mercoledì, Aprile 17, 2024
Criminal & Compliance

I mass media e il processo di spettacolarizzazione del crimine

A cura di Maria Elena Orlandini

Programmi televisivi come “Pomeriggio Cinque”, “Un giorno in pretura”, “Chi l’ha visto?”, “Quarto Grado”, hanno, in un certo senso, legittimato l’uso delle telecamere nelle aule del tribunale, dando la possibilità al pubblico di partecipare indirettamente ad alcuni processi come se si trovassero in loco. La presenza costante delle telecamere, seppur sottoposta all’autorizzazione del giudice, non è mai realmente neutra e dà la possibilità agli imputati di mettere in evidenza i propri atteggiamenti narcisisti, talvolta innaturali ed in grado di falsare il procedimento giudiziario. I telespettatori non hanno sempre conoscenze giuridiche e non hanno un’esperienza diretta con il crimine, prendono consapevolezza degli istituti giudiziari solo attraverso la rappresentazione mediatica. Il pubblico continua a percepire la verità mediatica come libertà assoluta, quasi più “vera” rispetto a quella oggettiva ed il successo dei mass media si basa proprio sulla loro capacità di imporre l’accettazione dei temi e delle informazioni proposte. La facile ricerca del thriller e della suspance privilegia il ragionamento, le idee, il dubbio, e questo è il nodo cruciale su cui si basano trasmissioni come “Quarto Grado”.

Il presentatore è solito parlare con i vari giornalisti ed invitati; introduce una storia, dopo qualche minuto ne introduce un’altra con la solita formula “ne parleremo dopo”, cosa non sempre vera. In questo modo il presentatore tiene alta la tensione e non scende troppo in profondità. Vi è poi la sua collega che riassume egregiamente i fatti e dà la parola agli ospiti, senza esprimere mai la sua opinione. Il ritmo è rapido, quasi come se ci trovassimo in un videoclip; i racconti, quasi sempre melodrammatici e corredati da una colonna sonora, sottolineano la sofferenza delle vittime del reato e delle persone a loro più vicine [1].

Sarebbe troppo semplicistico affermare che il merito o la colpa del perché un delitto diventi famoso sia da attribuire solo al potere dei media. Esistono delle caratteristiche ben precise che rendono più interessante un crimine rispetto ad altri. Affinché un fatto di cronaca possa diventare di interesse nazionale, è necessaria la presenza di almeno un cadavere; una rapina in banca, un’estorsione o uno stupro non sono in grado di raggiungere lo stesso impatto mediatico di un omicidio. L’interesse per il lato oscuro presente in maniere latente è circoscritto nell’inconscio di ciascuno di noi.

La trasmissione in onda sul quarto canale ha dedicato numerose puntate sull’omicidio della giovane Sarah Scazzi e sui suoi sviluppi, come ad esempio l’arresto della cugina e della zia. Pur trattandosi di delitto avvenuto in famiglia ogni singolo passaggio viene comunicato egregiamente. In particolare, nelle ultime puntate relative al caso, veniva spesso riproposta l’immagine delle due detenute accompagnate in cella, e venivano inquadrate continuamente le facce della zia di Sarah e di sua figlia. Più e più volte gli esperti del montaggio si sono soffermati sui particolari (quanto fossero magre o in salute) e sui vestiti indossati dalle due donne. In questo caso le immagini, accompagnate da un motivo musicale scelto ad hoc, assumono un ruolo attrattivo di primaria importanza per chi le guarda; ruolo ancora più importante se tali immagini vengono proposte ripetutamente. “Ecco i mostri! Gli artefici dell’efferato delitto, ora posso star tranquillo…sono in carcere!” è il messaggio subliminale che arriva al telespettatore.

Ancora una volta il ruolo esorcizzante della televisione, la paura e al contempo la voglia morbosa di vedere ossessivamente le stesse immagini e quel che rappresentano. Il processo psicologico del telespettatore porta ad identificare un assassino particolarmente feroce e depravato nella persona più vicina alla vittima, anche quando i conoscenti rispondano alle domande dei giornalisti affermando che fossero “brave persone, che non si sono mai accorti di nulla, erano così gentili” e via discorrendo. Il Mostro, per lo spettatore, deve essere immediatamente riconoscibile sia per l’aspetto fisico che per le sue azioni.

Altro nodo nevralgico dell’omicidio deve essere la confessione, ovvero la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte, la quale provoca uno sgonfiamento immediato dell’interesse della collettività, le responsabilità vengono così accertate e non c’è più nessun mistero da dipanare.

