giovedì, Marzo 28, 2024
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Crimini internazionali: panoramica sul genocidio

Sebbene il crimine di genocidio non sia nuovo alla storia dell’essere umano, è solo durante il secolo scorso che tale reato è stato riconosciuto come crimine internazionale “autonomo” e non più come una sotto categoria dei crimini contro l’umanità. La definizione giuridica di tale reato integra sia l’elemento soggettivo che oggettivo, strutturalmente funzionali a comprendere la natura e l’identità della fattispecie criminosa; tuttavia il percorso d’ interpretazione dei due elementi non è stato privo di ostacoli, giocando a tal uopo rilievo fondamentale la giurisprudenza dei tribunali penali internazionali.

Dal genocidio nazista alla Convenzione del 1948

Il termine “genocidio” (dal greco γένος «stirpe») è stato coniato da Raphael Lemkin nel 1944 all’indomani della strage commessa dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Sotto il profilo giuridico, il genocidio, inteso come l’uccisione, la distruzione o lo sterminio intenzionale di gruppi o di membri di un gruppo in quanto tale, ha iniziato ad essere disciplinato come fattispecie autonoma solo pochi anni dopo il processo di Norimberga. Proprio la circostanza che le atrocità perpetrate dai nazisti rappresentassero un unicum rispetto agli altri massacri commessi nel XIX secolo spinse la comunità internazionale ad agire, adottando, nel 1948, la Convenzione sul genocidio. Infatti, sebbene l’antisemitismo fosse un’ideologia antica e particolarmente diffusa, lo sterminio degli ebrei – ma anche zingari – ha assunto dimensioni e modalità tragicamente nuove poiché si è tradotto nella rigorosa e totale eliminazione di tutto ciò che appartenesse a quello specifico gruppo con la volontà di annullare e cancellare totalmente l’esistenza di quel popolo dal genere umano.

La Convenzione del 1948, dichiarativa del diritto consuetudinario vigente, all’epoca fu considerata una risposta immediata ed esauriente, attraverso la quale si sarebbero poste le basi per evitare e prevenire la commissione di nuovi stermini. Il tempo, però, ha fatto emergere le “zone d’ombra” ed i punti fragili del testo normativo, elaborato ormai settant’anni fa; lacune, in parte, colmate dalla giurisprudenza successiva alla Convenzione.

Innanzittutto, ex art. 1, il genocidio è considerato un crimine di diritto internazionale, “sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra”. Dalla perpetrazione di tale crimine, ne scaturisce un duplice regime di responsabilità: la responsabilità dello Stato, da un lato, la responsabilità penale individuale degli autori, dall’altro. Dalla lettura congiunta dell’art. 3 e 4 del testo, emerge che sono considerati responsabili tutti colore che commettono genocidio, che avevano un’intesa mirante alla commissione del genocidio, che hanno incitato in maniera pubblica e diretta alla sua commissione, che hanno tentato di commettere tale reato o ne sono stati complici senza alcuna rilevanza per la carica pubblica che essi eventualmente rivestivano.

Elemento oggettivo: i fatti che integrano il genocidio

Un altro merito della Convenzione è quello di aver per la prima volta fornito una definizione strutturata del crimine. In primo luogo, l’elemento oggettivo, ovvero quali siano i fatti che costituiscono genocidio. Ex art. 2, per genocidio si intende uno degli atti seguenti:

  • uccisione di membri di un gruppo
  • lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo
  • sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita volte a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale
  • adozione di misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo
  • trasferimento di fanciulli da un gruppo all’altro

Questi atti devono inoltre essere compiuti contro membri di un gruppo protetto, ovvero nazionale, etnico, razziale o religioso. Il limite di tale definizione risiede nel fatto di non considerare come genocidio lo sterminio di gruppi politici, né il genocidio culturale ovvero la distruzione della cultura di un gruppo umano.

Elemento soggettivo: limiti della Convenzione nell’identificazione del dolo aggravato

Perchè vi sia la configurazione di genocidio, non basta che vengano commessi uno degli atti sopra citati nell’elenco, ma che sussista l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte il gruppo preso di mira. Accanto all’elemento oggettivo, sussiste, dunque, un elemento soggettivo (la c.d. mens rea). Secondo questa visione, il genocidio prevede una sorta di “depersonalizzazione della vittima”, poiché la vittima non è considerata in quanto singolo, ma solo per la sua appartenenza ad un determinato gruppo. La previsione di questo dolo speciale, nella forma del dolo aggravato,  utilizzando l’espressione “with intent to destroy”, si presta però ad essere facilmente aggirata dagli Stati che negano la commissione di atti di genocidio proprio per la mancata sussistenza dello “specific intent” di eliminare quel gruppo in quanto tale. A tal fine fondamentale è stata la giurisprudenza del TPIR.

