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L’accesso agli atti della task force del Ministero della Salute: la decisione del TAR Lazio

Sommario: 1. Il caso; 2. La motivazione; 3. L’inquadramento dell’istituto     

1. Il caso

La pronuncia in esame origina da un’istanza di accesso civico ex d.lgs. 33/2013, avente a oggetto i “documenti nella disponibilità del Ministero della Salute e a qualsiasi titolo da essi redatti e detenuti inerenti lo svolgimento delle riunioni della task force di cui al comunicato stampa del 22 gennaio 2020 e nei quali si dia conto del contenuto di queste riunioni”.

A seguito di sollecito avvenuto in data 26 aprile 2021, il Ministero della Salute aveva negato l’accesso agli atti, sostenendo che “l’attività informativa e consultiva svolta quotidianamente dalla task force non rientra in una attività procedimentalizzata e, come risulta, peraltro, dalla lettura dei resoconti riepilogativi dell’attività svolta nel suddetto tavolo, è stata svolta nell’ambito di un’attività di supporto istruttorio informale”.

A seguito di ulteriore nota, datata 2 febbraio 2021, ed alla quale non è seguita alcuna risposta, il ricorrente ha ritualmente adito il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio- sez. Terza Quater al fine di ottenere l’accesso agli atti ministeriali.

2. La motivazione

Nell’ambito della decisione in esame[1], il Tar Lazio ha affermato che al contrario di quanto previsto dall’art. 22 della L. 241/90 (accesso classico), il comma 3 dell’art. 5 del d.lgs. 14/03/2013 n. 33 prevede espressamente che “l’esercizio del diritto di cui ai commi 1 e 2 non è sottoposto ad alcuna limitazione quanto alla legittimazione soggettiva del richiedente. L’istanza di accesso civico identifica i dati, le informazioni o i documenti richiesti e non richiede motivazione. (…)”.

Ha poi proseguito citando l’art. 5 comma 6 del su menzionato decreto legislativo, il quale, così come previsto per l’accesso “classico” ex art 22 l. 241/90, espressamente prevede che “il procedimento di accesso civico deve concludersi con provvedimento espresso e motivato nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza…”, e che “il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso devono essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti dall’articolo 5-bis”; ancora, secondo il comma 11, “restano fermi gli obblighi di pubblicazione previsti dal Capo II, nonché le diverse forme di accesso degli interessati previste dal Capo V della legge 7 agosto 1990, n. 241”.

Alla luce delle predette norme e per giurisprudenza consolidata e uniforme del Consiglio di Stato si è concluso di ammettere il concorso degli accessi.

Nelle more del giudizio, infatti, il Ministero convenuto ha espressamente eccepito che “la task force ha fornito al Ministro aggiornamenti e considerazioni al fine delle determinazioni da assumere, non ponendo comunque in essere atti/documenti/provvedimenti comunque denominati a fronte dell’attività di consulenza svolta. Per quanto concerne gli unici scritti esistenti, cioè i resoconti, va osservato che la natura informale di tali resoconti è, in particolare, provata dal fatto che i documenti conservati agli atti come “verbali” sono in effetti dei resoconti redatti da un funzionario, di volta in volta presente alla specifica riunione, che annota sinteticamente i diversi interventi, ma non trascrive testualmente gli interventi stessi.

Per escludere che il ricorrente avesse un diritto ad accedere ai documenti chiesti, il Ministero ha poi invocato l’art. 1 del d.P.C.M. 27 giugno 2011, n. 143 recante “L’individuazione dei casi di esclusione dal diritto d’accesso ai documenti amministrativi di competenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 7 7 agosto 1990, n. 241”, che sottrae all’accesso, ai sensi dell’art. 24, comma 1 lett. c) della L. 241/1990, tra gli altri, alla lett. a) “i documenti e gli atti amministrativi, diversi da quelli ufficialmente pubblicati, che afferiscono alla formazione di atti normativi, di atti amministrativi generali e di atti di pianificazione e di programmazione, tra i quali le direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri”.

Il TAR ha, tuttavia, ritenuto tale argomentazione infondata, in quanto, così come affermato dallo stesso Ministero, “l’attività della task force Coronavirus si è caratterizzata nel consistere in un tavolo di consultazione informale del Ministro della Salute”, e non del Presidente del Consiglio dei Ministri. I giudici hanno inoltre indicato che la circostanza che la task force fosse limitata a fornire al Ministro “aggiornamenti e considerazioni al fine delle determinazioni da assumere, non ponendo comunque in essere atti/documenti/provvedimenti comunque denominati”, era del tutto irrilevante, in quanto l’art. 22, comma 1, lett. d) della L. 241/90 prevede che per “documento amministrativo” si intende “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.

