venerdì, Aprile 19, 2024
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Arbitrato ICSID mette (forse) fine alla ‘questione miniera Reko Diq’: il Pakistan dovrà pagare 6 miliardi di risarcimento alla TCC

Dopo un arbitrato lungo e accurato[1] – come è stato definito dal presidente e amministratore delegato della Barrick Gold Corporation, Mark Bristow – il Centro Internazionale per il regolamento delle controversie relative ad investimenti (ICSID) ha condannato lo Stato Islamico del Pakistan al pagamento della cifra ‘stellare’ di 5.84 miliardi di dollari alla joint venture canadese-anglo-cilena “Tethyan Copper Company Pty Limited” (d’ora in avanti “TCC”) a titolo di risarcimento per averle ingiustamente negato il consenso allo sviluppo del sito minerario del Reko Diq.

L’ICSID

L’ICSID (International Centre for Settlement of Investment Disputes) è la maggiore istituzione internazionale specializzata nella risoluzione delle controversie fra stati e società investitrici. Creata nel 1966 mediante la ICSID Convention è posta sotto l’egida della World Bank e ha come maggiore obiettivo quello di incentivare e promuovere gli investimenti a livello mondiale. Il lavoro dell’ente va ben oltre la mera risoluzione di controversie mirando, di volta in volta, ad un continuo e proficuo bilanciamento degli interessi delle parti in campo in tutti gli ambiti in cui è chiamato a dirimere i conflitti: conciliazione, arbitrato e mediazione[2].

Le parti e i giacimenti del Pakistan

Il caso in questione vede contrapporsi gli interessi di uno stato, il Pakistan, a quelli della “Tethyan Copper Company Pty Limited” società le cui quote sono egualmente ripartite fra la “Barrick Gold Corporation” e la “Antofagasta plc” (le due maggiori multinazionali del settore dell’estrazione mineraria)

L’accordo alla base dell’acquisto congiunto della TCC (avvenuto nel 2006) ha esattamente lo scopo di garantire ai due colossi dello sfruttamento delle risorse del sottosuolo il proficuo utilizzo delle immense ricchezze nascoste nelle profondità del Pakistan, esattamente nella piana di Reko Diq, distretto di Chagai, stato del Baluchistan. Secondo i dati forniti dalla TCC[3] dal 2006 sono stati spesi oltre 220 milioni di dollari per il progetto esplorativo e lo studio di fattibilità sul sito che, secondo la stessa società, garantirebbe un indotto di 3.3 miliardi di dollari totali per gli stimati 56 anni di possibile attività estrattiva.

Dall’altra parte troviamo il Pakistan, lo stato islamico fra i maggiori possessori al mondo di materie prime e sempre ‘smanioso’ di chiudere accordi sempre più vantaggiosi con le multinazionali del settore estrattivo.

La miniera oggetto della disputa si trova lungo il percorso denominato “Arco Magmatico del Tethyan”, una zona che si estende fra Turchia, Iran e, appunto, Pakistan, nota per la sua ricchezza di materie prime. Si stima che il sito in questione contenga circa 5.9 miliardi di tonnellate di oro e rame, piazzandosi al quinto posto fra i siti più ‘ricchi del mondo’[4].

La CHEJVA, le trasformazioni societarie e la strada verso il contenzioso

Tutto ha inizio nel 1993 quando la società australiana BHP, specializzata nell’estrazione e nel commercio di petrolio e minerali[5], sigla un accordo (CHEJVA – Chagai Hills Joint Venture Agreement) con l’Autorità per lo Sviluppo del Balochistan in cui le viene concessa l’autorizzazione alla ricerca e allo sfruttamento delle risorse minerarie nell’area del Reko Diq. Nel 2000 la società olandese Mincor subentra nell’accordo al posto della BHP fondando dopo poco la TCC che nel 2006 passa in mani canadesi-anglo-cilene grazie all’accordo siglato fra la Barrick Gold Corporation e la Antofagasta plc[6].

Come anticipato dopo circa 4 anni di lavoro e oltre 220 milioni di dollari spesi la TCC presenta il suo report finale con lo studio di fattibilità in cui sono esplicitati parametri tecnici e commerciali del possibile sviluppo miliardario del giacimento[7].

Nel novembre 2011 avviene però la svolta: appellandosi alle statuizioni contenute nel regolamento sulle miniere del Balochistan (i.e. Balochistan Mines Rules)[8] la Commissione per lo sfruttamento minerario dell’omonimo stato parte della federazione del Pakistan ha negato alla TCC il permesso finale per l’implementazione dei lavori nella piana del Reko Diq adducendo presunte incompletezze nella documentazione fornita nello studio di fattibilità[9].

L’arbitrato[10]  

A fronte dell’inaspettato diniego della concessione la TCC tramite una nota del suo ufficio stampa[11] annuncia il ricorso all’arbitrato presso la ICSID.

Il primo importante atto nella strada verso la decisione finale è la pronuncia del 13 dicembre 2012[12] in cui, sebbene il collegio non riconosca alla TCC il diritto ad ottenere le provisional measures richieste (non sussistendo gli inderogabili presupposti di urgenza e necessità) certifica la propria competenza prima facie a decidere sulla questione. Le basi usate dalla ICSID sono l’art 25 della propria convenzione e l’art 13 del Trattato Australia-Pakistan.

