venerdì, Marzo 29, 2024
Labourdì

Accesso al lavoro e recruiting – Il peso della discriminazione

Casus belli: Il giuslavorista Michele Tiraboschi, dal suo profilo twitter[1], denuncia, il 20 dicembre scorso, un annuncio comparso sul portale Garanzia Giovani[2], nel quale si legge “Cercasi impiegata di bella presenza per tirocinio. Durata 6 mesi più proroghe part time 20 ore, retribuzione 400 euro”.

Il giorno dopo, il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti informato della gaffe ordina l’immediata rimozione del annuncio, ed in una nota precisa anche che i responsabili del sito dovranno attivare un’indagine per verificare le modalità di controllo dei contenuti.

Ma, siamo sicuri che questo sia l’epilogo o può definirsi solo la punta dell’iceberg?

Molto spesso si tratta l’aspetto discriminatorio nella fase terminale del rapporto di lavoro, ossia il licenziamento, ma si tralascia un momento molto importante nel quale la disciplina antidiscriminatoria può giocare un ruolo chiave, ossia quello esegetico, quello della discriminazione nella fase di accesso al lavoro.

È con questo primo articolo che vorrei iniziare una serie di approfondimenti sul settore risorse umane, si tratta di un tema ampiamente trattato in altri corsi, quali ad esempio Sociologia o Scienze politiche, ma che raramente viene messo in relazione con il mondo giuridico, di cui è però naturale completamento.

L’art 27, comma 1 del d.lgs 198/2006 (di seguito denominato “Codice delle pari opportunità”) prevede esplicitamente come “Vietata qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, nonché la promozione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”.

Vari sono i motivi che integrano discriminazione in fase di accesso al lavoro, i più noti ground, già autonomamente normati a livello europeo[3] sicuramente ne costituiscono parte, ma è certamente questa, la fase, nella quale possono essere utilizzati criteri di selezione, apparentemente neutri, o assolutamente non premessi in calce all’annuncio, che di fatto impediscono l’accesso al lavoro a determinate categorie di soggetti.

È quindi questo il momento in cui canoni eterogenei quali a titolo esemplificativo ma non esaustivo, aspetto fisico, precedente stato di inoccupazione o lunga disoccupazione, precedenti penali confluiscono nel mare magnum di informazioni in mano ai recruiter e possono portare, se non congruamente oggettivizzati, alla discriminazione dei candidati.

In quest’analisi non si può di certo rimanere alla tecnica osservanza della normativa, ma bisogna addentrarsi nel diritto analizzandolo come esperienza giuridica, considerando anche le implicazioni sociologiche al quale ci conduce.

Discriminazione per aspetto fisico

Questa è la caratteristica che oggi approfondiremo. L’aspetto fisico è sicuramente il biglietto da visita di noi stessi, il problema è quando alcune caratteristiche vengono utilizzate per discriminare taluni soggetti. Una delle accezioni più importanti dell’aspetto fisico è rappresentato dalla forma fisica. Il tema del peso nella sua accezione obesità è già stato trattato dalla Corte di Giustizia nella causa C-354/13 (“Fago g Arbejde [FOA] contro Kommunernes Landsforening [KL]”) e le conclusioni della corte sono state nel senso che “questa patologia sarebbe idonea a configurare una discriminazione per handicap, e lo stato di obesità sarebbe in tal senso annoverabile qualora determini una limitazione, risultante segnatamente da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, la quale, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con altri lavoratori”. Si può configurare quindi una tutela piuttosto forte per questi lavoratori, che, avendo un obesità accertata da caratteri oggettivi e diagnosticabili da parte di un medico specialista, dovrebbero poter accedere, a rigore, alla normativa in materia di accesso al lavoro dei soggetti disabili. Aspetto, quest’ultimo, non ancora propriamente emerso nel nostro paese.

Sebbene quindi non vi sia espresso riferimento nella disciplina lavoristica italiana, precedenti giurisprudenziali giocano a favore dei lavoratori clinicamente obesi.

