venerdì, Marzo 29, 2024
Diritto e Impresa

Il riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero negli ordinamenti statali occidentali e nel diritto internazionale

L’idea che il pensiero umano non debba essere limitato e che vi sia una tensione umana a diffonderlo e a ricercare e ricevere quello altrui ha antichissime origini[1].

Tuttavia, la libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero, benché sia un valore di antiche radici, ha ottenuto solo in tempi relativamente recenti la sua consacrazione giuridica.

Se Sartori[2] riconosce che essa “è un valore occidentale, scoperto e affermato dal pensiero greco”, la garanzia giuridica che l’ha reso un principio di diritto si fa strada solo con le moderne ideologie liberiste e le Costituzioni democratiche del Novecento.

Nello scritto Aeropagitica: a speech for the liberty of unlicensed printing[3], pubblicato nel 1644, durante la prima fase della guerra civile inglese, John Milton offre una prima definizione della libertà di espressione.

Partendo dalla critica ad un provvedimento specifico, adottato dal Parlamento inglese, che imponeva un sistema di licenze sulla stampa, egli afferma il diritto innato dell’uomo a farsi guidare dal proprio intelletto, nonché il valore della discussione per sviluppare la propria virtù e della libera circolazione delle idee a mezzo stampa per far progredire la società[4].

Il primo, molto parziale, riconoscimento giuridico della libertà di espressione si ritrova, non a caso, nel Bill of Rights inglese del 1689. Il diritto qui è garantito unicamente ai membri del Parlamento inglese e solo nel ristretto ambito delle discussioni parlamentari[5]. Non si estende, inizialmente, a tutti i cittadini inglesi né tantomeno esso è riconosciuto come un diritto dell’uomo.

Il riconoscimento è, piuttosto, legato alla storica contesa tra il Parlamento e la Corona inglese e segna uno dei passaggi fondamentali per l’affermazione della prima monarchia costituzionale d’Europa, con una separazione dei poteri tra Re (esecutivo) e Parlamento (legislativo).

Per il riconoscimento giuridico della libertà di espressione, questa volta come diritto proprio di ogni individuo, occorre attendere ancora un secolo. Questo è il prodotto delle due grandi rivoluzioni del Settecento, quella americana e quella francese.

Al contesto americano si deve quella che è la prima dichiarazione dei diritti umani della storia costituzionale e, precisamente, il Bill of Rights della Virginia del 12 giugno 1776.

La sez. 12 di tale storica Dichiarazione riconosce, infatti, che “the freedom of the press is one of the great bulwarks of liberty, and can never be restrained but by despotic governments”[6].

In questa norma, la libertà di espressione è declinata essenzialmente come libertà di stampa. Questo fatto è un’importante testimonianza di come la libertà di esprimere il proprio pensiero abbia, fin dalle sue origini, un legame intrinseco con i mezzi tecnici che ne rendono possibile l’esercizio e che garantiscono, in ogni contesto storico, la maggiore diffusione possibile delle idee.

Nel 1789, come frutto della rivoluzione francese, la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen recitava all’art. 11 che la “libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti fondamentali dell’uomo”, anche se subito dopo puntualizzava “salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge”.

Nel 1791, a quattro anni dall’entrata in vigore della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America, furono approvati i primi dieci emendamenti. Essi costituiscono il primo Bill of Rights della Federazione americana.

Da allora, il primo emendamento della Costituzione americana riconosce, non solo la libertà di stampa, come aveva già fatto la Costituzione della Virginia, ma anche una più ampia freedom of speech, indipendente, quindi, dal mezzo utilizzato per diffondere il proprio pensiero.

A loro tutela il primo emendamento della Costituzione federale impone al Congresso degli Stati Uniti di non approvare leggi “abridging the freedom of speech, or of the press”. In questa formulazione emerge, con tutta evidenza, lo scopo cui tende, nel costituzionalismo statunitense, il riconoscimento, anche a livello federale, dei diritti dell’uomo. Essi sono, innanzitutto, un limite al potere del governo federale che si converte in una garanzia per il cittadino americano che a tale potere federale, come a quello statale, è sottoposto.

A partire dalla Dichiarazione francese e dalla Costituzione americana, praticamente ogni Costituzione degli Stati contemporanei consacra i diritti e le libertà fondamentali dell’uomo, tra cui, senza dubbio, trova spazio la libertà di espressione.

Tra i Paesi dell’Unione Europea, tutti, ad eccezione della Gran Bretagna, che non ha una Costituzione scritta, riconoscono il diritto in questione, come principio costituzionale, benché la cultura e le tradizioni giuridiche di ognuno apportino differenti limiti.

La libertà di espressione fa ormai parte della rosa dei diritti universalmente riconosciuti, almeno a livello di droit international coutumier.

Se non bastasse l’omogeneità delle Carte Costituzionali degli Stati democratici, si può prendere in considerazione la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) nel 1948, il cui art. 19 recita: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. La dichiarazione ha ormai riconosciuta efficacia vincolante, tanto che gli Stati che mantengono una condotta stridente con i principi ivi stabiliti invocano sempre condizioni di urgenza o necessità, accettando implicitamente la validità del trattato.

