giovedì, Marzo 28, 2024
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Adam Smith: dal liberalismo al populismo

Le sinistre si eclissano lungo tutte le linee immaginarie di meridiani e paralleli. Il pensiero socialista è baluardo di élite intellettuali che sembrano gravare di un peccato non ben definito. Il concetto dell’individuo, del singolo sospinto dal “moto della massa”, è tanto centrale quanto il ruolo marginale dello Stato. Uno Stato visto come solo motore per gli interessi dei privilegiati, ma lontano dai bisogni degli “ultimi”.  Non è, questo, il trionfo, seppur estremizzato, del liberalismo di cui scriveva il filosofo ed economista britannico Adam Smith (Kirkcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790)?[1]

Conduciamo questa analisi, contemporanea, del pensiero di Smith lungo tre punti salienti del suo pensiero che hanno guidato la scuola economica liberale nei secoli successivi: ricchezza delle nazioni, mano invisibile e leggi naturali.

Smith è uno dei primi a considerare la ricchezza di una nazione come costituita di “tutte le cose necessarie e comode della vita” che si possono ottenere con il lavoro annuo. Esclude, dunque, il carattere produttivo di quel settore oggi chiamato “dei servizi”. L’aumento della ricchezza passa per la divisione del lavoro che accresce la produttività in tre modi diversi: specializzazione degli operai in compiti specifici, diminuzione delle perdite di tempo causate dal cambiamento di mansione, uso delle macchine.

Emerge la mancanza di riflessione sul ruolo della cultura, dell’istruzione come motore per il progresso di una nazione. Affine in quest’ottica è la riflessione contemporanea, da levante a ponente. Basti considerare i vari movimenti populisti che non annoverano né istruzione né ricerca nei loro “programmi propagandisti” che “gridano alla pancia delle persone”.

Il secondo elemento cardine del pensiero di Adam Smith è la celebre metafora della mano invisibile, in cui è racchiusa l’idea che il perseguimento dell’interesse particolare del singolo individuo determini un miglioramento della condizione generale.

“[…] Ogni individuo si sforza continuamente di trovare l’impiego più vantaggioso possibile per qualunque capitale di cui possa disporre. In effetti, è al suo proprio vantaggio che egli mira, e non a quello della società. Ma la considerazione del suo proprio vantaggio, lo porta naturalmente, o meglio necessariamente, a preferire l’impiego più vantaggioso per la società. […] Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue l’interesse della società in modo molto più efficace di quando intende effettivamente perseguirlo.” [2]

La mano invisibile è la naturale regolazione del processo economico su scala sociale sotto la spinta degli interessi individuali. Essendo, per Smith, l’uomo incline allo scambio, la libera concorrenza è il regolatore dell’economia per un miglioramento sociale globale. Anche i lavoratori “hanno solo da guadagnare” accettando questo sistema dato che la crescita economica, garantita dal libero scambio, è benefica per questi ultimi.

La prima conseguenza è il limitare al minimo l’intervento dello Stato in materia economica. Lo Stato è solo un garante esterno dei processi di scambio.

“[…] Lo statista che tentasse di dirigere i privati circa il modo in cui essi dovrebbero impiegare i loro capitali, non solo si addosserebbe il peso di un’attenzione del tutto inutile, ma si assumerebbe un’autorità che non potrebbe essere affidata con sicurezza non solo a una persona singola, ma neppure a qualsiasi consiglio o senato; e che sarebbe estremamente pericolosa proprio nelle mani di un uomo a tal punto folle e presuntuoso da ritenersi adatto a esercitarla.

 In queste parole, più che il timore della tirannide si legge il timore di una limitazione dello spirito commerciale dell’individuo. Lo Stato appare agli occhi di Smith come un nemico da tener quanto più lontano possibile. E in che modo se non limitando la sua libertà di manovra?

Sfugge all’economista britannico il ruolo dello Stato come freno agli eccessi del singolo, al desiderio sfrenato, ai meccanismi di un liberalismo che potrebbe determinare un sempre maggiore accumulo di ricchezza nelle mani di pochissimi[3]. Così come lo Stato non ha parola neppure sulle condizioni salariali ed umane dei lavoratori. Aspetto ancor più rilevante se si pensa alla rivoluzione industriale che Smith viveva.

Ritorna in questo periodo il senso dello “Stato oppressore”, del nemico che bisogna allontanare come soluzione al malessere di un cambiamento radicale, pari, nella portata, a quello dei primi telai meccanici.

Smith “giustifica” il suo pensiero alla luce di quella che considera un’analisi scientifica delle leggi di natura che governano l’economia. Così come nel mondo fisico, anche in economia vi sono “descrizioni assolute” (leggi) che spiegano il funzionamento dell’economia di mercato in un contesto concorrenziale. Appare naturale, a Smith, una tale descrizione poiché il mercato è l’espressione diretta della principale caratteristica umana: la propensione allo scambio.

E ne porta un esempio con il meccanismo della divisione del lavoro.

“[…] Questa divisione del lavoro, da cui tanti vantaggi sono derivati, non è in origine il risultato di una consapevole intenzione degli uomini, che preveda la generale prosperità che ne risulta. Si tratta invece della conseguenza necessaria, per quanto assai lenta e graduale, di una particolare inclinazione della natura umana che non si preoccupa certo di un’utilità così estesa: l’inclinazione a trafficare, a barattare e a scambiare una cosa con l’altra.

Come può Smith parlare di leggi di natura, mancando l’analisi economica del tempo di una base logica forte ed un’assiomatica rigorosa? Il contemporaneo florido sviluppo delle scienze naturali ha quasi “costretto” Smith a parlare di economia come scienza, affinché il suo discorso apparisse lontano dalla speculazione filosofica.

Antiscientifico appare, in conclusione, il pensiero di Smith. Antiscientifico come i manifesti dei movimenti populisti che si appellano a verità terze, lontane da metodo ed analisi critica. Quel metodo e quell’analisi che la storia sembrava aver reso parte dell’evoluzione sociale dell’uomo. Ecco, sembrava.

[1] J. Boncouer & H. Thouément, Le idee dell’economia, Edizioni Dedalo.

[2] A. Smith & C. Scognamiglio, Adam Smith: indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Luiss University Press, 2007

[3] T. Piketty, Disuguaglianze, Egea spa, 2018.

Fonte immagine: https://www.ft.com/video/44945f1e-bcf7-4542-845c-07b414d2c578

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