giovedì, Aprile 18, 2024
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Il riordino degli enti locali attraverso le fusioni dei comuni

La Costituzione le prevede, il legislatore ne ha predisposto i mezzi. In Italia, tuttavia, le fusioni dei comuni non si attuano, o almeno non nella misura necessaria per stare al passo con l’Europa. Per tale ragione, appare doveroso prendere coscienza di uno degli strumenti amministrativi più interessanti del panorama giuridico italiano, al quale il legislatore nazionale ricollega numerosi vantaggi.

Partiamo dai numeri. Con la caduta del regime fascista – che aveva operato l’accorpamento d’imperio di svariati enti locali – in Italia si è registrata la pletorica istituzioni di nuovi comuni. Tra il 1861 ed il 2009 ne sono nati ben 380, raggiungendo un ammontare complessivo di 8.100 unità. Questo dato è del tutto in controtendenza con quello europeo, e rispecchia il ritardo sostanziale dell’Italia nella politica di razionalizzazione amministrativa degli enti locali, in corso in diversi Paesi europei tra cui Germania, Francia, Svizzera e Belgio (Paese, quest’ultimo, nel quale il numero dei comuni è passato dalle 2.739 unità esistenti nel 1831 alle 589 attuali).

Per invertire questo trend, nel 2000 il legislatore nazionale – in ottemperanza a quanto sancito dalla Costituzione all’articolo 133 – ha introdotto nel Testo Unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti locali l’istituto della fusione dei comuni (già disciplinato da alcune normative regionali). Questo consiste nell’accorpamento di più enti in un unico nuovo comune di maggiori dimensioni, mediante la soppressione dei comuni esistenti. Rappresenta dunque un processo di riordino territoriale che ridefinisce i confini amministrativi di più comuni, unendone le strutture di servizio e di rappresentanza.

Al Comune Unico, tuttavia, può addivenirsi soltanto mediante l’ascolto delle «popolazioni interessate» e, dunque, attraverso lo strumento del referendum consultivo: sono infatti gli abitanti dei comuni coinvolti a rendere possibile tale procedimento. Vista la (almeno iniziale) scarsa attuazione dell’istituto, sono stati poi previsti una serie di non trascurabili incentivi alle fusioni, quali l’allentamento del Patto di Stabilità (Legge Delrio) ed il contributo straordinario pari al 40% dei trasferimenti erariali complessivamente attribuiti ai comuni preesistenti per l’anno 2010 (Legge di Stabilità 2017). Insomma, la spinta razionalizzatrice è lasciata sì all’autonomia delle popolazioni interessate, ma risulta anche fortemente voluta dal legislatore nazionale.

Ma da cosa scaturisce la necessità per due (o più) distinte entità territoriali di fondersi in un’unica, grande realtà? In proposito, autorevole dottrina ha sostenuto che una comunità è tale solo se gode (o può aspirare di godere) di un elevato livello di welfare. Tale ultimo sembrerebbe difficilmente raggiungibile nel lungo periodo soprattutto dai comuni più piccoli che, in assenza di opportunità economiche e sociali, si trovano spesso a gestire risorse insufficienti ad assicurarsi la sopravvivenza identitaria: questi infatti non solo possiedono una popolazione residente numericamente ridotta, ma talvolta sono ubicati in territori contigui, con analoghi uffici che svolgono le medesime attività e con conseguente tendenza ad una notevole moltiplicazione dei costi. La fusione, da questo punto di vista, può rappresentare per questi ultimi non solo un “taglio delle poltrone”, ma soprattutto il recupero di una situazione di welfare dignitosa.

Andrea Amiranda

Andrea Amiranda è un Avvocato d'impresa specializzato in Risk & Compliance, con esperienza maturata in società strategiche ai sensi della normativa Golden Power. Dal 2020 è Responsabile dell'area Compliance di Ius in itinere. Contatti: andrea.amiranda@iusinitinere.it

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