venerdì, Aprile 19, 2024
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La nozione di minaccia e il riferimento ai rapporti tra Stati ex art. 2 par. 4 della Carta ONU

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Il contenuto e la portata del divieto dell’uso della forza sono, da tempo, sia nelle posizioni degli Stati che nelle opinioni della dottrina, oggetto di un serrato e vivace dibattito che ancora oggi non è riuscito a produrre conclusioni unanimemente accettate.
In particolare ad acuire i dubbi interpretativi ha contribuito, accanto all’esistenza di una prassi non sempre lineare in materia, anche l’eccessiva genericità dei termini utilizzati nella Carta. Particolarmente sfuggente, più che la portata del termine “forza”, il quale viene solitamente inteso come riferito a qualsiasi esercizio della forza militare, sia esso sotto forma di attacco diretto, oppure indiretto, sembra essere la portata del termine “minaccia”. Il suo inserimento accanto al divieto dell’uso della forza costituiva una novità dalla portata rilevante; con essa, infatti, la neonata Carta ONU manifestava ab origine la volontà di voler tranciare di netto i rapporti con le passate, nonché fallimentari, regolamentazioni della materia. In modo particolare, essa manifestava la volontà di voler non soltanto vietare il ricorso alla guerra, ma anche qualsiasi altra espressione della violenza militare e finanche la minaccia della stessa.

Orbene, nonostante l’estensione del divieto alle ipotesi di minaccia rappresenti senza dubbio uno sviluppo significativo da un punto di vista politico, non si può dire lo stesso per quanto riguarda la chiarezza con la quale è stata formulata all’ interno della norma in questione. Infatti né la disposizione, né la Carta in altre parti, forniscono una definizione precisa di cosa debba intendersi per minaccia, risultando pressoché impossibile ricostruire una portata applicativa autonoma di tale nozione rispetto alla tipica nozione di uso della forza. Il problema è particolarmente importante perché, al di la delle ipotesi più lampanti, che potrebbero essere rappresentate, ad esempio, dall’invio di un ultimatum da parte di uno Stato, le ipotesi di minaccia potrebbero realizzarsi attraverso atteggiamenti di uno Stato che dimostri, tramite comportamenti concludenti, di voler successivamente ricorrere ad un attacco armato.

La Corte Internazionale di Giustizia in particolare ha affrontato il problema relativo alla possibilità di poter definire come minaccia un’eccessiva militarizzazione da parte di uno Stato, nel famoso caso Nicaragua, concludendo tra l’altro in senso negativo.

Il problema, in realtà, potrebbe essere maggiormente colto qualora venisse analizzato alla luce delle nuove problematiche emergenti dall’evoluzione del diritto internazionale. La crescente importanza dell’operato degli attori non statali, soprattutto per quanto riguarda la lotta al terrorismo, allontana sempre più l’odierna prassi dei conflitti dalle modalità tipiche della guerra a cui siamo abituati, e fa sorgere sempre più la necessità di intervenire in modo tempestivo in situazioni che si presentano in modo mutevole e non sempre prevedibile da un punto di vista normativo. Da qui l’importanza del riconoscimento e della valorizzazione di una fattispecie “aperta” come quella della minaccia dell’uso della forza, che potrebbe essere un riferimento essenziale, soprattutto relativamente alla necessità di intervenire non nei confronti di uno Stato, ma bensì nei confronti di gruppi armati non statali. Dal punto di vista della qualificazione emerge, dunque,  la portata indiretta del divieto, ossia la possibilità di poter reagire una volta qualificata una determinata azione come minaccia.

Il problema dell’accezione del divieto in relazione all’attività di attori non statali, si collega all’espresso riferimento con il quale l’art. 2(4) limita la portata del divieto ai rapporti tra Stati. Di conseguenza, il divieto in questione non opererebbe relativamente a quelle manifestazioni dell’uso della forza poste in essere da uno Stato per sedare rivolte, tumulti o sommosse popolari, ossia quando la forza sarebbe rivolta al mantenimento dell’ordine pubblico. Non vi è universalità di vedute, invece, relativamente alla possibile configurazione del divieto in occasione di una guerra civile. L’opinione dominante si muove nel senso di negare l’operatività del divieto, almeno fin quando il movimento insurrezionale sia in grado di svolgere un controllo effettivo di una parte del territorio e della popolazione, cristallizzandosi quindi in un governo insurrezionale. Questa situazione provocherebbe la nascita di due governi locali de facto e l’eventuale conflitto tra gli stessi non sarebbe più qualificabile come guerra civile, ma bensì come vero e proprio conflitto internazionale, relativamente al quale troverebbe piena applicazione l’art. 2(4). Non manca in dottrina, tuttavia, chi sostiene che sarebbe la stessa guerra civile a produrre due governi locali de facto. Una simile impostazione produrrebbe l’effetto di anticipare la portata del divieto ex art. 2(4), e, quindi, della rilevanza internazionale del conflitto, anche all’uso della forza nei confronti di milizie che non possono vantare un controllo effettivo sul territorio.

Particolarmente interessante è la questione dell’inquadramento dei limiti relativi alla possibile partecipazione al conflitto da parte di Stati terzi. Sul punto, il diritto internazionale è stato oggetto di una significativa evoluzione, che ha portato ad uno sviluppo della materia in un maniera del tutto coerente con la necessità di salvaguardare gli interessi primari della Carta, ossia il mantenimento della pace fra gli Stati e della stabilità nelle relazioni internazionali. Ad oggi infatti, il diritto internazionale vieta agli Stati terzi di intervenire a supporto di entrambe le parti in una guerra civile, onde evitare una possibile degenerazione del conflitto conseguente alla discesa in campo di Stati terzi a sostegno dell’una o dell’altra parte. E’questo un altro aspetto dal quale emerge con forza la lontananza del sistema normativo ONU rispetto alle caratteristiche odierne del diritto internazionale. Se è vero, infatti, che è fatto salvo in ogni caso il possibile intervento del Consiglio di Sicurezza alla luce dei poteri attribuitigli dal capitolo VII della Carta, nel caso avesse ravvisato un pericolo o una minaccia per la pace, è altrettanto vero però che nella pratica, il funzionamento del Consiglio di Sicurezza dipende dal mancato esercizio del potere di veto da parte dei membri permanenti, e quindi dipende in sostanza dalla scelta politica di una di queste superpotenze, che possono dunque, condizionando l’intervento del Consiglio, partecipare in ogni caso, almeno in modo indiretto, alle sorti del conflitto civile.

[1] GARGIULO P., (2012), Enciclopedia del diritto, pp. 1367-1430, p. 1383 ss.

[2] I.C.J. 27 giugno 1986. La Corte afferma che:” in international law there are no rules, other than such rules as may be accepted by the State concerned, by threats other wyse whereby the level of armaments of a sovereign State can be limited, and this principle is valid for all States without exception”

[3] QUADRI R., (1989), Diritto Internazionale Pubblico, pp. 460 ss., Napoli.

Dott. Salvatore Viglione

Nato a napoli nel 1991, vive a Melito di Napoli. Ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso la Federico II di Napoli nel luglio 2016 con tesi in diritto internazionale. Attualmente oltre a frequentare la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, svolge il tirocinio forense presso lo Studio Legale Mancini, specializzato in diritto penale. Ha collaborato con diverse testate editoriali, principalmente con articoli di cronaca locale e politica. Ama il calcio, anche dilettantistico e la scrittura.

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