venerdì, Marzo 29, 2024
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Velo islamico sul posto di lavoro: il divieto di indossarlo è legittimo

È legittimo vietare l’uso del velo islamico sul posto di lavoro? Ad un quesito così complesso, che implica valutazioni trasversali in merito al rispetto della libertà religiosa e alla libertà d’impresa, coinvolgendo principi ormai consolidati nell’ambito della comunità internazionale, hanno dato risposta le sentenze C-157/15 e C-188/15 pronunciate lo scorso 14 marzo dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Le pronunce della Corte, che hanno destato non poco clamore, sono intervenute in seguito a due ricorsi presentati rispettivamente da Samira Achbita, donna musulmana, impiegata in una società belga e Asma Bougnaou, di fede musulmana dipendente della società francese Micropole.

La sentenza che decide sul ricorso di Asma Bougnaou, licenziata nel 2009 dopo il suo rifiuto di non indossare il velo, stabilisce che la volontà di un datore di lavoro di assecondare le richieste di un cliente affinché i servizi offerti dalla società non siano più assicurati da una dipendente che indossa un velo islamico “non può essere considerata come un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”.

La Corte ha sottolineato che qualora manchi una norma che vieti espressamente l’utilizzo del velo sul posto di lavoro, il datore di lavoro possa chiedere che lo stesso non venga indossato, non costituendo la richiesta un trattamento discriminatorio.

Il caso di Samira Achbita, dipendente del gruppo belga G4S, è ben diverso poiché la donna dopo l’assunzione ha espresso la volontà di indossare il velo sul posto di lavoro, ma è stata licenziata in quanto al momento dell’assunzione una regola non scritta interna alla società vietava ai dipendenti di indossare segni delle loro convinzioni politiche e religiose. La Corte nella sentenza in cui si pronuncia sulla domanda pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’articolo 2, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, ha stabilito che “il divieto di indossare il velo islamico, derivante da una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi di tale direttiva”.

La decisione della Corte è frutto di un bilanciamento tra la tutela della libertà religiosa e il diritto alla libertà d’impresa espressamente riconosciuto dall’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che espressamente stabilisce che “È riconosciuta la libertà d’impresa, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”.

Ed è l’osservanza dell’art 16 che ha portato la Corte a pronunciarsi in tal senso, in quanto ha considerato pienamente legittima la volontà di un’impresa di mostrare, nei rapporti con i

clienti sia pubblici che privati una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa. Ciò comporta, entro limiti ben prestabili, una possibile restrizione della libertà religiosa secondo quanto stabilito dall’art 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che sancendo la libertà di pensiero, di coscienza e di religione, prevede contestualmente la possibilità di apportare restrizioni alla libertà religiosa solo nei casi stabiliti legislativamente e purché le restrizioni costituiscano “misure necessarie, in una società democratica, per la pubblica sicurezza, la protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o per la protezione dei diritti e della libertà altrui”.

La compressione seppure parziale della libertà religiosa, ritenuta dalla Corte legittima nel caso di specie, trova il suo limite qualora il divieto dell’impresa si traduca in una discriminazione indiretta. Discriminazione che ricorre ogni qual volta la norma interna di divieto all’utilizzo di segni della propria identità religiosa determini un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia, a meno che esso sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima, come il perseguimento di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti.

Il confine tra restrizione legittima e trattamento discriminatorio diviene labile in assenza di un’attenta lettura delle norme che tutelano i principi in questione, la cui osservanza è già stata sottoposta al vaglio della Corte EDU nel 2003 nel caso Ewida v.UK, in merito ai limiti all’esercizio della libertà religiosa e alla manifestazione di segni del proprio credo nei rapporti lavorativi, in applicazione dell’art 9 della Convenzione. La CEDU si è inoltre pronunciata nel 2014, sulla legittimità della legge francese che vieta alle donne di fede musulmana l’utilizzo del burka o del niqab, in seguito al ricorso di una giovane pakistana residente in Francia. Nonostante la Corte ritenesse che il divieto generale fosse eccessivo, potendo la legislazione francese consolidare posizioni anti-islamiste, ha ritenuto legittima la normativa francese in quanto il divieto generale è posto a tutela del valore del “vivere insieme”.

In un contesto così delicato quale l’attuale situazione politico sociale dell’Europa Occidentale, le pronunce della Corte rappresentano un ulteriore chiave di lettura dei rapporti tra culture ed ideologie differenti, all’insegna di un costante bilanciamento tra i principi dominanti e assecondando la necessità di pronunce aderenti al singolo caso concreto, nonostante le numerose polemiche che una tematica così complessa ha destato. Le sentenze della Corte seppur definitive, richiedono l’applicazione concreta del diritto da parte del giudice nazionale a cui spetta l’arduo compito di valutare quale istanza debba prevalere tra tutela della libertà d’impresa e la piena ed effettiva libertà religiosa.

Anna Giusti

Anna Giusti studia Giurisprudenza presso l'Università di Napoli Federico II. Attualmente svolge un tirocinio presso il Consolato Generale degli Stati Uniti di Napoli. La collaborazione con Ius in itinere nasce dalla volontà di coniugare la sua grande passione per la scrittura al percorso di studi. Collaborare per l'area di diritto internazionale le permette di approfondire le tematiche che hanno da sempre suscitato maggiore interesse in lei, ovvero il diritto internazionale penale, la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti umani, il diritto dell'Unione Europea. Appassionata di viaggi, culture e letterature straniere, si è da sempre dedicata allo studio dell'inglese e del francese.

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