giovedì, Marzo 28, 2024
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La coltivazione per uso personale di Marijuana

La coltivazione per uso personale di Marijuana
La coltivazione per uso personale di Marijuana

La Marijuana sembra essere uno degli argomenti che maggiormente scuote gli animi della società tra chi, ritenendola sostanza innocua e benefica propende verso la liberalizzazione e chi invece, per tutto contro, ne condanna il suo utilizzo.  Tralasciando la questione in merito e rimandando alla lettura di un altro approfondimento già presente, si consideri la questione della coltivazione personale di Marijuana; da sempre sono presenti orientamenti contrastanti della Suprema Corte in materia.

Partendo dal 2008, si è notato come le Sezioni Unite abbiano ritenuto che, ai fini della punibilità della condotta di coltivazione di marijuana, è irrilevante la destinazione o meno ad uso personale della suddetta, anche se è indispensabile, ai fini della sussistenza del reato, la verifica da parte del giudice circa l’offensività in concreto della condotta; riferita però non alla destinazione ad altri dello stupefacente, ma all’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile.Secondo tale interpretazione giurisprudenziale dunque, anche la coltivazione delle piante di Cannabis per semplice uso ornamentale, o ancora per il semplice piacere di avere delle piante da curare, potrebbe integrare il suddetto reato. Quindi le Sezioni Unite con pronuncia 28605/2008 hanno statuito che la coltivazione delle piante, dalle quali, siano estraibili sostanze stupefacenti costituisce reato a prescindere dalla circostanza che l’uso della sostanza sia personale o meno.

Nel 2013, la Cassazione è tornata ad esprimersi in merito alla distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione tecnico-agraria. La Sentenza Zilli (Cass., sez. 6, n. 51497 del 2013), emanata in riferimento ad una fattispecie riguardante la coltivazione di una pluralità di piantine di cannabis all’interno di una serra rudimentale, affermava che la coltivazione di piante, da cui sono estraibili sostanze stupefacenti, è penalmente rilevante a prescindere dalla distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica, posto che l’attività in sé, in difetto delle prescritte autorizzazioni, è da ritenere potenzialmente diffusiva della droga.

Poi con la sentenza 14 aprile 2014 il G.M. presso il Tribunale di Monza ha assolto invece un imputato sia dall’accusa di detenzione, che di coltivazione di Marijuana. Il Giudice ha motivato la sentenza adducendo la necessità che al fine di poter condannare un imputato per il reato previsto dall’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) secondo il quale costituisce reato la coltivazione senza autorizzazione di piante di marijuana (che è una sostanza psicoattiva che si ottiene dalle infiorescenze essiccate delle piante di Cannabis),  occorre accertare l’offensività in concreto della condotta e cioè la effettiva idoneità dell’attività di coltivazione a ledere il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice ovvero il bene della salute di terzi a cui la sostanza stupefacente prodotta sia destinata o ceduta, cosi accrescendone la circolazione e diffusione. Secondo l’opinione del Tribunale di Monza, nella fattispecie non vi erano elementi per sostenere una destinazione a terzi della marijuana in quanto oggetto del (non) reato fosse una sola pianta, detenuta in casa. Difettano quindi, sempre secondo il giudice, la predisposizione di dispositivi tecnici atti ad accelerare l’accrescimento o l’incrementato della produzione e che configurino elementi di prova della concreta offensività penale della condotta di coltivazione.

Le pronunce della Cassazione però non sembrano arrestarsi: “La coltivazione di una sola pianta di canapa o marijuana non costituisce reato in quanto tale produzione non costituisce pericolo per la salute pubblica”. E’ ciò che ha stabilito la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione con sentenza n. 40030 del 26 settembre 2016.

Come confermato da costante giurisprudenza di legittimità, la punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa solo se il giudice ne accerti l’inoffensività in concreto, ovvero quando la condotta sia così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento della disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa, restando in tal senso non sufficiente l’accertamento della conformità al tipo botanico vietato (Cass. pen., Sez. IV, 19 gennaio 2016, n. 3787 e Cass. pen., Sez. VI, 17 febbraio 2016, n. 8058).