Sempre a livello internazionale, occorre ricordare una convenzione multilaterale che codifica i principi riconosciuti dai singoli Stati, il Patto sui diritti civili e politici del 1966, che all’art. 19, riconoscendo il diritto in esame, ne ammonisce la possibilità di restrizioni stabilite dalla legge e necessarie “al rispetto dei diritti e della reputazione altrui, alla salvaguardia della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della sanità o della morale pubbliche”.

Si possono ancora ricordare la Proclamazione di Teheran, adottata durante la Conferenza internazionale sui diritti dell’uomo del 1968 o i Johannesburg Principles on national security, freedom of expression and access to information, adottati da un gruppo di esperti in diritto internazionale, diritti umani e sicurezza statale nel 1995.

A livello regionale esistono ulteriori convenzioni che tutelano la libertà di espressione, tra cui spicca la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, elaborata dal Consiglio d’Europa e firmata a Roma nel 1950. L’art. 10 della CEDU sancisce che “1. Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione (…) 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.

La libertà di espressione è dunque il perno di ogni regime politico di matrice liberale. La sua presenza o assenza, i suoi limiti legali, l’uso come libertà anche d’informazione, l’abuso, la disciplina, l’interpretazione che ne danno i cittadini, i mezzi di comunicazione, la classe politica o i giuristi, rivelano, ognuna singolarmente e tutte globalmente considerate, la natura più o meno liberale o più o meno democratica della forma di potere vigente in una società.

Se nelle prime dichiarazioni costituzionali di ideologia liberale la libertà di espressione era intesa come una libertà negativa dall’ingerenza dello Stato, nell’ottica democratica è intesa anche come libertà positiva dell’uomo, che gli permette, come singolo e come membro della collettività, di crescere ed arricchirsi. Così, la censura è quasi totalmente bandita, i tradizionali limiti della morale tendono ad affievolirsi e, in generale, si afferma il principio che le restrizioni alla libertà di espressione debbano essere previste tassativamente dalla legge e rigorosamente preordinate alla tutela di altri diritti e interessi costituzionalmente protetti.

[1] Questa idea ha, infatti, le sue radici già nell’antica Grecia.

[2] G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna, 1995, 174.

[3] Per la traduzione italiana, v. J. MILTON, Aeropagitica. Discorso per la libertà di stampa, Bompiani, Milano, 2002.

[4] Molto importante, in MILTON, è la lettura della libertà di espressione in chiave funzionale. Essa è più volte richiamata laddove l’A. sostiene che la censura impoverisce la cultura e la religione, danneggia la nazione e l’uomo stesso, che, utilizzando la storica metafora tratta dalla Bibbia, è privato della possibilità di abbeverarsi alla fonte della verità.

[5] Il Bill of Rights inglese afferma testualmente che “freedom of speech and debates or proceedings in Parliament ought not to be impeached or questioned in any court or place out of Parliament”.

[6] “La libertà di stampa è uno dei più grandi baluardi della libertà, e non può mai essere ristretta se non da governi dispotici”.

Anna Rovesti

Anna Rovesti nasce a Modena il 31 ottobre 1992. Conseguita la maturità classica, prosegue i suoi studi presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e consegue la laurea a luglio 2016 con il massimo dei voti. La passione e l’interesse per Informatica giuridica e il Diritto dell'informazione e delle comunicazioni la portano ad approfondire in particolar modo queste materie grazie a corsi universitari, seminari di approfondimento e la partecipazione a luglio 2015 tramite l’Associazione ELSA (European Law Student Association) di cui è socia alla Summer Law School di Copenhagen in Media Law. Proprio in quest’ambito decide di redigere la tesi di laurea dal titolo: “Disciplina della libertà di stampa alla prova delle nuove comunicazioni telematiche. Libertà di espressione e di informazione tra ordinamento italiano e prospettive sovranazionali”. Grazie a un tirocinio formativo presso COOPSERVICE S. Coop. p. A. in area legale-privacy, riesce a mettere a frutto l'interesse per questo ambito, affiancando il tutor aziendale e le figure senior dell’ufficio nella gestione della modulistica, di comunicati, lettere, avvisi e convocazioni d’uso comune legati alla normativa sulla protezione dei dati personali. Attualmente lavora come praticante consulente del lavoro in uno studio di Modena prestando consulenza legale in materia giuslavoristica e nella gestione delle risorse umane (gestione del personale inviato all'estero con assistenza contrattuale fiscale e previdenziale, assistenza giudiziale e stragiudiziale in controversie inerenti il rapporto di lavoro, assistenza nelle procedure concorsuali e di licenziamento individuale e collettivo, trattative sindacali inerenti a contratti integrativi aziendali, gestione di survey aziendali finalizzate all'implementazione di piani di welfare, assistenza nella predisposizione di piani relativi ai premi di produzione e di risultato, ecc). La sua collaborazione con “Ius in itinere” nasce dal desiderio di mettersi in gioco come giurista, studiosa e giovane lavoratrice alle prese con il mondo del diritto, tanto complesso quanto affascinante. Una forte determinazione, senso del dovere e capacità di organizzazione la contraddistinguono nella vita e nel lavoro. Email: anna.rovesti@iusinitinere.it

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