giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Il precedente vincolante e la rimessione obbligatoria alle Sezioni Unite: tra tradizioni giuridiche e spinte europeiste

A cura di: Fabrizia Paglionico

Uno dei temi che sono stati maggiormente oggetto di dibattito dottrinario sin dagli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore della Costituzione è quello concernente la funzione nomofilattica esercitata dalla Corte di Cassazione e la sua perdurante crisi.

É piuttosto pacifico che tra le diverse cause riconducibili alla crisi della nomofilachia vi sia l’eccessivo numero di ricorsi alla Suprema Corte, a fronte dei quali saranno prodotte altrettante decisioni non di rado discordanti e ben lontane dall’obiettivo di uniformità sincronica della giurisprudenza. Si tratta, in buona parte, di una conseguenza derivante dell’attribuzione a quest’ultima di funzioni tanto di tutela del diritto oggettivo nazionale – garantendo la esatta applicazione e la uniforme interpretazione della legge – quanto di tutela dei diritti soggettivi, alla luce del riconoscimento costituzionale della ricorribilità in Cassazione avverso tutti i provvedimenti concernenti la libertà personale dell’imputato.

Tra le diverse prospettive di rivitalizzazione della funzione nomofilattica desta particolare attenzione quella incentrata sul valore del precedente giudiziario, la cui vincolatività per i giudici di merito – e per le stesse sezioni semplici della Cassazione – consentirebbe di prevenire contrasti giurisprudenziali conferendo alle pronunce delle Sezioni Unite quel grado di autorevolezza tale da determinare una necessaria uniformazione al dictum contenuto nelle sue sentenze.

Diverse sono le voci a favore della introduzione del precedente vincolante, grazie al quale si conferirebbe maggiore effettività alla garanzia del principio di uguaglianza nell’applicazione della legge penale e al principio di certezza delle interpretazioni (che è anche certezza della pena, ai fini generalpreventivi). A fortiori, il precedente vincolante renderebbe effettive le libertà e i diritti fondamentali riconosciuti sulla Carta (rectius le Carte nazionali come sovranazionali), creando un ambiente di sicurezza giuridica in cui tali libertà e diritti possono essere liberamente esercitati senza incappare nel «reato come rischio sociale»[1].

Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ritenuto, nella sentenza n.18288 del 2010[2], di ‘includere’ il precedente giudiziario tra le fonti del diritto aderendo alla giurisprudenza EDU, la quale sancisce la irretroattività dell’overruling con effetti in malam partem. In tal sede, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover includere nel concetto di “nuovo elemento di diritto” ex art. 666 c.p.p. anche il mutamento giurisprudenziale che assume, soprattutto a seguito di un intervento delle stesse, carattere di stabilità ed integra il “diritto vivente”, ancor di più se è funzionale a garantire il rispetto dei diritti fondamentali. Si tratta di una fondamentale pronuncia con cui la Cassazione ha manifestato espressamente il proprio atteggiamento nei confronti del tema del valore del precedente in ambito penalistico, in cui ha delineato il concetto di ‘diritto vivente’ nella sua accezione di uniformità degli orientamenti, e che ha trovato, tuttavia, una risposta estremamente critica in dottrina[3].

All’interno di questo contesto si inserisce la riforma dell’articolo 618 c.p.p. (cui la L. 103/2017 aggiunge il comma 1-bis che, trasponendo il comma 3° dell’art. 374 c.p.c., introduce un meccanismo di rimessione obbligatoria del ricorso alle Sezioni Unite in tutti i casi in cui le stesse abbiano già enucleato un principio di diritto sulla medesima questione e le sezioni semplici ritengano di non aderirvi), dal quale può desumersi una chiara volontà legislativa di accentrare l’attività interpretativa del diritto in capo alle Sezioni Unite, alle quali viene riservato il compito di enucleare quei principi di diritto che costituiscono l’astrazione e l’universalizzazione della regola iuris che sarà oggetto di applicazione in futuro da parte dei giudici di merito (e delle stesse sezioni semplici).

Si impone a tal proposito una necessaria analisi dei profili di compatibilità del precedente vincolante con i caratteri distintivi del nostro ordinamento giuridico, in cui l’adesione al precedente avviene in virtù della sua persuasività, determinata dall’autorevolezza riconosciuta alle decisioni dell’organo da cui promanano, e non perché la legge imponga un obbligo ai giudici, previsione che, peraltro, si porrebbe in contrasto con la regola costituzionale secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge (art. 101 comma 2 Cost.)[4].

