giovedì, Marzo 28, 2024
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Ammissibilità del contratto preliminare di donazione: l’ultima pronuncia della Corte di Cassazione

  1. I principali orientamenti dottrinali 

Questione lungamente dibattuta in dottrina è quella relativa alla possibile ammissibilità di un contratto preliminare di donazione. Sembra, infatti, difficilmente conciliabile l’elemento caratteristico delle liberalità donative, ossia la spontaneità della prestazione volta all’arricchimento del donatario con corrispondente depauperamento del donante (art. 769 cc.), con l’obbligo di contrarre che si crea in seguito alla conclusione di un contratto preliminare (art. 1351 cc.), peraltro possibile oggetto di esecuzione specifica con sentenza (art. 2932 cc.). Autorevole dottrina[1] ha negato l’ammissibilità del preliminare di donazione proprio perché la spontaneità tipica degli atti donativi verrebbe recisa alla radice dalla nascita dell’obbligo di stipulare il contratto definitivo. Sarebbe dunque nulla sia la promessa di stipulare una donazione, sia l’eventuale donazione posta in essere in esecuzione della promessa fatta. Il donante, qualora eseguisse un contratto preliminare di donazione donando, appunto, un bene al “promissario donatario”, agirebbe in esecuzione di un obbligo assunto con il preliminare. Pertanto il suo atto volitivo non sarà spontaneo ma coartato in origine. In questi casi mancherebbe l’elemento soggettivo che la dottrina prevalente ha sempre considerato tipico ed afferente alla causa del contratto di donazione, cioè l’animus donandi.

Altra dottrina [2] ha, invece, sostenuto l’opinione contraria, ammettendo la possibile conclusione di un preliminare di donazione. Gli elementi argomentativi che fondano tale orientamento sono i seguenti: la spontaneità della volizione negoziale mancherebbe, in realtà, in tutti i contratti definitivi conclusi in esecuzione di un preliminare; l’animus donandi sarebbe semplicemente una condizione psicologica che spinge il donante a porre in essere la liberalità e, per questo, dovrebbe essere considerato come puro motivo contrattuale, estraneo, dunque, alla causa. I seguaci di questa dottrina, in altre parole, accolgono la tesi cd.”oggettiva” della causa del contratto di donazione, secondo la quale la funzione economico sociale di tale fattispecie contrattuale è, semplicemente, l’arricchimento del donatario a cui corrisponde l’impoverimento del donante. L’animus donandi non rappresenterebbe, allora, elemento causale, ma elemento ascrivibile alla volontà (art. 1325 cc.).

2. La sentenza n.6080/20 della Corte di Cassazione, sez. II Civile, depositata il 4 marzo 2020

La giurisprudenza della Cassazione è sempre stata orientata a non ammettere, data l’architettura del nostro ordinamento giuridico in materia contrattuale, la possibilità di stipulare contratti preliminari di donazione. Risale a pochi mesi fa la sentenza poc’anzi menzionata, che ha nuovamente ribadito tale indirizzo. L’iter giudiziario che ha portato alla pronuncia risulta abbastanza complesso ed è schematicamente di seguito riportato:

1. Innanzi al Tribunale di Chieti si instaurava un giudizio contenzioso nel quale l’attore, germano del convenuto, chiedeva al giudice l’emissione di sentenza costitutiva ex art. 2932 cc., al fine di ottenere l’esecuzione specifica di un contratto preliminare di donazione stipulato tra le parti in data 11/6/89 con scrittura privata. Con tale contratto il convenuto aveva promesso di donare un immobile all’attore, alla cui realizzazione entrambi avevano contribuito economicamente. Il tribunale accoglieva la domanda qualificando quel contratto come preliminare di vendita sul presupposto che il contributo economico per l’approvvigionamento dei materiali utili alla costruzione sborsato dall’attore aveva costituito il corrispettivo della vendita.

