venerdì, Marzo 29, 2024
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Quote migranti: la Corte di Giustizia UE respinge i ricorsi dei paesi anti-accoglienza

Il caso

Il 6 settembre la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha emanato una sentenza fondamentale su un argomento molto attuale: la gestione della crisi immigratoria degli ultimi due anni.

La vicenda che ha dato via alla controversia risale a circa 2 anni fa e vede contrapposti i paesi europei in relazione al tema dell’accoglienza e, nel particolare, al sistema delle quote di migranti da ricollocare fra i diversi paesi membri dell’Unione.

Il 9 settembre 2015, infatti, la Commissione Europea sottopone al Consiglio una proposta di decisione, fondata sull’art.78, par.3, del TFUE [1]. Tale proposta, essenzialmente, considerando l’eccezionalità dei flussi migratori e il principio di solidarietà e di responsabilità che vige in materia fra gli stati membri, richiede l’istituzione di un sistema di quote migranti, cioè di ricollocazione degli stessi, per ciascun stato membro, così da rimediare alla situazione di crisi eccezionale vissuta nei paesi di prima accoglienza, quali Italia, Grecia ed Ungheria.
Il numero dei migranti da ricollocare corrispondeva a circa 120.000 persone richiedenti asilo, dovendo l’assegnazione tener conto naturalmente delle disponibilità dei diversi paesi, individuate in base a vari parametri.
La ricollocazione veniva proposta come eccezionale e temporanea, essendo la decisione pensata per superare uno stato di crisi di quei tre paesi membri. Tale proposta di decisione fu approvata dal Parlamento con una risoluzione, ma poi l’iter si bloccò in Consiglio.
Durante i lavori, infatti, il governo ungherese rifiutò la qualificazione dell’Ungheria di “Stato Membro in prima linea per l’accoglienza” e di essere messa sullo stesso piano di Grecia ed Italia.
Per questo motivo, la proposta fu modificata, ma in risposta all’attacco politico del governo ungherese, il Consiglio votò, a maggioranza qualificata, di inserire l’Ungheria fra i paesi rientranti nel meccanismo di assegnazione delle quote.

Il 22 settembre 2015, infatti, il Consiglio approvò la decisione 1601/2015, contenente “misure temporanee per la protezione della repubblica italiana e di quella ellenica”, scatenando l’ira dell’Ungheria.

La decisione, essenzialmente, era fondata sugli artt.78, par.3 e 80 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) e sull’art.5 del Trattato sull’Unione Europea (TUE).
L’art.78 par.3 TFUE [1] prevedeva la possibilità per il Consiglio di adottare misure temporanee a sostegno degli Stati Membri in caso di “situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi”, previa consultazione del Parlamento Europeo.
L’art.80 TFUE [2], invece, imponeva il rispetto dei principi di solidarietà ed equa responsabilità nelle politiche di immigrazione europee.
L’art.5 TUE, infine, affermando il principio di sussidiarietà, permetteva all’Unione di intervenire in materia non essendo tale obiettivo raggiungibile in maniera sufficiente al livello nazionale.
La decisione prevedeva anche il versamento di una somma forfettaria per ogni persona ricollocata nel proprio territorio (circa 6000 euro) e vietava rifiuti di adempiere da parte degli Stati Membri se non giustificati da una comprovata pericolosità del soggetto per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico.

I motivi di ricorso

A tale decisione seguirono due ricorsi, uno da parte dell’Ungheria, uno da parte della Slovacchia, successivamente riuniti dalla Corte, per identicità del petitum e della causa petendi, nella causa C-643/15.

Tantissimi i motivi di ricorso presentati dai due Stati, che chiedevano l’annullamento della decisione e la condanna del consiglio alle spese procedurali.

Fra questi, in particolare, i due Stati lamentavano la violazione del principio dell’equilibrio istituzionale, dell’art.78, par.3, TFUE [1], delle norme in tema di partecipazione del Parlamento Europeo e dei Parlamenti Nazionali, dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, delle forme sostanziali della procedura legislativa.
In particolare, il motivo di impugnazione più sottolineato negava la possibilità che l’art.78, par.3 TFUE, potesse fornire una valida base giuridica per la decisione presa dal Consiglio, in quanto la stessa andava a derogare disposizioni di atti legislativi, in particolare il Regolamento di Dublino III, oltre che produrre effetti incompatibili con la nozione di temporaneità.
In più, secondo i ricorrenti erano violate le forme sostanziali della procedura legislativa, in quanto l’atto era da configurarsi come legislativo e sarebbe stata necessaria una delibera all’unanimità per discostarsi dalla proposta iniziale della Commissione e in quanto non era stato consultato il Parlamento Europeo successivamente alla modifica in Consiglio.
Il tutto creava, per tali paesi, una situazione di non chiarezza normativa ed incertezza del diritto in relazione all’integrazione fra decisione impugnata e regolamento di Dublino III.
In ogni caso, i ricorrenti allegavano anche violazioni nel merito, dovute al sacrificio dei principi di necessità e proporzionalità, in relazione al numero dei migranti da ricollocare che rimanevano 120.000, nonostante l’eliminazione dell’Ungheria dai paesi beneficiari.

La decisione della CGUE

La CGUE decise di analizzare la controversia secondo questo ordine di questioni:

  1. adeguatezza o meno dell’art.78, par.3, TFUE ad essere base giuridica della decisione impugnata, questione assolutamente preliminare;
  2. motivi di irregolarità procedurali e violazioni di forme sostanziali;
  3. motivi di merito

Partendo dalla prima questione, i ricorrenti lamentavano come la decisione fosse stata adottata con una procedura non legislativa, nonostante fosse da qualificare come atto legislativo, per i suoi effetti ed il suo contenuto.