Invero, seguendo consolidata giurisprudenza, “il legislatore ha utilizzato una formula così ampia per esaltare il principio della massima trasparenza della p.a., a cui tutta la l. n. 241 è uniformata. Il diritto di accesso prescinde, pertanto, sia dalla «natura» dei documenti richiesti, sia soprattutto dalla loro pertinenza ad un determinato procedimento. I presupposti legittimanti sono costituiti, da un lato, dalla detenzione di un atto da parte della p.a. e, dall’altro, dalla sussistenza di un interesse qualificato alla visione di esso, in funzione, evidentemente, della tutela (non necessariamente giudiziaria) della posizione soggettiva del richiedente” (cfr., ex multis, T.A.R. Lazio – Roma, sez. I, 05/11/2008 n. 9637; Cons. St., sez. VI, 24/01/2012 n. 311, ribadisce che “i documenti ai quali è possibile chiedere accesso possono anche non riguardare uno specifico procedimento”).

Il TAR ha poi argomentato rilevando che l’art. 5, comma 2, del d.lgs. 14/03/2013 n. 33, nel prevedere il diritto di “chiunque” “di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni”, fa espresso riferimento allo “scopo di favorire controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche e di promuovere la partecipazione al dibattito pubblico”. Per tale ragione e data la specifica situazione in cui l’istanza de quo si inerisce nonché data la situazione così grave per la salute pubblica ed individuale, si è ritenuto che forme diffuse di controllo non possono che essere assolutamente necessarie nel perseguimento della cui tutela si inserisce certamente un notevole “utilizzo delle risorse pubbliche[2].

In quest’ottica, la circostanza che si tratti di “resoconti informali”, come pure che in questi resoconti il funzionario che li crea “annota sinteticamente i diversi interventi, ma non trascrive testualmente gli interventi stessi”, è stato considerato del tutto irrilevante, proprio perché, affinché il diritto di accesso possa essere ritenuto sussistente, non è necessario che si ci trovi di fronte a veri e propri provvedimenti, essendo sufficiente che si tratti di semplici “atti” di qualsiasi tipo, cioè “anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento”, come invece previsto dall’art. 22, comma 1, lett. d) della L. 241/90[3].

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. Terza Quater, pertanto, alla luce del combinato disposto tra l’art 22 della L. 241/90 che, al comma 3, ha concluso sostenendo che “tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all’articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6” e l’art 24 (nel cui elenco non vi rientrava certamente l’oggetto dell’istanza de quo), accogliendo in definitiva il ricorso e ordinando al Ministero l’ostensione degli atti.

3. L’inquadramento dell’istituto

La pronuncia appena esaminata permette di svolgere alcune considerazioni in merito all’istituto dell’accesso civico.

Come noto, con il d.lgs. 33/2013 è stato disciplinato l’istituto dell’accesso civico[4] riconoscendo a chiunque – rispetto all’accesso classico che invece prevede uno specifico interesse attuale, diretto e concreto, corrispondente a una situazione giuratamente tutelata e collegata al documento al quale è richiesto l’accesso – la possibilità di chiedere l’adempimento degli obblighi di pubblicazione non osservati dall’amministrazione.

Successivamente, con il d.lgs. 97/2016 è stato introdotto un diritto di accesso libero ed universale, il cui esercizio non presuppone una specifica legittimazione né, al contempo, un interesse qualificato. In questi casi, peraltro, non è richiesta una motivazione: a differenza dell’accesso di cui al d.lgs 33/2013, l’oggetto è più ampio, comprensivo non soltanto dei dati oggetto di specifici obblighi di pubblicazione non rispettati dall’amministrazione ma anche dati che la PA non ha l’obbligo di pubblicare e che quindi deve ostendere al richiedente nei limiti indicati dagli artt. 3 bis e 5 ter d.lgs 33/2013, così come introdotti dal d.lgs. 97/2016 (sicurezza pubblica, sicurezza nazionale, politica e stabilità finanziaria ed economica dello Stato ecc.).

