giovedì, Aprile 18, 2024
Labourdì

L’articolo 18 ed alcuni dubbi sulla sua legittimità costituzionale

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori costituisce uno degli strumenti di tutela effettiva del lavoratore dal momento che disciplina il reintegro a fronte di un licenziamento illegittimo.

Tale ipotesi di licenziamento si configura allorquando il datore di lavoro provveda a interrompere il rapporto contrattuale con il dipendente senza fornire alcuna motivazione o quando lo stesso si appalesi chiaramente discriminatorio.

La ratio che ha animato il Legislatore  è stata quella di consentire al datore di poter “riparare” alla sua condotta ingiusta potendo reintegrare il lavoratore nel luogo di lavoro.

Posto il rilievo della tematica disciplinata dall’articolo in esame, non stupisce che sia stato più volte oggetto di modifiche e aggiornamenti.

Considerevole ma altresì molto discussa è stata la Riforma realizzata con La legge Fornero. Tra i numerosi aspetti innovativi si è provveduto a riconoscere al giudice del lavoro la possibilità di scegliere, a fronte di un’acclarata illegittimità del licenziamento, tra il reintegro (già previsto dalla precedente disciplina) e l’assegnazione di somme di denaro a titolo di indennità.

Tale disposizione normativa è stata oggetto di ulteriori modifiche anche nel corso del governo Renzi. La riforma, conosciuta come “Jobs act”, ha infatti rivoluzionato la disciplina del lavoro incidendo anche sull’articolo 18. Gli aspetti più rilevanti concernono sia il rapporto tra assunzione e licenziamento che i poteri riconosciuti al giudice che accerta la legittimità del licenziamento.

Il decreto n. 23 del 2015 ha stabilito che le assunzioni a partire dal 7 marzo 2015 sono sottoposte al nuovo contratto di lavoro a tempo in determinato laddove si tratti di rapporti sorti in imprese con un numero inferiore di 15 dipendenti. Tale nuovo rapporto di lavoro è improntato alla maggiore flessibilità del datore di lavoro di procedere al licenziamento.
È possibile provvedere all’interruzione del rapporto lavorativo sia a fronte di ragioni economiche che disciplinari (in tal caso si delinea un’ipotesi di giusta causa è giustificato motivo soggettivo).

Nel caso in cui il giudice di primo grado investito del giudizio di legittimità ritenga ingiustificato il licenziamento provvederà a disporre il risarcimento pari a due mensilità per ogni anno.
Con riferimento alle imprese con un numero di dipendenti maggiore di 15 valgono regole della disciplina precedente. Laddove però il dipendente cambi impresa la nuova assunzione sarà legata alle nuove regole sù indicate. Sul versante del reintegro si è provveduto ad un considerevole ridimensionamento del potere del giudice di primo grado.
A quest’ultimo è precluso di entrare nel merito della questione. La sua valutazione è tenuta a accertare solo la sussistenza o meno del fatto.

Molti criticano tale riforma perché di fatto consentirebbe di licenziare anche in presenza di motivazioni non gravi. Fortunatamente la scelta di non rimuovere l’articolo 30 della legge 183 del 2010 ha consentito di assicurare una tutela dal momento che assicura in ogni caso il reintegro.
La novità più rilevante riguarda comunque il diritto riconosciuto al datore di lavoro di poter patteggiare. Al fine infatti di limitare il contenzioso, il datore di lavoro, laddove vi sia stata una sentenza che ha accertato l’illegittimità del licenziamento, può offrire per ogni anno di servizio di mensilità a titolo di risarcimento.
Laddove il lavoratore accetti l’accordo é esclusa la possibilità di impugnare il risarcimento.

Di recente l’articolo 18 è stato però oggetto di dubbi di legittimità costituzionale proprio con riguardo ad alcune modifiche realizzate con la sù citata legge del Giugno 2012.

La questione di legittimità è stata sollevata, per lesione dell’articolo  3 comme 1 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Trento a seguito del giudizio di opposizione presentato da una lavoratrice.

