venerdì, Marzo 29, 2024
Diritto e Impresa

Antitrust, inchiesta contro i Big del cloud per clausole vessatorie e pratiche commerciali scorrette

Repetita (non) iuvant. Dopo Facebook e Whatsapp[1], anche i colossi del Cloud Computing finiscono sotto la lente dell’Antitrust. Sei i procedimenti istruttori avviati nei confronti di Google (per la piattaforma Google Drive), Apple (per il servizio iCloud) e Dropbox (per il servizio omonimo) in merito a presunte pratiche commerciali scorrette e violazioni della Direttiva sui diritti dei consumatori nonché per presunte clausole vessatorie incluse nelle condizioni contrattuali riferite a servizi di storage cloud.

In particolare, scrive l’Antitrust, le istruttorie per pratiche scorrette nei confronti di Google e Apple riguardano «la mancata o inadeguata indicazione, in sede di presentazione del servizio, dell’attività di raccolta e utilizzo a fini commerciali dei dati forniti dall’utente e il possibile indebito condizionamento nei confronti dei consumatori»[2] che, per utilizzare il servizio di cloud storage, non sarebbero in condizione di esprimere all’operatore il consenso alla raccolta e all’utilizzo a fini commerciali delle informazioni che li riguardano.

Le stesse contestazioni vengono mosse anche a Dropbox, a cui si imputa – in aggiunta – «di aver omesso di fornire all’utente, in maniera chiara e immediatamente accessibile, le informazioni sulle condizioni, sui termini e sulle procedure per recedere dal contratto e per esercitare il diritto di ripensamento»; nonché di non fornire le indicazioni necessarie per consentire l’agevole ricorso a «meccanismi extra-giudiziali di conciliazione delle controversie, cui il professionista sia soggetto»[3].

I procedimenti per clausole vessatorie – prosegue il comunicato dell’Antitrust – riguardano, invece, alcune condizioni contrattuali predisposte nei relativi modelli delle predette società. Nello specifico:

  • «l’ampia facoltà – da parte dell’operatore – di sospendere e interrompere il servizio;
  • l’esonero di responsabilità anche in caso di perdita dei documenti conservati sullo spazio cloud dell’utente;
  • la possibilità di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali;
  • la prevalenza della versione in inglese del testo del contratto rispetto a quella in italiano»[4].

In attesa di conoscere l’esito dei procedimenti in questione, proponiamo un’analisi della disciplina delle pratiche commerciali scorrette e delle clausole vessatorie.

Pratiche Commerciali Scorrette: nozione e ambito di applicazione

La disciplina delle pratiche commerciali scorrette è dettata dagli artt. 18-27 quater del Codice del consumo (d.lgs. n. 206/2005), emendato in tal senso dal d.lgs. n. 146/2007[5], attuativo della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali[6].

L’impianto della disciplina comprende una clausola generale di scorrettezza (Art 20 C. cons.); due disposizioni specifiche che riguardano le distinte categorie di pratiche «ingannevoli» (artt. 21-22 C. cons.) e «aggressive» (artt. 24-25 C. cons.); e due «liste nere» di condotte definite «in ogni caso» scorrette sulla base di un giudizio prognostico condotto dal legislatore (artt. 23 e 26 C. cons.).

L’ambito di applicazione oggettivo della disciplina in esame si rivela assai ampio poiché ricomprende, per espressa previsione normativa, «qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale – ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto – posta in essere da un professionista in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori» (art 18, comma 1, lett. d, C. cons.).

All’ampiezza delle condotte suscettibili di divieto si affianca altresì una certa “latitudine temporale”[7] delle pratiche che – si legge – possono essere poste in essere «prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto»(art. 19 co. 1 C. cons.).

Avendo riguardo all’ambito di applicazione soggettivo, invece, la normativa lo circoscrive – al di là dell’ampliamento della disposizione alla tutela delle micro-imprese[8] – ai soli rapporti business to consumer (B2C).

La clausola generale

Il divieto generale di pratiche commerciali scorrette si fonda su due requisiti cumulativi: la contrarietà della pratica alla diligenza professionale e la sua falsità o idoneità a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio (art. 20, co. 2, C. cons.). Quest’ultimo requisito è definito meglio dall’art. 18 lett. e) C. cons., a tenore del quale per «falsare in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori» si intende: «l’impiego di una pratica commerciale idonea a alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».

La clausola generale si articola, poi, in due distinte species: le pratiche ingannevoli, a loro volta distinte in azioni e omissioni ingannevoli; e le pratiche aggressive.