Proprio in ragione delle tradizioni giuridiche del sistema di diritto italiano, diverse sono le perplessità sorte dalla normativa introdotta con la riforma, in particolar modo, in un ambito come quello penale ove, pur in assenza di una regola come quella dello stare decisis, con alcune norme del codice del 1988[5] era stato conferito alle Sezioni Unite l’importante ruolo di organo regolatore dei contrasti. Nella Relazione al codice del 1988[6] venne precisato che, pur in assenza di un obbligo esplicitamente previsto per le sezioni semplici di rimessione alle Sezioni Unite, il meccanismo dell’art. 618 c.p.p. avrebbe dovuto essere sempre attivato quando sulla questione fossero già intervenute in precedenza le Sezioni Unite e la decisione potesse dar luogo nuovamente a contrasto. È evidente che l’ultimo intervento sull’art. 618 c.p.p., ad opera della Riforma Orlando (L.103/2007), ha positivizzato quelle indicazioni contenute nella Relazione al codice del 1988, rivedendo una disciplina che, all’indomani del nuovo codice di procedura penale, era stata ritenuta “pericolosa” per il sistema di giustizia penale[7], perché non sufficientemente chiara nel prevedere un vero e proprio obbligo di rimessione in caso di contrasti.

Il risultato prodotto dalla riforma è l’introduzione di una idea di precedente vincolante all’interno di un sistema giuridico che non ne consente la affermazione, positivizzata in una disposizione carente sul piano della ragionevolezza nella misura in cui non risulta compatibile con le finalità costituzionali[8]. Non è ancora, dunque, l’epoca del superamento del modello di civil law, sebbene i paradigmi tradizionali di garanzia dei diritti – in primis la riserva di legge – non riescano più ad assolvere con efficienza i propri compiti, determinando così uno spostamento dell’asse verso il terreno dell’interpretazione[9].

All’interno di questo consesto, l’impatto della interazione tra ordinamento interno e quello sovranazionale è di tutta evidenza; sulla spinta delle pressioni europee ha trovato attuazione nel nostro ordinamento un disegno di legge il cui manifesto è la realizzazione di un giusto processo che nella pratica si traduce in un predisposizione di misure efficientiste di matrice anglosassone, la cui compatibilità con le tradizioni giuridiche del nostro sistema pone in serio dubbio il mantenimento non tanto e non solo delle ideologie di fondo, quanto della coerenza col sistema costituzionale in primis[10].

A meno che non si voglia destrutturare il sistema dalle sue fondamenta, è inevitabile sostenere la incompatibilità del meccanismo predisposto dall’art. 618 comma 1-bis con gli artt. 101 comma 2 e 107 comma 3 Cost, nella misura in cui si vincola il giudice ad altro giudice[11].

L’incompatibilità discende fisiologicamente dalla ratio ispiratrice della innovazione legislativa, con tutta probabilità orientata a dare attuazione al principio di legalità così come valorizzato all’interno della giurisprudenza sovranazionale, mediante il rafforzamento del canone di prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Se si è cercato, dunque, di soddisfare istanze di matrice europea il risultato è stato la produzione di un circolo vizioso che da una esigenza di prevedibilità delle decisioni passa per l’accentramento dell’attività interpretativa nel seno delle Sezioni Unite e finisce per ricadere nuovamente sul terreno della giurisprudenza sovranazionale ogni qualvolta non sia stato rispettato l’obbligo di rimessione da parte di una sezione semplice.

All’arretramento dell’autorevolezza dell’organo nomofilattico corrisponde un avanzamento delle Corti sovranazionali, prime fra tutti la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che si fa portatrice del baluardo della prevedibilità delle decisioni e della certezza del diritto. È possibile che assisteremo ben presto ad una condanna da parte della Corte EDU per una decisione resa in contrasto con un orientamento giurisprudenziale consolidato, ossia un orientamento cristallizzato dalle Sezioni Unite. Basti pensare alla condanna da parte della Corte EDU al Portogallo su ricorso di una cittadina portoghese per violazione dell’art. 6 § 1 e 7 della CEDU, ovvero per violazione del principio di certezza del diritto e del giusto processo, causata da una decisione della Corte Suprema contrastante con un consolidato orientamento giurisprudenziale nazionale[12].

