venerdì, Marzo 29, 2024
Di Robusta Costituzione

Autonomia differenziata: una lettura alla luce del principio costituzionale di sussidiarietà

Nei mesi estivi del 2019 il dibattito riguardante la realizzazione dell’autonomia differenziata, come prevista dall’art.116.3 della Costituzione, è entrato nel vivo, parallelamente alla discussione più volte rinviata in sede di Consiglio dei ministri delle proposte di maggiore autonomia avanzate da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto[1], assumendo com’era prevedibile un aspetto di rivendicazioni reciproche lontane da una prospettiva costituzionale.

Con questo breve articolo, senza pretesa di fornire una soluzione ad ognuna delle problematiche riguardanti la legittimità e, soprattutto, l’opportunità degli spazi di maggiore autonomia richiesti dalle regioni in ognuna delle ventitré materie[2], che è questione pertinente strettamente alla gestione politica, ci si propone di fornire un indirizzo tramite il quale interpretare dette questioni.

 

L’art. 116.3 della Costituzione, a seguito della riforma del Titolo V del 2001[3], recita: «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

Per quanto riguarda la cosiddetta autonomia finanziaria, che certamente è uno dei punti focali, e forse il più delicato, l’art.119.5 stabilisce invece che «le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite», dove questo uso del verbo “consentire” significa contemporaneamente che gli enti territoriali devono gestire le competenze loro attribuite nel modo più virtuoso possibile con le risorse che ricavano dai mezzi ivi previsti, ma anche che le risorse raccolte in questo modo devono essere obiettivamente sufficienti a consentire a detti enti di finanziare integralmente, mantenendo un livello di prestazione adeguato, le funzioni attribuite loro.

 

Per intraprendere una linea di pensiero corretta, si propone di prendere la mosse da una sentenza della Corte Costituzionale di poco successiva all’entrata in vigore della riforma del Titolo V, la n. 303 del 2003, che, in mancanza di un’esplicitazione scritta da parte del legislatore costituzionale, individua la ratio ed il principio ispiratore, da tenere presente ai fini di qualunque analisi coinvolga la ripartizione di competenze e, conseguentemente, di risorse tra Stato ed enti locali, nel principio di sussidiarietà contenuto nell’art.118: ben lungi da un’ottica di spartizione di materie o di fondi, si tratta di un principio fondamentale che coinvolge tutta l’organizzazione della Repubblica, trovando fondamento implicito, in questo ambito specifico, già nell’art. 5, che parla espressamente di decentramento ed autonomia[4], e soprattutto nel novellato art. 114[5] il quale, ponendo sullo stesso piano valoriale le diverse articolazioni territoriali, oggi recita: «la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione». Di questo dispositivo, a parere di chi scrive, è particolarmente rilevante l’inciso finale, «secondo i princìpi fissati dalla Costituzione», che va considerato nella sua pienezza e cioè in riferimento a tutta la Costituzione nel suo complesso e, a maggior ragione, a quei princìpi fondamentali che della Repubblica costituiscono l’ossatura e la finalità istituzionale.

 

Tornando all’art.118, il quale dispone, al primo comma, che «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza», la Corte Costituzionale, con sentenza n. 303 del 2003[6], afferma che «accanto alla primitiva dimensione statica, che si fa evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, è resa, infatti, attiva una vocazione dinamica della sussidiarietà, che consente ad essa di operare non più come ratio ispiratrice e fondamento di un ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come fattore di flessibilità di quell’ordine in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie».

Questo passaggio introduce la questione che qui ci sta a cuore, cioè la sussidiarietà come criterio interpretativo della ripartizione anche legislativa delle competenze: la Consulta, infatti, estende la portata del principio di sussidiarietà verticale, pur sempre entro i limiti che vi sono connaturati, segnando in ogni caso un ruolo di principio generale per la sussidiarietà, che si spinge oltre la semplice funzione amministrativa.