Ad ogni buon conto, è necessario che l’istanza di accesso generalizzato sia diretta a soddisfare un “interesse che presenti una valenza pubblica” (come nel caso della sentenza ivi indicata) e non, invece, “un bisogno conoscitivo esclusivamente privato, individuale, egoistico o peggio emulativo”.

È prevista la gratuità del rilascio dei dati o documenti in formato elettronico o cartaceo, salvo il rimborso del costo effettivamente sostenuto.

Il procedimento di acceso civico, come ha ampiamento motivato il Tar richiamando il comma 6 dell’art. 5, deve concludersi con un provvedimento espresso e motivato, nel termine di trenta giorni dalla presentazione dell’istanza con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati.

Nel caso di diniego totale o parziale o di mancata risposta alla sua istanza, nel termine supra indicato, il richiedente può presentare istanza di riesame al responsabile della trasparenza, che decide con provvedimento motivato, nel termine di venti giorni.

L’istruttoria vede coinvolto anche il Garante per la protezione dei dati personali, in particolare ove l’accesso venga negato o differito a tutela dei dati personali.

Con tali istituti si incentiva maggiormente un principio cardine dell’attività amministrativa, ossia la trasparenza, che si trasforma da trasparenza di tipo “proattivo”[5], realizzata mediante la pubblicazione obbligatoria di su siti web di determinati enti dei dati e delle notizie indicati dalla legge, ad una trasparenza di tipo “reattivo”, in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dai cittadini interessati.

Nei casi di atti delle regioni e degli enti locali, poi, il richiedente può presentare specifica istanza al difensore civico competente per territorio. In tal modo, l’accesso è consentito se nel termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione del difensore civico l’amministrazione non conferma il diniego o il differimento. Il ricorso a tale tipologia di tutela non implica tuttavia l’impossibilità di ricorre alla tutela giurisdizionale: qualora il richiedente l’accesso si sia rivolto al difensore civico, il termine per agire in giudizio decorre dalla data di ricevimento dell’esito della sua istanza al difensore civico.

[1] TAR Lazio Roma, Sez. III-quater, 7 maggio 2021, n. 5346.

[2] Più precisamente, come specificano i giudici in sentenza, “Forme diffuse di controllo sono quanto mai necessarie in una situazione di così grave preoccupazione per la salute pubblica e individuale, nel perseguimento della cui tutela si inserisce certamente un notevole “utilizzo delle risorse pubbliche”, in cui si colloca l’istanza di accesso in esame”.

[3] Come precisato in sentenza: “Può essere oggetto di accesso civico generalizzato il “resoconto informale” di una riunione tra il Ministero della Salute e la task force di tecnici nominati al fine di supportare l’azione del Ministero e di cui si è data notizia mediante un comunicato pubblicato sul sito istituzionale dello stesso e ciò anche se trattasi di un tavolo di consultazione informale, ovvero di un’attività interna istruttoria non relativa ad uno specifico procedimento”.

[4] M. Fratini, Manuale di diritto amministrativo 2020-2021, Accademia del Diritto editore, 2020.

[5] R. Garofoli, Compendio di diritto amministrativo 2020-2021, Nel diritto Editore, 2021.

Francesca Panacciulli

Francesca Panacciulli nasce a San Severo il 17.09.1995. Attualmente è un Funzionario Addetto all'Ufficio Per il Processo presso la Corte d'Appello di Bari. Da ottobre 2022 è abilitata all'esercizio della professione forense. Ha conseguito la laurea magistrale in giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Bari, in data 15.07.2019, con votazione di 110, con tesi in diritto tributario dal titolo: "Armonizzazione Iva, tra aliquote ridotte ed elusione del tributo". La tesi è stata svolta in cotutela con l’Universidad de Valladolid (Spagna), nell’ambito del progetto “Global Thesis”, un premio di studio finanziato dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Dopo la laurea ha partecipato alla Summer School in “Circular Economy and Enviromental Taxation” sponsorizzata dalla medesima Università, per approfondire le tematiche legate al diritto tributario. In contemporanea, ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Bari che le ha permesso di acquisire maggiori esperienze su più fronti, trattando non solo il diritto tributario ma anche di diritto amministrativo. Per accrescere l’ interesse nella disciplina suddetta, da marzo 2021 a maggio 2021 ha frequentato un corso di alta formazione in “Diritto e innovazione nella organizzazione e gestione degli enti locali” presso l’Università di Firenze. A partire dal mese di gennaio 2021 collabora con la rivista "Ius in itinere" per l'area tematica di Diritto Amministrativo.

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