martedì, Marzo 19, 2024
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La Corte Costituzionale sulla legge Pinto: sentenza 88/2018

La legge 24 marzo 2001, n. 89 – nota come legge Pinto – costituisce lo strumento di tutela predisposto dal nostro ordinamento contro la piaga delle lungaggini processuali, estremamente diffusa in Italia e più volte censurata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Essa, infatti, prevede che coloro che hanno subito un processo di durata irragionevole possano richiedere una riparazione equa per il danno subito, patrimoniale e non.

La legge si propone, in primis, di definire il concetto di durata ragionevole del processo e a tal proposito dispone che per il primo grado di giudizio si reputano ragionevoli tre anni, per il secondo grado due anni e per il grado di legittimità un anno[1]. Termini specifici valgono per il procedimento di esecuzione forzata e per le procedure concorsuali. Il termine ragionevole si ritiene in ogni caso rispettato se il giudizio definitivo e irrevocabile giunge nel termine massimo di sei anni[2].

Vengono disciplinati, da un lato, una serie di rimedi a carattere preventivo, differenti in base alla tipologia di processo[3] (civile, penale, amministrativo, contabile e pensionistico) e, in via sussidiaria, la proposizione di una domanda all’equa riparazione, nella forma del ricorso al Presidente della Corte d’appello del distretto in cui ha la sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo contestato. Quest’ultima è finalizzata alla liquidazione giudiziale di un indennizzo, il cui ammontare sarà non inferiore a quattrocento euro e non superiore a ottocento euro per ciascun anno o frazione ultra semestrale di anno in cui il processo ha ecceduto la durata ragionevole[4].

La Corte Costituzionale con sentenza n. 88 del 26 aprile scorso ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile)  in riferimento agli artt. 3, 111, comma 2, e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1 e 13 Cedu. L’articolo censurato dalla Consulta era stato così modificato nel 2012 con decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito nella legge 7 agosto 2012, n. 134[5]; la norma in esame prevede[va] che la domanda di riparazione potesse essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva[6].

La Corte di cassazione, sezione sesta civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4  in riferimento al parametro della ragionevolezza, del diritto d’azione, del principio della ragionevole durata del processo, così come previsto dagli artt. 111 della Costituzione e nell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

La disposizione censurata, per come interpretata, precludeva la possibilità di proporre domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento presupposto, sebbene la sua durata fosse già irragionevole. La Corte di cassazione censurava la norma proprio nella parte in cui condizionava l’esperimento del rimedio alla previa definizione del procedimento presupposto e invocava una pronuncia additiva, individuando un vulnus costituzionale non sanabile in via ermeneutica.

La Consulta, dunque, ha richiamato una precedente pronuncia, la n. 30 del 2014[7], nella quale aveva già ravvisato nel differimento dell’esperibilità del rimedio all’esito del giudizio presupposto un pregiudizio alla sua effettività, sollecitando l’intervento del legislatore. Nel 2015, il legislatore aveva pertanto introdotto una serie di modifiche con legge n. 208, con la quale erano stati coniati nuovi rimedi dal carattere preventivo.

Sotto questo profilo, la Corte Costituzionale rinvia alla costante giurisprudenza della Corte EDU, secondo la quale i rimedi preventivi sono non solo ammissibili, eventualmente in combinazione con quelli indennitari, ma addirittura preferibili, in quanto volti a evitare che il procedimento diventi eccessivamente lungo; tuttavia, per i paesi dove esistono già violazioni legate alla sua durata, per quanto auspicabili per l’avvenire, possono rivelarsi inadeguati[8]. Inoltre, veniva riconosciuto in numerose occasioni che questo tipo di mezzo di ricorso è “effettivo” nella misura in cui esso velocizza la decisione da parte del giudice competente.

A tal proposito, si legge nelle considerazioni in diritto che “la  concreta efficiacia accelleratoria di tutti i rimedi preventivi introdotti veniva estremamente pregiudicata nella misura in cui, da un lato, alla luce della loro disciplina processuale, non vincolano il giudice a quanto richiestogli e, dall’altro, per espressa previsione normativa, restano ferme le disposizioni che determinano l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti.” [9]

I giudici della Corte dopo aver superato le eccezioni sollevate dall’Avvocature generale dello Stato, ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 89 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 13 CEDU.

In particolare, è stato rilevato che  “i parametri evocati presidiano l’interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, pertanto, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina”.[10]

L’invocata pronuncia additiva non può essere impedita dalle peculiarità con cui la legge Pinto conforma il diritto all’equa riparazione, collegandolo, nell’an e nel quantum, all’esito del giudizio in cui l’eccessivo ritardo è maturato[11].

Posta di fronte a una grave lesione di un diritto fondamentale, la Corte è stata costretta ad intervenire, sottolineando che sarà compito dei giudici comuni far discendere dalla suddetta sentenza le conseguenze sul piano applicativo, mediante l’uso degli strumenti interpretativi a loro disposizione; ma ancora più cruciale sarà il compito del legislatore nel disciplinare eventualmente la materia in esame, qualora emergessero necessità, nel modo più sollecito e opportuno. [12]

 

[1] Legge 89/2001 art 2 co. 2-bis

[2] Legge 89/2001 art 2 co. 2-ter

[3] Legge 89/2001 art 1-ter

[4] Legge 89/2001 art 2-bis

[5]    Corte Costituzionale, sentenza 26 aprile 2018 n. 88

[6] Legge 89/2001 art 4 ‘La domanda di riparazione puo’ essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva.’

[7] Corte Costituzionale, sentenza 24 febbraio 2014 n.30

[8] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia.

[9]  Corte Costituzionale, sentenza 26 aprile 2018 n. 88

[10]   Corte Costituzionale, sentenza 26 aprile 2018 n. 88

[11] Corte Costituzionale, sentenza 24 febbraio 2014 n.30

[12] Corte Costituzionale, sentenza 4 aprile 2011 n. 113

 

 

 

 

 

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