In particolare, l’art.78, par.3, secondo l’interpretazione dei due stati, non poteva fungere da base giuridica a causa del fatto che lo stesso è destinato a permettere l’adozione di misure di sostegno ad atti legislativi emanati ai sensi dell’art.78, par.2, cioè in situazione di crisi. Vi era, quindi, stato, secondo loro, un vero e proprio aggiramento della procedura legislativa.

A tale prospettazione giuridica si opponeva il Consiglio, in quanto parte convenuta. Secondo lo stesso, infatti, la qualificazione di un atto come legislativo, nel diritto europeo, dipende da motivi solo procedurali, ai sensi dell’art.289, par.3, TFUE. Quindi, un atto sarebbe legislativo solo ed in quanto adottato con procedura legislativa. In più, si opponeva a considerare la sua decisione una modifica sostanziale al regolamento di Dublino III, essendo la stessa temporanea e comportando deroghe ammesse alla luce della normativa.

La CGUE, fra le due prospettazioni giuridiche, opta per quella del Consiglio, affermando come la qualificazione sia essenzialmente formalistica ed un atto giuridico debba considerarsi legislativo solo quando adottato sul fondamento di una norma che fa riferimento alla procedura legislativa, ordinaria o speciale.

Secondo la Corte, quindi, la decisione impugnata non è da considerarsi atto legislativo secondo il diritto UE.

In relazione ai motivi di irregolarità procedurali e alla violazione delle forme sostanziali, in primo luogo, la Corte affronta la doglianza relativa al mancato carattere temporaneo della decisione e alla sua eccessiva durata applicativa. Ai sensi dell’art.78, par.3, non sono previste limitazioni temporali al potere di emanare quei tipi di decisioni, se non appunto la temporaneità delle stesse e l’essere riferite a precise circostanze di specie.

Secondo la Corte, poi, il Consiglio non ha ecceduto il suo potere discrezionale in materia, in quanto la presenza di effetti a lungo termine non contrasta con il carattere di temporaneità della misura.

La Corte respinge anche un altro argomento dei ricorrenti, cioè la mancanza della soddisfazione dei presupposti di emergenza e di imprevedibilità della situazione migratoria, in quanto vi è un certo margine discrezionale del Consiglio in relazione a tale valutazione, nel caso di specie corroborata da dati.

Altra questione dirimente che la Corte affronta verte sul presunto mancato rispetto dell’obbligo di consultazione del Parlamento Europeo, espressamente richiesto dalla normativa. Infatti, la risoluzione del Parlamento si esprimeva unicamente sulla proposta iniziale della Commissione e non sulla modifica apportata dal Consiglio.
Il Consiglio si opponeva affermando che non è richiesto dalla procedura in questione un atto formale da parte del Parlamento successivo alla modifica, ma che nell’esprimersi lo stesso avesse tenuto conto della probabile modifica, in quanto preannunciata in sede di lavori parlamentari.

La CGUE riconosce che, effettivamente, la decisione adottata si distacca sostanzialmente da quella approvata con risoluzione dal Parlamento Europeo, ma sposa la tesi del Consiglio, per cui la procedura richiede esclusivamente la prova, fornita dal Consiglio, che il Parlamento abbia potuto tener conto della modifica, perché annunciata allo stesso prima della risoluzione.

Viene respinto, infine, anche l’ultima doglianza procedurale, per cui sarebbe stato violato l’art.293 par.1 che richiede una decisione all’unanimità da parte del Consiglio in caso di necessità di approvare una modifica ad una proposta della Commissione.

In relazione alle questioni di merito, invece, la Corte non ravvisa la violazione del principio di proporzionalità, in quanto c’è una certa discrezionalità del Consiglio di prendere scelte politiche e tale violazione sarebbe ravvisabile solo in caso di manifesta inappropriatezza di una misura.
E’ negata, dalla Corte, anche la non necessarietà della decisione impugnata, vista la non presenza di metodi meno restrittivi alla sovranità degli stati per raggiungere l’obiettivo.

In definitiva, quindi i ricorsi sono respinti e i due Stati condannati alle spese.

Con questa sentenza arriva una forte vittoria nel merito dei paesi favorevoli all’accoglienza, contestata fortemente dalle reazioni immediate e contrariate dei paesi sconfitti.
In ogni caso, al di là del merito, sono molti i temi trattati e i chiarimenti offerti dalla decisione del CGUE, che, sicuramente, in questo modo contribuisce alla formazione di un diritto europeo maggiormente certo e prevedibile.

 

[1] “Qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati. Esso delibera previa consultazione del Parlamento europeo.” (art. 78, par. 3 TFUE)

[2] “Le politiche dell’Unione di cui al presente capo e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. Ogniqualvolta necessario, gli atti dell’Unione adottati in virtù del presente capo contengono misure appropriate ai fini dell’applicazione di tale principio.” (art. 80 TFUE)

[3] “1. La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione. L’esercizio delle competenze dell’Unione si fonda sui principi di sussidiarietà e proporzionalità.
2. In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri. 
3. In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione.
Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di sussidiarietà conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità. I parlamenti nazionali vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà secondo la procedura prevista in detto protocollo.
4. In virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati.
Le istituzioni dell’Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità.” (art. 5 TUE)

Simone D'Andrea

Studente di Giurisprudenza, classe 1994, tesista in Diritto del Mercato Finanziario, collaboratore area di Diritto Internazionale

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