Le pratiche commerciali ingannevoli

Per quanto attiene alle pratiche ingannevoli, il Codice del Consumo distingue tra “azioni” ed “omissioni” ingannevoli.

  • Pratiche di tipo commissivo

L’azione ingannevole può integrare una pratica commerciale scorretta quando «contiene informazioni non rispondenti al vero» o «seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio» (art. 21, comma 1, C. cons.). In entrambi i casi, si richiede che la pratica induca o sia idonea a indurre il consumatore «ad assumere una decisione che non avrebbe altrimenti preso» (c.d. materiality test).

La norma fornisce, poi, dalla lettera a) alla lettera g), l’elenco – non esaustivo – degli elementi su cui fondare il giudizio di ingannevolezza.

Dalla disposizione si evince con chiarezza come l’idoneità a indurre in errore il consumatore implichi una valutazione omnicomprensiva della pratica, dal momento che – al di là della veridicità o meno delle informazioni trasmesse – elementi come la presentazione del messaggio, il contesto della comunicazione, le sue modalità di diffusione e la sua veste grafica possono incidere sull’impatto e sulla percezione del messaggio, rivelandosi quindi potenzialmente distorsivi e alterativi della libertà di scelta del consumatore[9].

Il legislatore mira, dunque, a garantire un consenso consapevole e informato da parte del consumatore – per il quale, si è visto, non è sufficiente il mero quantum informativo – così riducendo l’ontologica asimmetria informativa che connota il rapporto business to consumer.

  • Pratiche di tipo omissivo

Al fine di garantire la libera e consapevole determinazione del consumatore, la disciplina in esame annovera non solo l’omissione di informazioni «rilevanti» – di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale, ma anche l’occultamento e il modo «oscuro, incomprensibile, ambiguo o intempestivo» con cui il professionista fornisce informazioni rilevanti al consumatore (art. 22 C. cons.).

In entrambi i casi, tali condotte sono suscettibili di divieto purché inducano o siano idonee ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso.

In proposito, salvo in due ipotesi espressamente previste dal legislatore[10], la rilevanza dell’informazione omessa andrà valutata di volta in volta «tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato» (art. 22, comma 1, C. cons.).

A questa prima species di pratiche commerciali scorrette – ingannevoli – sembra ascrivibile la condotta di Google, Apple e Dropbox consistente nella «mancata o inadeguata indicazione dell’attività di raccolta e utilizzo – a fini commerciali – dei dati forniti dall’utente». Lo stesso dicasi nel caso specifico di Dropbox per l’«aver omesso di fornire all’utente, in maniera chiara e immediatamente accessibile, le informazioni sulle condizioni, sui termini e sulle procedure per recedere dal contratto e per esercitare il diritto di ripensamento» oltre alle indicazioni necessarie per consentire l’agevole ricorso a «meccanismi extra-giudiziali di conciliazione delle controversie, cui il professionista sia soggetto»[11].

Invero, prima facie, le suddette pratiche sembrano causare nel consumatore un deficit informativo, fuorviandone la libertà di scelta al punto di indurlo ad assumere una decisione non consapevole «che non avrebbe altrimenti preso».

Per quanto attiene, invece, al «possibile indebito condizionamento nei confronti dei consumatori»[12], occorre procedere all’analisi della species di pratiche commerciali scorrette aggressive.

Le pratiche commerciali aggressive

Laddove le pratiche ingannevoli assumono una portata decettiva rispetto alla decisione commerciale del consumatore, influenzandone il processo di formazione della volontà, quelle aggressive hanno una valenza estorsiva più generale della libertà di scelta del consumatore – che rappresenta il bene giuridico protetto dalla disciplina in esame – sfruttandone le debolezze caratteriali, emotive e culturali[13].

Dal tenore dell’art. 24, si evince come le pratiche aggressive si compongano di due elementi costitutivi: uno di carattere strutturale, relativo al mezzo utilizzato – «molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento» –; uno di carattere funzionale, rappresentato dall’attitudine della pratica ad indurre il consumatore ad assumere una decisione commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

Nello specifico, l’art. 25 indica i criteri che presiedono la valutazione dell’aggressività di una pratica commerciale. In proposito, per ciò che rileva ai fini della presente analisi, per indebito condizionamento si intende «lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole» (art. 18, lett. l) C. cons.).