L’obesità quindi, come situazione patologica, merita, almeno nelle pronunce dei giudici europei, una propria tutela, ma allora come trattare tutte quelle condizioni, non di certo patologiche, che però giocano a sfavore nella ricerca di un lavoro, ossia come possono cercare di tutelarsi da un’eventuale discriminazione i candidati bruttini, fuori forma, e con un fare non particolarmente smart?

A tal proposito è necessario fare un passo indietro, ritornando alle prime battute di questo articolo; Cosa significa il requisito “di bella presenza” che appare nella quasi totalità degli annunci di lavoro?

Sfogliando i risultati di una veloce ricerca in internet si comprende come l’aggettivo, nella sua accezione originaria, starebbe a significare “dall’aspetto curato” così da indicare la volontà di ricercare un candidato/a pulito, ben vestito e con modi di fare gradevoli; ma sebbene queste fossero le iniziali intenzioni delle Human Resources di fatto questo appellativo è finito con il diventare discriminatorio, allorquando, ha trasformato la ricerca e selezione in una lotta tra belli e brutti, magri e grassi.

Sfogliando i giornali online infatti più di una storia balza agli occhi[4], ed in tutte queste il filo conduttore sta nel fatto che non è la trascuratezza a fare da discriminante[5] bensì le caratteristiche sopra menzionate che non dovrebbero assolutamente essere metro di valutazione tra candidati. E le ragioni che giustificano il divieto di utilizzare tali canoni nel recruiting non devono ricercarsi nella più o meno spiccata sensibilità dei soggetti, ma nella fredda e lucida razionalità del diritto; Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha infatti precisato che “la discriminazione opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro” (Cass. Civ., Sez. Lav., 5 aprile 2016, n. 6575), non rileva quindi la dimensione soggettiva, e la condotta è ipso iure da ritenersi discriminatoria per il solo fatto di essere stata messa in pratica.

A rigore bisognerebbe sottolineare che i giudici di legittimità hanno nella loro pronuncia parlato di “lavoratore” e “datore di lavoro” e non di “candidato” e “agenzia per il lavoro/azienda”, il che starebbe a significare che per l’operare obiettivo della condotta discriminatoria è necessario che sussista un ulteriore requisito, ossia che tra i soggetti intercorra un rapporto di subordinazione, parasubordinazione, o comunque, anche trattandosi di lavoratore autonomo, questi dovrebbe essere inserito abitualmente nel contesto lavorativo alieno. Tale premessa appare contestabile almeno sotto due profili.

Il primo profilo è certamente quello giuridico, infatti riprendendo l’articolo, ut supra, 27 c. 1 “Codice delle Pari Opportunità”, appare chiaro che il legislatore intenda preservare il lavoratore o futuro tale in tutta la fase nella quale egli si approccia con il mondo del lavoro, sia precontrattuale, che in pendenza di rapporto, che post contrattuale[6], non ci sarebbero quindi ragioni ostative all’applicazione della disciplina antidiscriminatoria in fase di accesso al lavoro. Il secondo profilo è di natura sociologica, da anni infatti i sociologi si interrogano sulla possibilità di una “sociologia del non lavoro”, il confine tra lavoro e non lavoro appare infatti sempre più sfumato e ricco di ambiguità. “Sono infatti numerosi i fenomeni, spesso intrecciati, che contraddistinguono l’area del “non lavoro”.” dice la sociologa Renata Semenza nel suo libro “Il mondo del lavoro – le prospettive della sociologia”. Non si assiste infatti alla disoccupazione o inoccupazione tipica degli ultimi decenni del 900 bensì a varie modalità nelle quali essa può manifestarsi, come ad esempio “disoccupazione ricorrente[7], disoccupazione di lunga durata[8] o le varie forme di sottooccupazione che investono la popolazione attiva in modo selettivo[9]. Essendo quindi non più netta la linea di demarcazione tra le due aree appare evidente come anche, attraverso un approccio sociologico, appaia non coerente o comunque anacronistico non garantire le tutele antidiscriminatorie anche in fase di recruiting.