Contrariamente, se il sospettato non dovesse confessare e gridasse a gran voce la sua innocenza il caso acquisterebbe una maggiore potenza drammaturgica ed il pubblico inizierebbe a schierarsi nelle due opposte fazioni: gli innocentisti e i colpevolisti. I giornalisti si sentono in diritto di scavare sempre più a fondo nella vita, nelle abitudini e nella personalità del sospettato, adottando la giustificazione della ricerca della verità: a tal proposito nasce la figura del criminologo da salotto.

Secondo Aldo Grasso, il criminologo da salotto è una nuova figura prolifera negli ultimi anni e la sua occupazione degli spazi televisivi è direttamente proporzionale al sempre crescente interesse del pubblico per i casi di cronaca nera. I dibattiti nei talk show avvengono costantemente prima che vi sia anche il solo primo grado di giudizio ed è molto facile, in questo modo, condizionare il pubblico affinché abbia una visione distorta sugli avvenimenti. Il risultato finale è che la persona accusata del fatto verrà prima condannata o assolta dai mass media e successivamente lo sarà nei tribunali. La verità televisiva, in particolare nel caso di Sabrina Misseri, si sovrappone alla verità processuale. Il crimine paga, almeno in notorietà. Noto non è soltanto chi lo commette ma anche chi costantemente si presenta nelle note trasmissioni televisive. L’immagine del criminologo veicolata dal mezzo televisivo che entra nelle case degli italiani è un’immagine spettacolarizzata e molto superficiale, ridotta ad un personaggio tuttologo da talk show che dice la sua in merito a  qualsiasi argomento [2].

Il contributo del criminologo  nella risoluzione di un fatto criminoso, però, può essere decisivo, in quanto è in grado di svelare particolari tralasciati ed ignorati da chi svolge le indagini preliminari. Il suo intervento ha inoltre un forte impatto sul piano sociologico, psicologico, medico-legale che abbinandosi al tecnicismo giuridico delle regole di indagine può sortire risultati che altrimenti sarebbe difficile raggiungere [3]. L’accertamento della colpevolezza dell’imputato e di  ogni altro fatto all’interno del processo penale non è una verità assoluta non suscettibile di censure e revisioni. Sarebbe assurdo che dinanzi ad una sentenza dichiarativa della colpevolezza dell’imputato si possa discutere sulla sua valenza assoluta o relativa, o meglio sia suscettibile o meno di revisione con cui si chiederebbe un nuovo esame della fattispecie a causa dell’emersione di elementi che rappresentano lo specchio di una realtà diversa rispetto a quella accertata in sede processuale.

La spettacolarizzazione del processo prevale sulla corretta informazione: è crimine solo il crimine che fa notizia, ossia quello violento, individuale, moralmente sensazionale, eziologicamente indecifrabile. Se nel caso Scazzi la presenza dei media ha in qualche modo accelerato le indagini svolte non soltanto dagli inquirenti ma anche dai giornalisti che reperivano le informazioni anche per vie traverse; nel caso di Angela Celentano i media hanno allontanato la verità dalla risoluzione del caso. In sede processuale l’attenzione viene riposta sia sul comportamento del giudice quanto su quello della persona già condannata dai media. Si avvia un contraddittorio spurio, mirato a convincere in primis il giudice, in secundis l’opinione pubblica.

Viene meno anche la parità nel contraddittorio: l’accusa disporrà sempre di un numero elevato di informazioni (spesso acquisite grazie all’intervento dei media), mentre la difesa disporrà di un numero minimo di informazioni ma godrà di una più ampia libertà di esternazione. Il processo massmediatico, inoltre, genera una crisi dell’Art. 27 Cost., in cui “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, poiché l’imputato verrà prima condannato dall’opinione pubblica e solo successivamente, ed ipoteticamente, da un giudice.

 

[1] Se volessimo analizzare la puntata del 18 Novembre 2011 vediamo come ogni esperto abbia a stento 5 minuti per ogni 1
suo intervento e che i casi discussi sono all’incirca 9: in ognuno di essi viene intervistato un membro della famiglia che
gioca sempre un ruolo cruciale.

[2]  C. PENNA, “Delitti e mass media: il vero ruolo del criminologo”,  disponibile qui: http://www.chiarapenna.it/delitti-e-mass-media-il-vero-ruolo-del-criminologo/

[3] V. supra

Fonte immagine: Eco di Bergamo

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