Del tutto controcorrente, la IV Sezione della Suprema Corte con sentenza del 21 settembre 2017 numero 43465, ha statuito invece che la coltivazione costituisce di per sé reato a prescindere dallo scopo per il quale viene posta in essere, quindi anche nel caso in cui si tratti di coltivazione ad uso personale in quanto nel caso di coltivazione , viene meno il nesso di immediatezza con l’uso personale. Tale orientamento trova il suo riscontro in precedenti ma remote pronunce della Corte Costituzionale, la sentenza 24 luglio 1995, numero 360; sempre della Consulta la pronuncia 20 maggio 2016 numero 109 e l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite con sentenza 24 aprile 2008 numero 28605.

L’ultima pronuncia in merito è stata della Cassazione a seguito della condanna, da parte della Corta d’Appello, emessa a carico di un individuo che coltivava, così come risultato da prove, 20 piante di marijuana. Il condannato in secondo grado aveva proposto ricorso per Cassazione facendo valere l’illegittimità costituzionale dell’art. 73 comma 1 del D.P.R 309/1990  Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, e’ punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000” e rilevando inoltre anche l’illegittimità costituzionale degli art. 3, 13, 15, 27 Cost. A seguito di tali orientamenti gli Ermellini hanno dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente condannandolo.

La Cassazione si era espressa anche a giugno in merito, statuendo che già soltanto il seme di marijuana è una pianta in potenza pertanto non rileva la quantità di piante detenute ma per poter stabilire se la coltivazione di piante di marijuana a casa è reato o meno, non bisogna verificare la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma l’attitudine della pianta, anche per numero e le modalità di coltivazioni, a giungere a maturazione e a produrre droga. La Corte aveva precisato che il fatto che, al momento dell’accertamento, dalle piantine sia ricavabile un principio attivo inferiore alla soglia minima drogante non è rilevante; basta la loro potenzialità a produrlo anche in un momento successivo. (Cass. sent. n. 30238/17 del 16.06.2017)

La Cassazione ha di recente assunto un atteggiamento quindi ancora più rigoroso: per far scattare il reato non conta la pericolosità delle piantine di cannabis al momento dell’arrivo delle autorità, piante che ben potrebbero essere ancora lontane dalla maturazione tanto da non destare alcun pericolo per la collettività; conta ciò che esse possono diventare in potenza. A rilevare è cioè la capacità degli arbusti di produrre «quantità significative di prodotto drogante». Il che significa che 15 piantine di marijuana, sebbene ancora minuscole, possono integrare il reato di coltivazione di droga in quanto potenzialmente pericolose.

Quindi anche se c’è stata grossa altalenanza da parte della Cassazione in merito negli anni, ciò che ad ottobre è stato rilevato e statuito è che la coltivazione di marijuana a qualsiasi titolo coltivata, sia ad uso personale che ornamentale o ancora per spaccio, ha ugual rilevanza dando così attuazione a quello che è il testo normativo dell’art. 73  d.P.R 309/1990 di cui sopra.

 

 

Valeria D'Alessio

Valeria D'Alessio è nata a Sorrento nel 1993. Sin da bambina, ha sognato di intraprendere la carriera forense e ha speso e spende tutt'oggi il suo tempo per coronare il suo sogno. Nel 2012 ha conseguito il diploma al liceo classico statale Publio Virgilio Marone di Meta di Sorrento. Quando non è intenta allo studio dedica il suo tempo ad attività sportive, al lavoro in un'agenzia di incoming tour francese e in viaggi alla scoperta del nostro pianeta. È molto appassionata alla diversità dei popoli, alle differenti culture e stili di vita che li caratterizzano e alla straordinaria bellezza dell'arte. Con il tempo ha imparato discretamente l'inglese e si dedica tutt'oggi allo studio del francese e dello spagnolo. Nel 2017 si è laureata alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli, e, per l'interesse dimostrato verso la materia del diritto penale, è stata tesista del professor Vincenzo Maiello. Si è occupeta nel corso dell'anno di elaborare una tesi in merito alle funzioni della pena in generale ed in particolar modo dell'escuzione penale differenziata con occhio critico rispetto alla materia dell'ergastolo ostativo. Nel giugno del 2019 si è specializzata presso la SSPL Guglielmo Marconi di Roma, dopo aver svolto la pratica forense - come praticante avvocato abilitato - presso due noti studi legali della penisola Sorrentina al fine di approfondire le sue conoscenze relative al diritto civile ed al diritto amministrativo, si è abilitata all'esercizio della professione Forense nell'Ottobre del 2020. Crede fortemente nel funzionamento della giustizia e nell'evoluzione positiva del diritto in ogni sua forma.

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