Ma come cercare di risolvere o almeno di arginare un tale problema? È necessario che si predispongano delle linee guida, di natura normativa, idonee a fornire da un lato un chiaro metodo di approccio al mercato del lavoro per chi si occupa di ricerca e selezione, al fine di ridurre i casi di discriminazione, e dall’altro la consapevolezza, in coloro che stanno cercando un’occupazione, che certe pratiche sono assolutamente contrarie alla legge, e come tali vanno fermate ricorrendo alla stessa.

Chi sono i veri discriminatori? I soggetti che nella ricerca e selezione applicano i canoni richiesti dall’azienda utilizzatrice? L’azienda stessa che li richiede? Oppure i clienti, che trovando al front office un dipendente che non rappresenta ciò che nel sentire comune è “la normalità” configurano l’azienda nello stesso? Siamo ciò che mostriamo? O siamo ciò che valiamo? La qualità di un azienda si misura in quante taglie 38 camminano ogni giorno nei corridoi, o in quanti PhD a prescindere dalla taglia, si occupano dei processi produttivi?

Di certo questi sono interrogativi che trovano risposte diverse in ognuno di noi, ma il diritto non è discrezionalità di ognuno, è quindi necessario che il legislatore prenda gli opportuni provvedimenti.

[1] @Michele_ADAPT/twitter.it

[2] Che ricordiamo è un programma europeo che ha come scopo il miglioramento dell’occupazione dei giovani tra i 18 ed i 29 anni, finanziata altresì dalla Commissione Europea.

[3] Giusto a titolo di riepilogo: età, sesso, religione, razza o origine etnica, orientamento sessuale, disabilità.

[4] A titolo esemplificativo http://www.ilgiornale.it/news/cronache/discriminata-sul-lavoro-perch-troppo-grassa-vogliono-solo-1320558.html

[5] Condizione che potrebbe benissimo far protendere per un candidato piuttosto che un altro in ragione anche del suo rapporto con la clientela dell’azienda. È infatti chiaro che un soggetto che debba svolgere un lavoro a contatto con il pubblico di fatto, nell’esercizio delle sue mansioni è esso stesso l’azienda che rappresenta.

[6] G. Boscariol “Discriminazione per ragioni di età – il caso” in https://www.iusinitinere.it/discriminazione-ragioni-eta-caso-7348

[7] Dovuta a contratti di lavoro sempre più flessibili.

[8] Ad esempio quella dei soggetti che fanno fatica ad inserirsi nel mondo del lavoro perché privi di esperienza, o a quelli che vengono considerati ormai troppo vecchi per essere assunti.

[9] Riferendosi con ciò ai soggetti che vengono sottoutilizzati (e quindi anche sotto retribuiti), esemplificando (a) chi presta un attività ridotta rispetto alla sua disponibilità es. part-time (b) o per periodi limitati dell’anno es. contratti stagionali o collaborazioni a progetto (c) o chi svolge un’attività per la quale risulta essere sovra-qualificato o un’attività totalmente diversa da quella prevista dal proprio titolo o indirizzo di studio.

Gioia Boscariol

Gioia Boscariol nasce a Oderzo (TV) nel 1994. Dopo aver conseguito la maturità tecnico commerciale all'I.T.C.G "Jacopo Sansovino" intraprende la strada che sognava sin da bambina, lo studio del diritto. E' studentessa al quarto anno all'Università degli Studi di Udine. Nel corso degli anni passati all'Ateneo Friulano scopre l'interesse e la propensione per il Diritto del Lavoro, ed in particolare per quel settore, a cavallo tra il diritto italiano ed il diritto europeo, rappresentato dal Diritto Antidiscriminatorio. Durante il suo corso di studi si occupa anche di sviluppare le soft skills, sia nell'associazionismo studentesco prima come Vice Presidente Seminari e Conferenze e poi come Presidente dell'Associazione ELSA Udine, sia nella rappresentanza studentesca, da quest'anno è infatti Rappresentante degli studenti in Consiglio di Amministrazione, in consiglio di corso e dipartimento e membro del Consiglio degli Studenti dell'Università degli Studi di Udine. Puoi contattarmi all'indirizzo e-mail: gioia.boscariol@iusinitinere.it

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