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Alienazione e rivoluzione sociale: l’analisi di Marx al tempo dei populismi

Conclusasi la ricorrenza dei duecento anni dalla nascita di Karl Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883), il lascito del suo pensiero resta fortemente attuale in questo periodo di grandi stravolgimenti, in una società sempre più sdogmatizzata ed alla ricerca di nuovi vessilli di appartenenza. I populismi europei, dirompenti su tutto il vecchio continente, sino alla più recente attualità dei “gilet gialli” francesi, rispolverano il tema dominante sulla cui critica Marx pone le basi della futura società comunista: l’alienazione.

In una prima fase, il pensiero dello “scienziato-sociale” tedesco è squisitamente filosofico. Figlio della dottrina “hegeliana di sinistra” di Ludwing Andreas Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872), Marx espone la dottrina dell’alienazione del lavoro della società capitalistica, dapprima, senza una strutturata analisi economica, con quel carattere tipico del metodo scientifico. Analizzando i meccanismi della società industriale, l’alienazione diviene il motore primo che spingerà la classe operaia alla tanto desiderata (utopica, per alcuni) rivoluzione sociale[1].

“L’alienazione consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, si sente non soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori dal lavoro si sente presso di sé: e si sente fuori di sé nel lavoro. E’ a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei […]”[2].

Queste parole, risalenti al 1844, potrebbero essere l’editoriale di un quotidiano dei giorni nostri (a meno del linguaggio ricercato, si intende). La società 4.0 di internet e della costante connessione è l’esempio di un’alienazione continua, di una visione negativa e pessimista del lavoro. Gli operai di cui parlava Marx possono ricollocarsi nei precari di questi giorni: estranei al lavoro per cui prestano energie, sacrifici e tante difficoltà.

E tale è la condizione che: “La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione […][3]”. La condizione di mortificazione vive questa generazione di precari che, in preda alla “coazione psicologica”, rifugge dal lavoro e dalla sue manifestazione.

“Infatti il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita del genere […]”. La crisi dei precari diventa crisi sociale; vien persa di vista l’importanza del lavoro come attività collettiva, riducendosi ad una dimensione privata. In questa chiave falliscono le prospettive socio-economiche di alcuni movimenti populisti europei, che, divulgando i propri principi, cercando il riscatto di una “collettività” che nessuno può sentire.

Per Marx, l’alienazione nella società capitalistica si manifesta in tre forme. Il lavoratore è reso estraneo al prodotto del suo stesso lavoro, all’attività collettiva di produzione ed alla validità sociale del suo ruolo di lavoratore. Mai più attuali potrebbero essere queste parole. Una giovane coppia di precari guarda al proprio lavoro come la sussistenza quotidiana, ignorando quanto produce, sia in chiave individuale che collettiva. La società delle macchine è diventata la società della rete, eppure le vicissitudini non sembrano affatto cambiate.

I movimenti populisti europei (con gli stessi Stati Uniti) hanno individuato, per loro merito, questa criticità, ma ne è diventato il limite ad ogni loro successivo sviluppo di pensiero. Si punta il dito contro poteri forti e lobby, senza fare ciò che il filosofo di Treviri realizzò tra il 1844 ed il 1846 assieme al suo amico Friedrich Engels (Barmen, 28 novembre 1820 – Londra, 5 agosto 1895): un’analisi scientifica della struttura economica della società.

“Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene e allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura […]”.

Una sovrastruttura costituita da “forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche” che determina le dinamiche collettive della popolazione, nonché, in ultima istanza, la condizione di vita fisica, morale e, diremo oggi, psicologica del singolo individuo. E solo una profonda analisi della situazione economica può determinare un vero “cambiamento”: parola mai tanto abusata come in questo periodo storico.

E’ stata l’analisi socio-economica che ha spinto Marx a “formulare” la società comunista, con tutti i suoi aspetti criticabili ed utopici. Mai si è realizzata la “rivoluzione sociale”, da “La Comune di Parigi” sino ai “gilet gialli”, poiché “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza [ …][4]”.

 

[1] J. Boncouer & H. Thouément, Le idee dell’economia, Edizioni Dedalo.

[2] K. Marx & N. Bobbio, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Giulio Einaudi.

[3] K. Marx, Miseria della filosofia, Edizioni Rinascita.

[4] K. Marx, G. Pietranera & B.S. Vigorita, Per la critica dell’economia politica, Edizioni Riuniti, 1957.

Fonte immagine: https://marx200.org/en

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