La successiva nota[13] dell’ufficio stampa TCC sottolinea l’importanza della decisione affermando, in ogni caso, la propria propensione per una soluzione negoziale alternativa, atteggiamento che, come vedremo, sarà premiato nella decisione finale del collegio arbitrale.

Alla prima pronuncia seguono circa 5 anni in cui il Pakistan tenta di dimostrare che la violazione dell’accordo alla base dell’arbitrato, in realtà, non sussiste in quanto la Suprema Corte del Pakistan aveva ritenuto l’accordo CHEJVA frutto di illecite pressioni esercitate dalle multinazionali sulle autorità del paese. Secondo la difesa del Paese asiatico, dunque, non potrebbe basarsi alcuna pretesa su un accordo dichiarato illegittimo dalla propria Suprema Corte[14].

Il 21 marzo del 2017, però, la ICSID respinge le pretese del Pakistan ritenendolo responsabile in via preliminare per la violazione dell’accordo[15]; nel luglio dello stesso anno viene formulata dalla TCC la richiesta di risarcimento dei danni che ammonta a circa 11.5 miliardi di dollari: 9.1 come valore dell’investimento ragguagliato al valore di mercato del 2011 e 2.3 a titolo di interessi composti[16].

Il 12 luglio scorso, nonostante le opposizioni del governo di Islamabad alle pretese della multinazionale è arrivata la pronuncia del collegio arbitrale che ha (forse) messo la parola fine a questa controversia lunga e difficile: il Pakistan è stato condannato a pagare una cifra di circa 6 miliardi di dollari (5.95 per l’esattezza), 4.08 a titolo di penale e 1.87 a titolo di interesse. La soluzione del conflitto, seppur evidentemente aggiudicativa, sembra comunque essere il frutto di un’importante attività di studio, ricerca e mediazione da parte del collegio che si trovava inizialmente a fronteggiare una richiesta di risarcimento formulata dalla TCC pari a quasi 12 miliardi di dollari.

Se da una parte gli amministratori delegati delle due società azioniste della TCC ‘festeggiano la vittoria nell’arbitrato’ (salutata addirittura come una “pietra miliare dopo più di 7 anni di arbitrato” da parte dell’AD di Antofagasta plc, Ivàn Arriagada) Islamabad tenta di correre ai ripari caldeggiando, ora più che mai, una soluzione negoziale[17] che in ogni caso vedrebbe il governo partire in una posizione di svantaggio data la recente pronuncia sfavorevole dell’International Centre for settlement of investments disputes.

Considerazioni finali

Decisione interessante e ‘drastica’ quella della ICSID che dimostra ancora una volta quanto il valore della mediazione e della risoluzione alternativa non possa essere sottovalutato o tralasciato nell’era dell’ADR. Il governo di Islamabad, per colpa di questo eccesso di ‘orgoglio aggiudicativo’, si trova a dover fronteggiare una pretesa economica che rischia, però, di essere meno pesante della ben peggiore portata di questa vicenda a livello di immagine di un Paese che, a livello commerciale internazionale, rischierà ora seriamente di vedersi ‘sfiduciato’ da numerosi partner.

[1] https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-07-15/antofagasta-jumps-on-5-8-billion-damages-award-against-pakistan

[2] https://icsid.worldbank.org/en/Pages/about/default.aspx

[3]

[4] https://timesofindia.indiatimes.com/world/pakistan/international-tribunal-slaps-5-billion-penalty-on-pakistan-in-reko-diq-mining-lease-cancellation-case/articleshow/70218779.cms

[5] https://www.bhp.com/our-approach/our-history

[6] http://afia.asia/2017/08/tethyan-copper-company-pty-limited-v-islamic-republic-of-pakistan-liability-under-a-bit-despite-domestic-courts-findings-of-corruption-and-illegality/

[7]

[8]

[9]

[10] https://icsid.worldbank.org/en/Pages/cases/casedetail.aspx?CaseNo=ARB%2f12%2f1

[11]

[12] http://icsidfiles.worldbank.org/icsid/ICSIDBLOBS/OnlineAwards/C3805/DC4984_En.pdf

[13]

 

[14] https://sahsol.lums.edu.pk/law-journal/pakistan%E2%80%99s-need-amicable-resolutions-concerning-foreign-investment-disputes-reko-diq

[15] https://www.italaw.com/sites/default/files/case-documents/italaw8560.pdf

[16]

[17] https://www.reuters.com/article/us-pakistan-mine/pakistan-welcomes-ventures-willingness-for-negotiated-settlement-after-reko-diq-mine-ruling-idUSKCN1U908U

Francesco dal Maso

Francesco dal Maso è laureando in Giurisprudenza presso l'Università di Bologna. I suoi settori disciplinare di specializzazione sono Arbitrato e Alternative Dispute Resolution con particolare attenzione al contenzioso in ambito commerciale. Nel suo percorso di formazione accademica annovera un semestre in Argentina, presso la Universidad Nacional de Cuyo di Mendoza e un anno nel Regno Unito, alla University of Westminster di Londra. Parla correntemente inglese e spagnolo.

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