giovedì, Aprile 18, 2024
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Il prepotente inserimento delle linee guida dell’A.N.AC. nel genus delle fonti del diritto amministrativo

Una delle innovazioni presentata come tra le più significative del nuovo quadro delle fonti del diritto amministrativo riguarda la soppressione del regolamento attuativo della normativa primaria – oggi contenuto nel DPR 207/2010 – sostituito dalle linee guida emanate dall’A.N.AC.

Nello specifico, l’articolo 1, comma 5 della legge delega – con la quale si arriva all’emanazione del d.lgs. 50/2016 – stabilisce che tali linee guida siano proposte dall’Autorità, sottoposte al parere delle competenti Commissioni parlamentari e infine approvate con Decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

Si tratta di quella che è stata definita come “soft regulation”, il cui obiettivo fondamentale dovrebbe essere quello di creare un apparato regolatore di attuazione della normativa primaria caratterizzato da un elevato grado di snellezza e soprattutto flessibilità.

L’intento dovrebbe, cioè, essere quello di sostituire a disposizioni rigide un sistema di linee guida modificabile più agevolmente e con sufficiente celerità per consentire un rapido adeguamento delle regole di applicazione delle norme primarie alle mutevoli esigenze che nascono dalla realtà operativa.

Rispetto questo obiettivo si pone un tema relativo alle modalità che sono state individuate per veicolare nell’ordinamento le linee guida emanate dall’ANAC.

Tali modalità trovano espressione in un Decreto ministeriale che deve approvare le proposte formulate dall’Autorità. Occorre tuttavia interrogarsi sulla natura di tale Decreto ministeriale.

Nel sistema delle fonti del diritto, i decreti ministeriali possono assumere la natura di atti amministrativi a carattere generale o di atti normativi regolamentari. Il diverso inquadramento che possono ricevere non è questione meramente teorica, avendo piuttosto rilevanti effetti sotto molteplici profili, primo fra tutti quello relativo all’iter da seguire per la loro promulgazione.

Infatti, se il decreto ministeriale ha natura regolamentare esso deve essere adottato previo parere del Consiglio di Stato e sottoposto al visto e alla registrazione della Corte dei Conti.

Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza del Supremo Consesso di Piazza Cavour (n.d.r. Corte Di Cassazione) e del Consiglio di Stato, la natura normativa – e non meramente amministrativa- di un regolamento dipende dal contenuto sostanziale dello stesso: se tale contenuto si sostanzia nella regolazione generale, astratta e integrativa della fattispecie disciplinata dalla norma primaria l’atto è certamente di natura normativa.

In base a questa indicazione, non appare dunque agevole configurare il Decreto ministeriale in questione come mero atto amministrativo, giacché tale qualifica presuppone che esso venga emanato nell’esercizio di un potere amministrativo stricto sensu; mentre nel caso di specie appare più coerente qualificare il Decreto come espressione di una potestà normativa attribuita dalla legge all’organo amministrativo al fine di disciplinare, in termini generali e astratti, aspetti attuativi e/o integrativi della disciplina legislativa di livello primario.

Occorre poi considerare che, per espressa previsione della legge delega, il Decreto ministeriale in questione deve ricevere il preventivo parere delle competenti Commissioni parlamentari.

A parere di chi scrive, anche tale elemento, depone a favore della sua configurazione come atto normativo regolamentare, essendo difficilmente concepibile che su un mero atto amministrativo si pronunci un organismo di natura parlamentare[1].

Altro tema caldissimo, terreno fertile per interpretazioni dottrinali ed attente osservazioni giurisprudenziali, è sicuramente quello della qualificazione giuridica delle Linee Guida dell’Autorità Nazionale AntiCorruzione

Nel Codice degli appalti è stato assegnato all’A.N.AC., attraverso lo strumento delle linee guida, proprio perché più flessibile del regolamento, un compito strategico ed essenziale nella definizione della disciplina normativa secondaria.

È stata, infatti, riservata alle linee guida la disciplina di aspetti fondamentali del regime normativo delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici, motivo per il quale risulta necessario un chiarimento circa la loro qualificazione giuridica alla quale consegua l’identificazione del modello di fonte al quale devono essere ascritte.

