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Il fumo uccide, ma non sempre assicura il diritto al risarcimento del danno

Il d.lgs. 24 giugno del 2003, n.184[1], emesso in attuazione della Direttiva 2001/37/CE sul riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri relative alla lavorazione, alla presentazione e alla vendita dei prodotti del tabacco, ha abrogato la previgente legge n. 428/1990. Quest’ultima, in particolare all’art. 46[2], rubricato “etichettatura dei prodotti del tabacco”, puniva con ammenda fino a cinquanta milioni e l’arresto fino ad un anno chiunque avesse commercializzato tabacchi e prodotti ad essi assimilati lavorati con condizionamento privo delle avvertenze relative al tenore di catrame o di nicotina; dell’avvertenza « nuoce gravemente alla salute » ; delle avvertenze specifiche per i contenitori di sigarette.

Rispetto a questa previsione, ciò che cambia nel quadro predisposto dal d.lgs. de quo non è soltanto il quantum della sanzione pecuniaria, corrispondente ad una somma che varia dai 10.000€ ai 50.000€ e che raddoppia nei casi di particolare gravità o di recidiva, ma anche la mancata previsione dell’arresto fino ad un anno del soggetto che pone in essere la condotta vietata dalla legge.

Nella specie, l’art. 3 del d. lgs. 184/2003, contiene indicazioni circa il massimo tenore in catrame, nicotina e monossido di carbonio che, a decorrere dal 1° gennaio 2004, deve essere rispettato dai soggetti produttori di tabacco, anche in riferimento a quei prodotti destinati all’esportazione[3].

Ad oggi però la disciplina è racchiusa nel d.lgs. 6/2016[4], abrogativo della direttiva 2001/37/CE, salvo che per l’art. 28 commi 2 e 3, contenente disposizioni sulle sigarette elettroniche.

In questo quadro normativo non può non essere annoverata anche la Legge Sirchia, volta a prevenire l’insorgenza delle patologie ingenerate nell’uomo dal fumo passivo e cioè dalla respirazione di aria viziata dal fumo altrui, che prescrive tutta una serie di norme specifiche per le sale dei fumatori, distinguendo i luoghi aperti al fumo da quelli parzialmente aperti fino a quelli nei quali è assolutamente vietato fumare. Tra questi le scuole pubbliche, i cortili delle scuole, le spiagge pubbliche attrezzate, i parchi pubblici e le auto private se sono a bordo minori[5].

In un’ottica di protezione pubblica, non è più concesso fumare in auto in presenza di minori o donne incinte, non è più consentito fumare presso le cliniche ospedaliere e i centri di ricerca, verrà multato chi sorpreso a gettare mozziconi di sigaretta a terra, inoltre vengono inasprite le pene per coloro che vendono tabacco ai minori. Ciò è dovuto grazie al recepimento della direttiva 2014/40/UE.

Uno dei temi che più colpisce è sicuramente quello del fumo passivo e attivo e dei danni che esso provoca. Vediamo insieme quali conseguenze, in termini giuridici, possono derivare.

Il danno da fumo passivo configura a tutti gli effetti una lesione dell’art. 32 Cost. laddove tutela la salute quale diritto fondamentale dell’individuo e trova il suo nodo centrale, nell’ambito delle condizioni di lavoro, nell’art. 2087 c.c. .

Non a caso è stata emanata un’importante sentenza dalla Sez. Lav. Civ. della Corte di Cassazione, n.4211/2016[6], riguardante una ricorrente giornalista professionista ed inquadrata come “redattore” alle dipendenze della RAI con contratto a tempo indeterminato.La Corte confermava il riconoscimento della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c.per l’esposizione della lavoratrice al c.d. fumo passivo, con conseguente condanna della società convenuta al risarcimento dei danno biologico e morale, già statuito in grado di Appello, «per non aver posto in essere misure idonee a prevenire la nocività dell’ambiente lavorativo derivante dal fumo».

Del tutto diversa è la dinamica conseguente al c.d. fumo attivo.

Fumare è frutto di una scelta libera e consapevole e i cui danni sono ben noti sin dagli anni ’70 in Italia.

