto istantaneo e con effetto giuridico permanente. Il reato è estinto, anche rispetto a coloro che sono concorsi nel reato, se il matrimonio contratto precedentemente dal bigamo è dichiarato nullo, ovvero se è annullato il secondo matrimonio. Non sono invece causa di estinzione né  il divorzio nè  la morte del primo coniuge (in seguito ai quali il primo matrimonio non è nullo, ma sciolto). La pena prevista è la reclusione fino a 5 anni.

Ai sensi di una sentenza della Cassazione, la  n. 331/2009 è stato stabilito quanto segue:

La bigamia, come l’adulterio e l’incesto, è un reato necessariamente bilaterale, dovendo essere due gli autori materiali, e perciò i soggetti attivi; ma ciò non toglie che, di questi cooperatori indispensabili per la concretizzazione dell’elemento materiale del delitto, uno possa risultare non imputabile, o non punibile per cause soggettive, le quali non influiscono sulla punibilità dell’altro. Se poi, quest’ultimo ha posto in essere un inganno nei confronti del primo, l’ipotesi aggravata prevista dall’art. 556 secondo comma c.p. pone la persona incolpevole e ingannata, attraverso un consenso viziato ad un matrimonio che crede valido e che perciò rimane coautore materiale del fatto, nella situazione di persona offesa dal reato, come vittima dell’inganno; non diversamente da quanto avverrebbe nell’ipotesi che il secondo matrimonio fosse nullo per un’altra ragione, da lui pure non conosciuta, e l’ingannatore fosse perciò responsabile di altro reato. Ne consegue che, mentre nell’ipotesi di bigamia di cui al primo comma dell’art. 556 c.p., persona offesa dal reato è il primo coniuge del bigamo, nell’ipotesi aggravata a quello si aggiunge il secondo; dunque due sono contemporaneamente le persone offese, ed entrambe sono, singolarmente o congiuntamente, titolari del diritto di istanza a norma dell’art. 10 c.p., quando il reato è stato commesso all’estero da cittadino straniero.

L’Italia vieta il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso ma con l’approvazione della legge Cirinnà ha riconosciuto le unioni civili, qualificate come “formazione sociale specifica” con esplicito riferimento all’articolo 2 della Costituzione e non all’articolo 29 (che tratta l’istituto del matrimonio).La versione finale della legge risulta alleggerita con il taglio di alcune parti rispetto al testo originale che prevedeva, insieme a una serie di situazioni giuridiche sostanzialmente simili a quelle previste per il matrimonio, il dovere di fedeltà tra i componenti dell’unione civile e la possibilità di adottare il figlio naturale del partner, punti poi stralciati in seguito alle numerose polemiche, nonché ai profondi dissidi nella maggioranza di governo. La l. 20 maggio 2016, n. 76 “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” nota anche come Legge Cirinnà è una riforma molto discussa, che ha rappresentato una svolta epocale.Con il termine “unioni civili” si configura nell’ordinamento giuridico italiano l’istituto di diritto pubblico, analogo al matrimonio,che comporta  il riconoscimento giuridico, alla coppia formata da persone dello stesso sesso, di  diritti e doveri reciproci. Tale istituto estende alle coppie omosessuali la quasi totalità dei diritti e dei doveri previsti per il matrimonio, incidendo sullo stato civile della persona. Gli effetti di suddetta legge ricadono in primo piano nella sfera del diritto civile, ma finiscono, forse inconsapevolmente, per dettare una disciplina che ha immediati riflessi anche sul diritto e sul processo penale, portando delle conseguenze. Necessaria allora è stata  la delega per il Governo che ha provveduto con decreto legislativo del 19 gennaio 2017, n. 6. «modificazioni ed integrazioni normative per il necessario coordinamento con la presente legge delle disposizioni contenute nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti e nei decreti». Nel decreto il coordinamento del diritto penale con l’istituto delle unioni civili passa attraverso una generale equiparazione tra le parti delle unioni e i coniugi, con effetti in malam e in bonam partem.

È opportuno dunque porsi una domanda: “per effetto dell’art. 1, co. 20 del d.d.l. Cirinnà, la bigamia è configurabile anche in relazione alle unioni civili tra persone dello stesso sesso?” La risposta sembra essere negativa e far rilevare effetti in mala partem. Il d.d.l. si limita ad annoverare la sussistenza di un precedente vincolo matrimoniale o di un’unione civile tra persone dello stesso sesso tra le cause che impediscono la costituzione dell’unione stessa. Non si pone però il problema né della rilevanza penale di una ‘bigamia’ tra persone dello stesso sesso, né, a ben vedere, il problema, preliminare, della perdurante ragionevolezza dell’incriminazione della bigamia tra persone unite dal matrimonio; ragionevolezza della quale è  lecito dubitare, alla luce dell’art. 3 Cost.

Si ritiene inoltre configurabile il reato di bigamia nei confronti del cittadino italiano, unito in matrimonio avente effetti civili in Italia, il quale abbia contratto all’estero un secondo matrimonio con cittadino straniero, non rilevando, in contrario, la nazionalità del coniuge. Il matrimonio contratto all’estero da cittadino italiano, anche se non trascritto in Italia, spiega efficacia giuridica nel nostro Paese,la trascrizione non ha efficacia costitutiva, ma dichiarativa e certificativa.

La bigamia si configura come una forma di poligamia, la quale è una forma di matrimonio che consente ad un uomo o una donna di avere più consorti contemporaneamente. La poligamia è legale in alcuni Stati, è praticata nei paesi arabi a maggioranza islamica, in Africa, in alcuni paesi europei e in America. La ragione della diffusione di tale fenomeno deriva dall’esigenza di allargare gli orizzonti culturali, in un mondo che diventa sempre più multietnico per permettere ad ogni individuo di godere di diritti, indipendentemente dalla cultura o religione di appartenenza.

Mariaelena D'Esposito

Mariaelena D'Esposito è nata a Vico Equense nel 1993 e vive in penisola sorrentina. Laureata in giurisprudenza alla Federico II di  Napoli, in penale dell’economia: “bancarotta semplice societaria.” Ha iniziato il tirocinio forense presso uno studio legale di Sorrento e spera di continuare in modo brillante la sua formazione. Collabora con ius in itinere, in particolare per l’area penalistica.

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