In proposito, è stato opportunamente precisato che per decisione consapevole non si intende «decisione cosciente (o informata) ossia rappresentazione corretta delle caratteristiche del prodotto che si intende acquistare, bensì scelta presa in assenza di paure, pressioni o condizionamenti di sorta»[14].Invero, lo sfruttamento della suddetta posizione di potere sfocia in una pressione precontrattuale o contrattuale del professionista volta a trarre vantaggio da una condizione di vulnerabilità – economica, professionale, psicologica – del consumatore e a compromettere la sua capacità di decidere in conformità ai propri reali interessi e bisogni[15].

Nel caso in questione, ciò che l’Authority contesta è l’impossibilità per l’utente di esprimere il proprio consenso alla raccolta e all’utilizzo, a fini commerciali, delle informazioni personali al fine di poter usufruire del servizio di cloud storage.

Clausole vessatorie

La disciplina normativa delle clausole vessatorie varia a seconda della natura dei contraenti: si applica la normativa codicistica (artt. 1341-1342 c.c.) nel caso di contratti conclusi tra professionisti o imprenditori (B2B, ossia business to business) o tra consumatori (C2C, ossia consumer to consumer); mentre nei rapporti tra professionisti e consumatori (B2C, ossia business to consumer) – come nel caso di nostro interesse – si applica la disciplina consumeristica (artt. 33-38 e 139-141 D. lgs. 205/2006)[16].

La vessatorietà di una clausola viene valutata alla luce di due criteri[17]:

  • il principio generale espresso dall’art. 33, co. 1, C. cons., secondo cui si considerano vessatorie le clausole che «malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» – con ciò intendendosi uno squilibrio di tipo “normativo” e non meramente economico – «tenendo conto della natura del bene o del servizio oggetto del contratto, sulla base delle circostanze esistenti al momento della sua conclusione e delle altre clausole contenute nello stesso ovvero in altro contratto ad esso collegato o da cui dipende» (art. 34 C. cons.). Per clausole di questo tipo, l’accertamento è condotto dal giudice in relazione al caso concreto, e l’onere della prova incombe sul consumatore;
  • le fattispecie tipizzate (di cui agli artt. 33 co. 2 e 36 co. 2 C. cons.) per le quali il legislatore ha già effettuato a priori una presunzione di vessatorietàrelativa nel primo caso e assoluta nel secondo.

Nello specifico, l’art. 33, co. 2., contiene un elenco non tassativo delle clausole che «si presumono vessatorie fino a prova contraria» (c.d. lista grigia). La presunzione di vessatorietà comporta che, in difetto di prova contraria da parte del professionista, le suddette clausole siano nulle (c.d. vessatorietà iuris tantum, ossia presunta sino a prova contraria).

Tra queste, compaiono alcune delle clausole oggetto di contestazione da parte dall’Authority; nello specifico quelle «che hanno per oggetto o per effetto di consentire al professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso» (art. 33, co. 2, lett. m).

Le clausole previste dall’art. 36 c. 2 cod. cons., invece, si presumono iuris et de iure vessatorie – cioè non ammettono la prova contraria – e si considerano sempre nulle, quantunque oggetto di specifica trattativa (c.d. lista nera).

Per concludere, è evidente come il principio cardine delle varie normative poste a tutela dei consumatori, da quella in tema di pratiche commerciali scorrette alle clausole vessatorie, sia la salvaguardia della libertà, della consapevolezza e della praticabilità della scelta di consumo.

Consumatori e dati personali nell’economia digitale

Lo sviluppo dell’economia digitale impone nuove ed importanti sfide per la protezione dei dati personali e la tutela dei consumatori: dalla «centralità del dato, anche come bene economico e l’importanza della sua tutela come diritto fondamentale della persona» alla «necessità di garantire trasparenza e scelte effettive al consumatore […] in relazione al consenso circa l’uso del proprio dato»[18].

Del resto, si sa, nella data-driven economy, il rischio per i dati personali è sempre più a portata di click. Si ricorderà, in proposito, la popolare definizione coniata dall’Economist: “Data is the new fuel, the new money” (The Economist, 2017).

La natura trasversale dei suddetti profili suggerisce la necessità di una complementarietà tra interventi antitrust, di tutela del consumatore, regolatori e di protezione dei dati personali. È in questa direzione che si muove l’indagine conoscitiva avviata, nel maggio del 2017, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dal Garante della Protezione dei Dati e dall’Autorità di Regolazione per le Comunicazioni[19]. Nel capitolo conclusivo, tra le linee guida e raccomandazioni di policy indirizzate al legislatore, si legge l’impegno assunto dalle tre Autorità a definire un meccanismo di collaborazione permanente in relazione agli interventi e allo studio dell’impatto dei big data su imprese, consumatori e cittadini.