Tale complessa operazione ermeneutica si rivela, tuttavia, ancor più complicata dalla diversità delle tipologie di linee guida contemplate dal Codice degli appalti, sia quanto ai contenuti, sia quanto all’autorità emanante, sia, ancora, quanto alla procedura formale prescritta per la loro adozione.

Pur nell’estrema eterogeneità dei diversi modelli di linee guida, il Consiglio di Stato[2] ne ha sostanzialmente previste tre: quelle approvate con decreto ministeriale, quelle vincolanti dell’ANAC e quelle non vincolanti, pur sempre adottate dall’Autorità.

Mentre risulta semplice la qualificazione delle linee guida approvate con decreto ministeriale, di cui abbiamo parlato precedentemente, e quelle non vincolanti adottate dall’ANAC, che risultano essere meri atti amministrativi generali parificati alle circolari contenenti istruzioni operative sull’applicazione della normativa di riferimento, più problematica risulta essere sicuramente la “sistematizzazione” delle linee guida aventi carattere vincolante.

Una prima difficoltà può essere identificata in quella che si può definire “antinomia etimologica” tra la stessa nozione di linee guida ed il carattere vincolato ad esse assegnato.

Secondo la concezione tradizionale, infatti, le linee guida costituiscono un’espressione propria del potere di direttiva[3], che si declina attraverso l’indicazione delle modalità attuative del precetto normativo, ma mai per mezzo di regole cogenti e vincolanti.

Ci si è basati nel legittimare tale attività normativa sulla tipologia di interessi costituzionalmente protetti che entrano in gioco, come la concorrenza tra imprese, e sulla tecnicità della normativa in questione, pensiamo ad esempio alla definizione del sistema di qualificazione delle imprese, dei requisiti di partecipazione alle gare, delle regole dell’avvalimento e del regime delle SOA.

Con tale azione, il legislatore, anche alla luce delle numerose e recenti inchieste giudiziarie relative ad attività illecite in ambito di appalti, ha espresso l’intenzione di allontanare il mercato dei lavori pubblici dalla totale sfera di controllo dell’esecutivo, affidando parte della normativa di dettaglio e secondaria afferente a tale settore, ad un’Autorità priva di conflitti d’ interesse.

Difatti, l’esecutivo, ha spesso avuto al proprio interno membri che svolgono o hanno svolto professionalmente importanti attività imprenditoriali e che potrebbero avere interessi concreti ad una regolamentazione di dettaglio in un modo più tosto che in un altro. Inoltre, l’esecutivo, gestisce, seppur indirettamente, molte imprese ex monopoliste in taluni settori strategici.

Alla luce di quanto sopra visto, pertanto, le linee guida in esame possono essere ricondotte nel novero degli atti di regolazione delle Autorità indipendenti.

Il più immediato corollario di tale ultima ipotesi ricostruttiva è quello della non piena sovrapponibilità del tipo di atto in questione con il sistema delle fonti secondarie così come definito dall’ art. 17 della legge n. 400 del 1988, che prevede la denominazione espressa di “regolamento”, la sottoposizione dello schema di regolamento al rigido vaglio del Consiglio di Stato, la delibera del Consiglio dei ministri, il decreto presidenziale di emanazione, la registrazione della Corte dei Conti, e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale[4].

Pertanto, mentre in favore della disciplina di attuazione degli appalti pubblici tramite linee guida dell’ANAC entrano in gioco esigenze di regolazione tecnica nel complesso settore degli appalti pubblici, appropriata tutela di interessi costituzionalmente e comunitariamente protetti come la libera concorrenza, imparzialità tendente alla neutralità in un settore che ha visto ampliarsi sempre più i conflitti d’ interesse tra politica ed imprenditoria con l’ emergere di molteplici problematiche corruttive; in contrasto, invece, con il considerare in maniera positiva questa disciplina, si pone l’ assenza di legittimazione democratica delle Autorità indipendenti.

Tuttavia, tale ultima considerazione può anche essere attenuata dalla considerazione che la legittimazione democratica delle Authorities promana dal basso, attraverso il rafforzamento del procedimento amministrativo e tramite il coinvolgimento e la partecipazione effettiva dei soggetti coinvolti nella “normazione, ai fini dell’emanazione degli atti.

Difatti, prima della definizione delle linee guida in materia di appalti, l’A.N.AC. è tenuta a seguire l’iter previsto dal proprio regolamento n. 92 del 2015, recante la disciplina di partecipazione ai procedimenti di regolazione.