TPIR: L’elemento del dolo aggravato nel caso Akayesu

L’istituzione dei tribunali penali internazionali è stata fondamentale per il perseguimento dei sanguinosi crimini commessi negli ultimi anni del 1900. Il Tribunale penale internazionale per il Ruanda è stato creato con risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel 1994 per perseguire i crimini di genocidio e le altre gravi violazioni dei diritti umani commessi in Ruanda per tutto l’arco del 1994. Il TPIR che nel dicembre del 2015 ha terminato il suo mandato, ha emesso 61 condanne e 14 assoluzioni.

  • Il caso

Nel caso Akayesu emerge la problematica del dolo specifico, lo specific intent, che la Corte ritiene “difficile da individuare se non impossibile”. Il caso di specie riguarda il sindaco di una piccola cittadina ruandese accusato di istigazione al genocidio e genocidio, ed il primo problema che la Corte si è posta è stato quello di stabilire se i Tutsi, fossero un gruppo protetto, altrimenti non si sarebbe potuto parlare di genocidio ma di sterminio. La Corte ha stabilito che sebbene in origine non ci fosse nessun tipo di distinzione etnica, religiosa, razziale o nazionale tra i Tutsi e gli Hutu, gli autori del massacro, in epoca precoloniale i due gruppi erano distinti solo per ragioni di discendenza. Sicché anche successivamente all’indipendenza ruandese, la distinzione di natura coloniale che privilegiava la discendenza nobiliare dei Tutsi, venne ereditata dall’intera popolazione e dagli Hutu, consolidandosi e venendo a determinare due gruppi distinti. In successive pronunce la Corte ha nuovamente specificato il concetto di gruppo protetto precisando che un gruppo può considerarsi tale se la percezione soggettiva di sé e dell’altro come appartenenti a gruppi distinti porta concretamente a differenziare i due gruppi diversi e ostili.

  • L’elemento soggettivo

Una volta raggiunto quest’assunto la Corte ha avuto il compito di determinare il dolo aggravato stabilendo che lo “stesso deve sempre sussistere in quanto elemento costitutivo del crimine imputato dal punto di vista del diritto internazionale e che si traduce il un legame psicologico tra il risultato concreto e la mente dell’autore dell’atto”. La Corte ha, inoltre, stabilito che per condannare oltre ogni ragionevole dubbio la commissione del  crimine sia sufficiente non solo la consapevolezza nell’autore che il crimine sottostante sia un’inevitabile risultato della distruzione del gruppo, ma che la distruzione del gruppo sia essa stessa l’obiettivo del crimine sottostante. Nel caso Akayesu le prove raccolte dimostravano che il sindaco di Taba avesse tenuto discorsi in maniera più o meno esplicita riguardanti la commissione del genocidio e che anche gli stupri e i crimini isolati commessi a danno dei Tutsi dovevano essere considerati come elementi idonei a sostenere la sussistenza del dolo specifico poiché erano parte integrante di un progetto di distruzione delle donne Tutsi e più in generale del gruppo in quanto tale.

Il genocidio di Srebrenica nella giurisprudenza del TPIJ

Il Tribunale penale per l’ex-Jugoslavia è stata la prima corte ad hoc per perseguire crimini di guerra, istituita nel 1993 con risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e chiamata a giudicare i crimini commessi in altri quattro conflitti: Croazia, Bosnia, Macedonia e Kosovo.  Proprio in relazione al crimine di genocidio la giurisprudenza della Corte ha aggiunto un altro tassello alla ricostruzione della fattispecie criminosa in esame. In particolare nel caso Krstic il generale serbo è stato accusato di aver organizzato e diretto il massacro di circa 8000 musulmani, tutti uomini e in età militare, a Srebrenica nel 1995.

  • L’elemento soggettivo nel caso Krstic

In primo luogo la Corte ha dovuto stabilire se il gruppo protetto fosse costituito dai musulmani bosniaci di Srebrenica o solo dai musulmani bosniaci. Stabilendo che gruppo protetto era quello dei musulmani bosniaci la Camera di prima istanza ha anche sottolineato che l’intento di eliminare un gruppo in un’area geografica limitata potesse concretare un’ipotesi di genocidio. In relazione all’elemento soggettivo, la Corte ha dovuto stabilire se il dolo specifico di genocidio potesse essere riscontrato anche se il massacro avesse riguardato solo uomini in età militare, dato che la norma internazionale richiede che l’agente operi con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo.  A tal punto la Camera ha sottolineato come nonostante venissero massacrati i soli uomini, il resto della popolazione bosniaca musulmana venisse forzatamente trasferita fuori dalla medesima area. Tra le sue argomentazioni la Camera ha anche sottolineato come “le forze serbo-bosniache nel corso del massacro non potevano non essere consapevoli del fatto che l’uccisione di 2 o tre generazioni di uomini avrebbe causato conseguenze catastrofiche circa la sopravvivenza di una società patriarcale”.