È assai recente[7] il caso di un fumatore incallito che, dopo essersi ammalato di cancro ai polmoni, ha citato in giudizio la British American Tobacco, i Monopoli dello Stato, i ministeri delle Finanze e della Salute e la Philip Morris Italia per i danni da lui subiti per la malattia contratta a causa del fumo. I giudici del merito avevano bocciato il ricorso ritenendo «manifesta» l’«insussistenza del nesso di causa» tra le «pretese condotte illegittime» dei produttori di sigarette e dello Stato e il «danno»: la Corte d’Appello di Roma, in particolare, aveva evidenziato che «la dannosità da fumo costituisce da lunghissimo tempo dato di comune esperienza» e che «non può sostenersi che la nicotina annulli la capacità di autodeterminazione del soggetto “costringendolo” a fumare, senza possibilità di smettere, dai 2 ai 4 pacchetti al giorno». A loro volta, alla morte del de cuius, i suoi eredi hanno rinnovato le richieste, ma, ancora una volta, hanno incontrato la risposta negativa nel giudizio di legittimità. La Terza Sezione della Corte Suprema ha persino condannato i familiari al pagamento delle spese processuali, per un ammontare di 20.000€.

Di esito opposto è stata la vicenda durante la quale la Corte d’Appello di Roma, per la primissima volta, ha condannato al risarcimento del danno il produttore E.T.I. che deteneva in Italia il monopolio della produzione e del commercio di tabacchi, oggi, però, acquistato dalla B.A.T. . Il giudice di prime cure, innanzi alla richiesta di risarcimento per danno da fumo attivo confluito nella morte del marito e del padre dei due attori, ritenne non dimostrabile il nesso causale tra il consumo di sigarette e l’insorgenza della malattia.

In Appello, è stato ritenuto sussistente quel nesso di causalità e in più è stata affibbiata la colpa in capo al l’E.T.I. per non aver adempiuto all’obbligo di informazione dei danni causati dal fumo nei confronti del consumatore, in contrasto con gli artt. 32 e 41 Cost. .

La sentenza n.1015/2005 della Corte d’Appello di Roma lascia, insomma, un gran segno, Ad una prima lettura sembrerebbe che la sentenza in esame funga da vero e proprio precedente per i consumatori di tabacco e i loro eredi. Tuttavia ad una più attenta analisi emerge che la Corte d’Appello si è pronunciata su un caso particolare, dotato di caratteristiche molto specifiche, per cui la sua risoluzione non può essere estesa indiscriminatamente alla generalità delle cause concernenti la materia in oggetto.

Ancora, la sentenza della corte romana è stata pronunciata ben più di quindici anni fa, quando il consumatore del caso era morto nel 1991, e soltanto nel 1990 è stata introdotta in Italia la legge n.428/1990 che sanciva l’obbligo per i soggetti che producono e mettono in commercio tabacco di provvedere a porre in essere gli opportuni richiami ed avvertimenti sulla nocività del fumo e i rischi connessi allo stesso. È questo, dunque, un ulteriore elemento che esclude di riconoscere la natura di “precedente” alla sentenza del 2015.

Indi un soggetto che abbia iniziato a fumare dal 1990 non potrà agire in giudizio lamentando di non essere stato debitamente informato dalle case di produzione di tabacco della nocività del fumo e dei rischi ad esso connessi e comunque occorre, dinanzi ad una domanda di risarcimento del danno, sempre esaminare anche altri fattori quali il numero di sigarette fumate al giorno, i precedenti casi tumorali in famiglia, il grado di inquinamento della città in cui si abita ed il lavoro svolto.

[1]http://www.camera.it/parlam/leggi/deleghe/03184dl.htm .

[2] ADDUCCI E., Danno da fumo. Impostazione della cause dirette ad ottenere il risarcimento del danno, 2008.

[3] ADDUCCI E. – FILADORO C., Il risarcimento del danno da fumo, 2005.

[4]http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/01/18/16G00009/sg .

[5] A partire dal novembre 2013 e nel 2014, l’allora ministro della salute Beatrice Lorenzin ha proposto delle modifiche alla Legge Sirchia.

[6] .

[7]Cass., Sez. III Civ., n.11272/2018.

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