Un contemperamento dei principi poc’anzi esposti, potrebbe anche indurre ad utilizzare gli strumenti di regolazione flessibile e dalla nomenclatura atipica, quali sono le linee guida, solo per le istruzioni e le raccomandazioni che non incidono direttamente sui diritti e sugli obblighi dei consociati e che attengono, invece, alle migliori pratiche di attuazione della normativa di riferimento e alla più efficace realizzazione dei suoi obiettivi.

All’esito di un’attenta riflessione sulla natura degli atti in esame, si arriva alla conclusione secondo la quale, in altri termini, le linee guida dovrebbero fungere da accompagnamento e da supporto alle pubbliche amministrazioni, ai fini della più utile attuazione della normativa primaria e secondaria di riferimento e, in definitiva, a ottenere l’impatto più coerente con le ragioni e con gli scopi che hanno giustificato l’intervento regolativo[5].

 

[1] R. MANGANI, in tal senso, afferma espressamente che “non si può fare a meno di rilevare che l’effetto di flessibilità del sistema che dovrebbe essere l’obiettivo fondamentale dello strumento introdotto rischia di essere fortemente penalizzato. Se infatti le linee guida predisposte dall’ANAC hanno necessità, prima di essere emanate e diventare quindi cogenti, di seguire l’iter previsto per i decreti ministeriali di natura regolamentare (parere preventivo del Consiglio di Stato e registrazione e visto della Corte dei Conti, cui si deve aggiungere il parere preventivo delle Commissioni parlamentari competenti), è evidente che la possibilità di adeguamento tempestivo dell’apparato regolatore secondario esce fortemente ridimensionata. A ben vedere, infatti, il procedimento di emanazione di un decreto ministeriale avente natura regolamentare non è molto diverso da quello che presiede all’emanazione di un DPR, che era appunto lo strumento che veicolava il regolamento attuativo del D.lgs. 163/2006 e che la legge delega ha voluto espressamente sopprimere. Cosicché sembra delinearsi una situazione in cui la novità introdotta rischia di tradursi più in un fatto nominalistico che in un profondo mutamento delle modalità di regolazione secondaria della materia dei contratti pubblici.

[2] In tal senso, si veda il Parere della Commissione speciale del Consiglio di Stato sul Codice degli appalti, 1 aprile 2016, n. 855.

[3] Consiglio di Stato, Sezione consultiva per gli atti normativi, parere in data 21 gennaio 2008.

[4] In tal senso, “La maggior critica che si eleva a tale nuova impostazione, è che l’introduzione nell’ordinamento di norme giuridiche destinate a regolare i rapporti tra cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni, non può che restare riservata ad autorità democraticamente legittimate a limitare le posizioni soggettive dei consociati e quindi da autorità alle quali la Costituzione riconosce la rappresentatività della collettività tramite la delega di sovranità effettuata al momento del voto e, quindi, solo al Parlamento o al Governo (che ritrae la sua legittimazione democratica dalla fiducia accordata dal Parlamento). Ragionando a contrario, taluni escludono la titolarità della legittimazione a produrre norme di diritto in capo ad Autorità del tutto sprovviste di quella legittimazione democratica che fonda il potere di limitare la sfera giuridica dei cittadini.”, Morano G., disponibile su www.diritto.it, pubblicato l’11/05/2016.

[5] In tal senso, si afferma che “Se ricondotte entro questi limiti, risulteranno uno strumento molto efficace attraverso il loro carattere informale e duttile ed eviteranno di complicare l’attuazione delle leggi generando il rischio di un contenzioso dagli esiti incerti circa la loro compatibilità costituzionale. Una tale impostazione, per un verso, permetterebbe di arginare il fenomeno dell’ atipicità delle fonti secondarie e della fuga dal regolamento, con conseguente riconduzione dell’attività di “normazione sub-legislativa” entro gli schemi regolamentari tipici di cui alla legge 400 del 1988, ma, per altro verso, manterrebbe quasi univoco il legame tra il potere esecutivo e la disciplina degli appalti pubblici, limitando fortemente lo spazio di operatività normativa dell’ Anac con riferimento alla disciplina di settore ,escludendo la possibilità di emanare linee guida cogenti che non siano recepite in regolamenti ministeriali”. Morano G., disponibile su www.diritto.it, pubblicato l’11/05/2016.

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