2. La Corte d’Appello dell’Aquila, successivamente, capovolgeva la pronuncia del tribunale affermando, innanzitutto, che il preliminare concluso dalle parti non poteva essere qualificato come preliminare di vendita, mancando il corrispettivo e i dati di identificazione dell’immobile (dati catastali, planimetrie, confini), e, in secondo luogo, che tale preliminare non poteva nemmeno configurarsi come donazione, essendo carente dei requisiti formali dalla legge richiesti ad substantiam.

3. La questione giungeva poi innanzi alla Corte di Cassazione mediante ricorso promosso dalla moglie del germano attore, deceduto nelle more del processo, subentrata a questi in qualità di erede. Con il ricorso veniva contestata la decisione della corte aquilana nella parte in cui negava la possibilità di  esecuzione specifica della  scrittura privata del giorno 11/6/89, ed inoltre nella parte in cui i giudici avevano interpretato il termine “donare” come manifestazione unilaterale di volontà liberale, e non come volontà di porre in essere un atto a titolo oneroso, vista la compartecipazione economica nella realizzazione dell’immobile da parte di entrambi i fratelli.

La decisione della Cassazione sopraggiunge al termine di un esauriente ragionamento giuridico. Innanzitutto, in tema di interpretazione e qualificazione di un atto negoziale, la Corte ha affermato che l’accertamento sulla corretta interpretazione e configurazione di un determinato negozio giuridico è un accertamento di fatto, perciò rimesso al giudice del merito. In sede di legittimità ciò che può essere contestato è la violazione da parte del giudice del grado precedente delle corrette regole ermeneutiche dettate dalla legge per l’interpretazione dei contratti (artt. 1362 e ss. cc.); ciò, ovviamente, solo nel caso in cui il ricorrente abbia specificamente fondato tutto o parte del ricorso su tale rimostranza.

Con tale assunto, in sostanza, la Corte romana ha nuovamente contribuito a stratificare un orientamento giurisprudenziale ormai costante, ai sensi del quale possono essere vagliate dal Giudice di legittimità solamente questioni riguardanti la violazione, e le modalità con cui questa avviene, delle direttive interpretative stabilite dall’ordinamento in tema di contratti, non potendo egli sostituirsi al giudice di merito nella valutazione e nella qualificazione, di fatto, di un negozio giuridico. La Corte si è poi spinta oltre, giungendo ad affermare, come principio generale, che quando dalle espressioni utilizzate nel contratto dalle parti emerge in modo immediato e non equivoco la loro volontà comune, il giudice di merito deve “arrestarsi” al significato letterale delle parole. Dunque, deve sempre e comunque essere privilegiata una interpretazione letterale del contratto, adottando gli ulteriori criteri ermeneutici solo “previa rigorosa dimostrazione dell’insufficienza del mero dato letterale ad evidenziare in modo soddisfacente la volontà contrattuale”. Il giudice della Corte d’Appello dell’Aquila ha, quindi, secondo la Cassazione, giustamente operato, attribuendo alla parola “donare” il suo significato letterale e qualificando, per questo, quell’atto unilaterale come atto donativo, senza compiere ulteriori operazioni ermeneutiche. La Suprema Corte si è, infine, pronunciata sull’ammissibilità di un contratto preliminare di donazione. Riprendendo altra precedente pronuncia [3], la Corte ha affermato, in conformità con quanto teorizzato dalla dottrina più diffusa, che “la coazione all’adempimento, cui il promittente sarebbe soggetto, contrasta con il requisito della spontaneità della donazione, il quale deve sussistere al momento del contratto”. La cessione di proprietà non può quindi essere legittimamente qualificata come preliminare di donazione, pena la sua insanabile nullità. La donazione è un actus legitimus che non ammette preliminare.

[1] Torrente, La donazione, in Trattato di dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, Milano, p. 295..

[2] Messineo, Manuale dir. civ. e comm., III, 1, Milano, p. 569.

[3] Cass. S.U., 18 dicembre 1975,  n. 4153.

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