Quindi, la Camera ha concluso ritenendo che l’intento di uccidere tutti gli uomini bosniaci musulmani in età militare a Srebrenica integrasse gli estremi dell’intento di distruggere in parte un gruppo (quello dei musulmani bosniaci) protetto dalla Convenzione.

I meccanismi coercitivi della Convenzione: la scarsa effettività della tutela

L’art. VI  della Convenzione stabilisce che:

“Le persone accusate di genocidio o di uno degli altri atti elencati nell’articolo III saranno processate dai tribunali competenti dello Stato nel cui territorio l’atto sia stato commesso, o dal tribunale penale internazionale competente rispetto a quelle Parti contraenti che ne abbiano riconosciuto la giurisdizione”.

Il problema risiede nel fatto che quando si applica il criterio del locus commissi delicti, nella maggior parte dei casi sono le autorità di quello stato ad essersi macchiate del crimine o a sostenere gli autori dello stesso, e chiaramente saranno riluttanti ad investigare ed istruire un giusto processo. Un ulteriore aspetto problematico è dato dalla circostanza che sebbene la Convenzione preveda la possibilità  per ogni parte contraente di richiedere agli organi competenti delle Nazioni Unite le azioni appropriate per la prevenzione o repressione del crimine,  solo in un’occasione un organo delle stesse si è pronunciato su un caso specifico di genocidio. Con la risoluzione 37/123  del 1982 in merito al caso Sabra e Shatila, l’Assemblea Generale definì il massacro delle truppe falangiste cristiane in Libano come atto di genocidio.

Il genocidio nello statuto della Corte Penale Internazionale

L’art. 6 dello statuto della CPI riproduce specificamente quanto previsto dall’art. II della Convenzione contro il genocidio, stabilendo che :

“Ai fini del presente Statuto, per crimine di genocidio s’intende uno dei seguenti atti commessi nell’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.

Nonostante lo specifico richiamo all’art. II lo statuto nulla dice circa la responsabilità per forme di partecipazione nella commissione del crimine diverse da quella dell’autore principale, relativamente alla conspiracy (responsabilità di chi si sia accordato con altri per commettere genocidio) e alla complicity (chi ne ha istigato la commissione). Il motivo di tale esclusione è duplice dovendosi riferire in primo luogo alla mancata volontà di inserire le due forme di responsabilità nello statuto, volontà manifestatasi in seno alla Conferenza diplomatica di Roma da parte di alcune delegazioni. In secondo luogo si è voluta accogliere in termine generale la previsione di alcune forme di responsabilità in altre disposizioni dello Statuto di Roma (incitement, attempt, complicity). 

Emerge dunque una chiara incongruenza tra il diritto consuetudinario della Convenzione e lo Statuto poiché la Convenzione rende punibile anche la condotta di chi cospira in favore del genocidio, indipendentemente dal fatto che alla stessa segua la concreta realizzazione del crimine. Inoltre, altro dato non trascurabile, nel corso dell’elaborazione del 6° comma dello statuto ci fu la proposta di interpretare restrittivamente  il riferimento all’intento di “distruggere in tutto o in parte un gruppo in quanto tale”, ritenendo più semplicemente che l’intento fosse riferibile all’ “intenzione di distruggere qualcosa in più che un numero ristretto dei singoli membri di un gruppo”.  Dunque, in relazione all’elemento soggettivo sembra essersi consolidato in seno alla Corte l’orientamento di accettare uno standard inferiore rispetto al dolo specifico, richiedendo una forma di colpevolezza inferiore, come si evince dall’art. 28 dello Statuto che stabilisce la “responsabilità dei comandanti per il genocidio commesso dai loro subordinati, anche se i subordinati non avevano conoscenza del crimine”.

[1] A. Cassese, I diritti umani oggi, Edizioni Laterza

[2] A. Cassese, Lineamenti di diritto internazionale penale, Edizione 2013

[3] Statuto di Roma della Corte penale internazionale, (www.childrenandarmedconflict.un.org)

[4] UN International Tribunal Criminal for the former Jugoslavia, Krstic (IT-98-33)

[5] UN International Tribunal Criminal for Ruanda, Akayesu (CTR-96-4)

[6] Genocidio, crimine impunito?, Fondazione Venezia per la ricerca sulla Pace

Anna Giusti

Anna Giusti studia Giurisprudenza presso l'Università di Napoli Federico II. Attualmente svolge un tirocinio presso il Consolato Generale degli Stati Uniti di Napoli. La collaborazione con Ius in itinere nasce dalla volontà di coniugare la sua grande passione per la scrittura al percorso di studi. Collaborare per l'area di diritto internazionale le permette di approfondire le tematiche che hanno da sempre suscitato maggiore interesse in lei, ovvero il diritto internazionale penale, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti umani, il diritto dell'Unione Europea. Appassionata di viaggi, culture e letterature straniere, si è da sempre dedicata allo studio dell'inglese e del francese.

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