Una questione, peraltro, rimasta insoluta è quella relativa all’ipotesi di inosservanza da parte della sezione semplice assegnataria del ricorso della prescrizione imposta dall’art. 618 comma 1-bis c.p.p. La ribellione della sezione semplice al meccanismo obbligatorio di rimessione parrebbe determinare un provvedimento affetto da abnormità[13], essendo stato emesso in sede di esercizio di un potere pur sempre legittimo, ma esercitato al di fuori dei casi consentiti ed ipotesi previste[14], con la precisazione che, trattandosi di una sentenza resa dalla Cassazione, assume una configurazione morfologica diversa rispetto a quel vizio che la giurisprudenza ha riconnesso all’interruzione della sequela procedimentale e quindi della progressività dell’attività funzionale di ius dicere[15].

L’assenza di una espressa comminatoria di invalidità è una conseguenza necessaria della regola dell’assoluta soggezione del giudice soltanto alla legge e fin quando la stessa costituirà fondamento garantistico e limite dello ius dicere qualsiasi intervento in senso sanzionatorio sul piano processuale è destinato a creare distonie sistematiche. Eppure, il Costituente ha voluto riconoscere il rimedio del ricorso per cassazione avverso qualsiasi sentenza che sia stata resa in violazione di una norma di legge. Allo stato ci sarebbero tutti i presupposti per poter invocare la ricorribilità in Cassazione di un simile provvedimento, divenendo l’abnormità, intesa come deviazione dal modello potere-atto-scopo, una manifestazione specifica della violazione di legge di cui all’art. 111 comma 7 Cost[16]. Ebbene, manca un tassello per poter completare questo sistema circolare ed è il riconoscimento espresso di una regola dello stare decisis, in assenza della quale non si può far altro che affidarsi in toto al buon operato dell’interprete, in assenza del quale vi è un’alta probabilità che l’Italia subisca una condanna da parte della Corte di Strasburgo.

É lecito, dunque, chiedersi per quale motivo si sia intervenuti, asistematicamente, sulle norme procedurali e non nel campo ove è possibile individuare la causa originaria del problema: la crisi del principio di legalità nel suo corollario di determinatezza e tassatività. La risposta è intuibile: la postmodernità segna il tempo di forme di controllo più flessibili, nel quadro di un tendenziale superamento di quelle garanzie oggi concepite come sterili formalismi[17], come dei veri e propri ostacoli ad una effettiva lotta al crimine per ‘diffuse esigenze di sicurezza’[18], che spingono all’adozione di canoni ‘deboli’ di comprensione e di interpretazione della realtà, i quali mal si adattano alla forza, alla sostanza dei diritti fondamentali[19]. Su queste premesse, il cd. «pacchetto-Orlando» scarica la mai affrontata inefficienza della giurisdizione sui diritti delle persone e sulla razionalità del sistema[20], mediante la introduzione di un’idea di precedente vincolante ed una consistente riforma del sistema delle impugnazioni, caratterizzata dalla introduzione di filtri in appello ed in Cassazione e, conseguentemente, dalla compressione dei diritti di impugnazione delle parti attraverso ostacoli di natura formale. Pare legittimo, dunque, chiedersi quale sarà la sorte delle nostre tradizioni giuridiche e dei diritti fondamentali degli individui all’interno di questo nuovo quadro normativo.

 

[1] Cfr. A. Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Giappichelli, Torino, 1999, 275; F. Sgubbi,  Il reato come rischio sociale, Il Mulino, 1990, riporta alcuni esempi per dimostrare come il timore di un revirement giurisprudenziale in senso peggiorativo sul piano penale possa compromettere l’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali.

[2] Cass. Sez. Un., sent. n. 18288, 21 gennaio 2010, ove le Sezioni Unite qualificano il revirement giurisprudenziale come un nuovo “elemento di diritto” rilevante ai fini della ammissibilità della nuova richiesta di applicazione dell’indulto ed idoneo, quindi, a scardinare il cd. ‘giudicato esecutivo’.

[3] Cfr. G. Insolera, Luci ed ombre del diritto penale vivente tra legge e diritto delle Corti, in Studi in onore di Mario Romano, Jovene, 2011, passim, ritiene che la pronuncia della Cassazione sia in frizione con il principio di indipendenza funzionale interna dei giudici, stabilito dall’art. 101 comma 2 Cost., dal quale si desume che il giudice non può ricevere che dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio e che nessun’altra autorità possa dargli ordini o suggerimenti sul modo di giudicare in concreto.

[4] Cfr. C. Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione? in Giur.it., ottobre 2017, 2300, ove l’A. sottolinea che «le modifiche legislative apportate nella direzione dell’affermazione della vincolatività del principio di diritto enucleato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione rischiano di erigere a fonte del diritto penale o del diritto processuale penale le stesse Sezioni Unite. Se da un lato vi è l’esigenza di garantire la prevedibilità delle decisioni giurisprudenziali, dall’altro vi è la inderogabilità dei principi fondanti lo Stato di diritto: il bilanciamento presuppone che l’adesione ai dicta delle Sezioni Unite avvenga per convinzione e non per legge».