Nel caso di specie ll giudizio aveva ad oggetto un decreto ingiuntivo con cui la Cassa rurale, in qualità di datore di lavoro, richiedeva a restituzione di somme fornite a titolo di indennità per il periodo intercorso tra il licenziamento e la data della pronuncia con cui si era provveduto a riformare l’ordinanza di annullamento del licenziamento illegittimo. La sentenza aveva cioè riconosciuto la legittimità del licenziamento.

Per il giudice monocratico la norma in analisi presentava chiari punti di “frizione” con il principio costituzionale di eguaglianza nella parte in cui fa riferimento alla qualifica legislativa delle somme di denaro fornite al lavoratore.

Nel  rimettere la questione alla Corte Costituzionale il giudice investito della questione ha prospettato il preciso iter logico seguito. Secondo il remittente,infatti, la circostanza per cui vi sia stata una pronuncia attraverso la quale si è accertato l’obbligo di provvedere al reintegro del lavoratore (anche se poi seguita da una pronuncia riformatrice) è fatto da solo idoneo a qualificare il diritto del lavoratore a percepire il trattamento retributivo.  Le somme di denaro costituiscono cioè un corrispettivo e hanno di conseguenza una chiara natura retributiva.

Sul profilo delle somme corrisposte ai dipendenti, qualificarle esclusivamente come retributive costituirebbe una disparità di trattamento tra il datore di lavoro che sceglie di rispettare l’obbligo di reintegro e colui che si astiene.  In tale ultima ipotesi,infatti, il provvedimento di reintegra và a ripristinare il rapporto lavorativo interrotto e di conseguenza le somme da corrispondere al dipendente sono imputabili a titolo del valore della forza lavoro che il dipendente avrebbe prestato in quel periodo.

Secondo l’impostazione prospettata dal remittente,dunque, si finirebbe per favorire la condotta del datore di lavoro che non rispetta l’ordine di reintegro dal momento che, al pari del datore adempiente, potrebbe riottenere gli importi forniti. È in tale disuguaglianza che emerge la lesione del principio costituzionale menzionato.

La Corte Costituzionale, investita della questione, ha ritenuto infondato quanto espresso dal gudice monocratico del Tribunale di Trento.

Pur ammentendo che su versante giuridico l’obbligo di reintegro consenta di ripristinare il rapporto contrattuale, la Corte evidenzia come sul profilo pratico ciò possa effettivamente realizzarsi soltanto laddove il datore di lavoro si adoperi con un fare infungibile.

Ne consegue che in assenza di un effettivo comportamento del datore di lavoro le conseguenza negative del licenziamento illegittimo continuano a realizzarsi.

È per tale ragione che, accertata l’inadempimento del datore di lavoro, il giudice può provvedere con sentenza non soltanto a ordinare il reintegro ma altresì a prevedere un’indennità di risarcimento.

La Corte in  tal modo pone in evidenza la coerenza logica del precetto normativo in analisi. Le somme fornite al dipendente assumono valore risarcitorio soltanto allorquando derivino dal protrarsi di una condotta illecita del datore di lavoro.

Spingendosi oltre la Corte costituzionale evidenzia anche la non fondatezza della disparità di trattamento prospettata tra il datore di lavoro adempiente e quello che sceglie di non rispettare l’ordine di reintegro.

Le situazione sono infatti tra loro non omogenee e di conseguenza non possono essere tra loro comparate alla luce dell’articolo  3 della Costituzione. Nel caso del datore inadempiente non può procedersi alla restituzione del corrispettivo esborso retributivo fornito al datore di lavoro che ha invece adempiuto all’ordine del giudice.

Bibliografia:

Statuto dei lavoratori legge n. 300 del 1970;

Riforma fornero –  legge n. 92 del 2012;

Corte Costituzionale, sent. num. 86 del 2018

 

Serena Zizzari

Serena Zizzari é nata a Caserta il 12/03/1993. Ha perseguito i suoi studi universitari presso la Facoltà Federico II di Napoli dove, in data 12/07/2016, ha conseguito la Laurea in Giurisprudenza con votazione 110 e lode. Ha vissuto un' esperienza di studio all'estero attraverso il progetto Erasmus nella città di Siviglia. Praticante avvocato, attualmente frequenta un corso privato di preparazione al concorso in Magistratura e il primo anno della Scuola di specializzazione delle Professioni legali.

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