Nel frattempo, si attende la decisione dell’AGCM in merito alla questione. I Big del Cloud potrebbero essere sanzionati, o costretti a una revisione delle condizioni contrattuali, oppure giungere ad un accordo con l’Autorità.

[1] AGCM, PS10601, Provvedimento n. 26597, Whatsapp – Trasferimento dati a Facebook, 11 maggio 2017; AGCM CV154, Provvedimento n, 26596, Whatsapp – Clausole Vessatorie, 11 maggio 2017.

[2] AGCM, PS11147-PS11149-PS11150, Comunicato stampa 7 settembre 2020. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/9/CV194-CV195-CV196-PS11147-PS11149-PS11150

[3] AGCM, PS11147-PS11149-PS11150, Comunicato stampa 7 settembre 2020. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/9/CV194-CV195-CV196-PS11147-PS11149-PS11150

[4] AGCM, PS11147-PS11149-PS11150, Comunicato stampa 7 settembre 2020. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/9/CV194-CV195-CV196-PS11147-PS11149-PS11150

[5] D.lgs n. 146 del 2 agosto 2007, recante “Attuazione della dir. 29/2005/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno che modifica le direttive 84/450/CE, 98/27/CE, e il reg. CE n. 2006/2004”, in G.U., n. 207, 6 settembre 2007.

[6] Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali».

[7] G. De Cristofaro (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, il recepimento della direttiva 2005/29/CE nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), 2008, p. 64 ss.

[8] Il riferimento alle microimprese è stato introdotto dalla recente Legge 24 marzo 2012, n. 27, di conversione del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività.

[9] Camera di Commercio Ancona, Le pratiche commerciali scorrette, I Quaderni del Consumatore, Vol.6, 2012.

[10] Nello specifico, nel caso di «invito all’acquisto» (art.22, comma 4, C.cons.); e nel caso di rinvio agli «obblighi di informazione previsti dal diritto comunitario e connessi alle comunicazioni commerciali, compresa la pubblicità o la commercializzazione del prodotto» (art. 22, comma 5, C. cons.).

[11] AGCM, PS11147-PS11149-PS11150, Comunicato stampa 7 settembre 2020. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/9/CV194-CV195-CV196-PS11147-PS11149-PS11150

[12] AGCM, PS11147-PS11149-PS11150, Comunicato stampa 7 settembre 2020. https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/9/CV194-CV195-CV196-PS11147-PS11149-PS11150

[13] DI NELLA L., Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commerciali sleali aggressive, in Contr. Impr. Eur., 2007.

[14] M. Scali, sub art. 18, lett. l, in Le modifiche al Codice del consumo, E. Minervini, L. Rossi Carleo (a cura di), 2009, p. 156 ss.

[15] E. Guerinoni, Le pratiche commerciali scorrette. Fattispecie e rimedi, Milano, 2010, p. 130 ss.

[16] M. Ferrari, Clausole vessatorie: la guida completa. Altalex, 2020. https://www.altalex.com/guide/clausole-vessatorie

[17]L. Bazzan, Codice del consumo: le clausole vessatorie. Studio Cataldi, 2017. https://www.studiocataldi.it/articoli/24634-codice-del-consumo-le-clausole-vessatorie.asp

[18] AGCM, IC53 – Big Data: pubblicata indagine Agcom, Agcm e Garante privacy, Comunicato stampa 10 febbraio 2020.https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2020/2/Big-Data-pubblicata-indagine-Agcom-Agcm-e-Garante-privacy

[19] Agcom, Agcm e Garante privacy, Indagine conoscitiva sui Big Data, 10 febbraio 2020, https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/IC_Big%20data_imp.pdf

Francesca Michetti

Francesca Michetti. Nasce a Chieti nel 1992. Laureata in giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli con 110/110 e lode. Durante la stesura della tesi, dal titolo “Il divieto di perizia psicologica sull’imputato”, sviluppa un particolare e profondo interesse per lo studio del complesso rapporto tra il diritto, la psicologia e le neuroscienze. Spinta dal desiderio di avvicinarsi alla conoscenza scientifica del comportamento umano e dei meccanismi cognitivi e celebrali che lo governano, intraprende il dottorato in Business and Behavioral Science presso l’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara. Si descrive come una persona curiosa, riflessiva, precisa e determinata: le piace andare oltre la superficie di tutte le cose, alla ricerca del senso più profondo, di sé e degli altri.

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