[5] Ci riferiamo all’art. 610 n.2 e 618 c.p.p. e gli artt. 172 comma 2° e 173 comma 2°, che pur non prevedendo secondo la formulazione originaria del codice un meccanismo di rimessione obbligatoria alle Sezioni Unite ne avevano rafforzato il ruolo di organo risolutore dei conflitti conferendo una particolare vitalità alla nomofilachia in materia penale.

[6] Relazione al testo definitivo del codice di procedura penale, in G.U., 24 ottobre 1988, n. 250, suppl. ord. n. 2, p. 200.

[7] G. Fidelbo, Verso il sistema del precedente? sezioni unite e principio di diritto in www.penalecontemporaneo.it, 2018, 2.

[8] C.  Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione?, in Giur.it., ottobre 2017, 2301.

[9] C. Iasevoli, La nomofilachia come difesa dei diritti fondamentali, in La Cassazione penale ‘giudice dei diritti. Tra chiusura al fatto e vincolo del precedente, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2018, 75.

[10] G. Riccio, Le controverse istanze della legislazione processuale nella XVII legislatura, in (a cura di) C. Iasevoli, Politica e giustizia nella postmodernità del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, 43.

[11] C. Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione?, cit., 2301.

[12] Corte EDU, sent. n. 30123/10, 30 giugno 2015, Ferreira Santos Pardal v. Portugal. Si ricordi anche la condanna da parte della Corte EDU all’Italia nel caso Contrada c. Italia dello stesso anno (14 aprile 2015) per violazione dall’art. 7 CEDU, ossia del principio di legalità europea nella sua accezione di prevedibilità delle decisioni.

[13] C. Iasevoli, Le nuove prospettive della Cassazione penale: verso l’autonomia dalla Costituzione?, cit., p. 2301, richiama l’attenzione sulla «carente ragionevolezza del modulo procedurale ex art. 618 comma 1-bis, che priva la sezione semplice del potere di espletare la funzione decisoria: un provvedimento emesso in difformità dallo schema comportamentale prescritto sarebbe emesso in difetto di potere e, quindi, sarebbe abnorme. Alla luce di questa ricaduta sanzionatoria si rafforza l’incompatibilità dell’obbligo di rimessione con gli artt. 101 comma 2 Cost. e 107 comma 3 Cost. La strutturazione della rimessione non come obbligo, ma come potere discrezionale normativamente orientato, sarebbe stata una soluzione maggiormente conforme a Costituzione».

[14] Cfr. Cass. Pen. S.U. 9 luglio 1997, in Cass. Pen., 1998, 60.

[15] In realtà sul punto non vi è unanimità di opinioni, il che è confermato dal dibattito in sede di lavori preparatori ove fu proposta l’introduzione di una sanzione disciplinare senza successo. L’assunto è discutibile, posto che la voluntas legis è chiaramente orientata a riservare alle Sezioni Unite la possibilità di rivedere i propri orientamenti, in ottemperanza ai principi di certezza del diritto e di prevedibilità delle decisioni giudiziarie, proprio sulla spinta della giurisprudenza della Corte EDU.

[16] C. Iasevoli, Abnormità, cit.

[17] Il riferimento è essenzialmente alla tendenza a produrre norme incriminatrici dai confini labili, mentre Cfr. C. Iasevoli, La nomofilachia come difesa dei diritti fondamentali, in La Cassazione penale ‘giudice dei diritti’, cit., p. 66, si oppone a questa visione nel campo del diritto processuale penale, osservando che «le forme della procedura, cioè le modalità di tutela dei diritti, non sono sterili formalismi, orpelli che intralciano la giustizia o la ragionevole durata del processo, […] dimenticando che la durata ragionevole è anche un diritto dell’imputato previsto dalla Costituzione e, per questa ragione, sottratto ad un’operazione di bilanciamento affidata al giudice.

[18] S. Moccia, Il sistema penale tra emergenze e supplenza giudiziaria, in (a cura di) C. Iasevoli, Politica e giustizia nella postmodernità del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, 22.

[19] S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza e tassatività nel sistema penale italiano, Edizioni Scientifiche Italiane, 2001, 21.

[20] G. Riccio, Le controverse istanze della legislazione processuale nella XVII legislatura, in (a cura di) c. iasevoli, Politica e giustizia nella postmodernità del diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, 2018, 43.

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