 

La Corte, dunque, prosegue: «ciò non può restare senza conseguenze sull’esercizio della funzione legislativa, giacché il principio di legalità, il quale impone che anche le funzioni assunte per sussidiarietà siano organizzate e regolate dalla legge, conduce logicamente ad escludere che le singole Regioni, con discipline differenziate, possano organizzare e regolare funzioni amministrative attratte a livello nazionale e ad affermare che solo la legge statale possa attendere a un compito siffatto», infatti, «limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei princìpi nelle materie di potestà concorrente, significherebbe bensì circondare le competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze».

 

Analisi del principio di sussidiarietà nell’art.118 della Costituzione

 

Sulla scorta di una concezione di sussidiarietà estesa a principio e criterio generale per l’organizzazione legislativa e amministrativa della Repubblica, conviene ora occuparsi del significato rivestito dalla sussidiarietà all’interno dell’art. 118.

Per dimostrare come autonomia e sussidiarietà si saldino all’adeguatezza e al perseguimento delle finalità costituzionali dell’ordinamento in modo illuminante per l’analisi delle prospettive di autonomia differenziata delle Regioni, può rendersi utile prendere le mosse da un paragone con il comma 3 dello stesso articolo 118, pur riferito alle spontanee iniziative della società civile: «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

 

Nel postulare espressamente il principio di sussidiarietà, cosiddetta, orizzontale, a ben vedere esso ci fornisce un’indicazione decisiva su cosa sia, in generale, la sussidiarietà e sul rapporto tra Stato centrale e livelli decentrati: le iniziative provenienti dalla società civile sono non solo ammesse, ma, anzi, devono essere incentivate e sostenute a condizione che esse siano rivolte effettivamente al perseguimento dell’interesse generale; e quando si verifica questa condizione? Quando i cittadini sono in grado di avvicinarsi alla realizzazione delle finalità indicate dai valori costituzionali più efficacemente rispetto al diretto intervento dell’amministrazione pubblica, quindi la Repubblica si affida, e offre sussidio[7], alle iniziative private quando queste perseguano fedelmente le finalità costituzionali e, soprattutto, siano in grado di garantire un apporto migliorativo rispetto a queste nei confronti dei cittadini.

Non così qualora i fini del soggetto privato dovessero essere divergenti o, addirittura, contrastanti con l’ordinamento costituzionale, nel qual caso la sussidiarietà si rovescerebbe diametralmente, consentendo invece il massimo intervento amministrativo, e legislativo, allo scopo di orientare la realtà autoprodottasi al dettato della Costituzione.

 

Ritornando al rapporto tra lo Stato e gli enti territoriali, dunque al primo comma, la questione dell’opportunità o meno di decentrare le funzioni amministrative si pone esattamente negli stessi termini, con particolare riguardo, dunque, al significato dell’adeguatezza, che nel terzo comma è sostituita, in un certo senso, dal più forte richiamo all’interesse generale, poiché, trattandosi in quel caso di privati, la finalità della loro azione non può essere data per scontata; a che cosa deve essere adeguata l’azione degli enti territoriali per meritare questo favore nell’attribuzione delle funzioni amministrative?

Un’interpretazione minimale potrebbe suggerire uno standard di adeguatezza pari ai livelli del minimo vitale ricavabile dalla Costituzione, oppure, già più coerentemente, al livello di servizio minimo concretamente assicurato ovunque dallo Stato nello svolgimento delle funzioni amministrative.

 

Adeguatezza al perseguimento dei valori costituzionali: finalismo dello Stato e sussidiarietà.

 

A questo proposito, però, si rende indispensabile una lettura unitaria e sistematica della Costituzione e, in particolare, dei suoi Principi fondamentali, non potendo confinare un ragionamento di questa portata nei ristretti confini del Titolo V. È necessario allora ricordare che la Repubblica italiana, per scelta precisa dei Costituenti in favore di una costituzione sociale[8], lunga e dettagliata, è uno Stato finalisticamente orientato[9] al perseguimento di determinati valori, rappresentati per tutti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.

Si tratta della costruzione di una Repubblica, dunque, che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»[10], da un lato, e si impegna a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»[11], dall’altro.

 

Questi compiti, con particolare riguardo all’elevazione personale dei cittadini e all’uguaglianza sostanziale, tramite i quali vanno lette anche le altre disposizioni costituzionali, devono essere responsabilità e cura della Repubblica in tutte le sue articolazioni, la quale deve essere in grado di garantire il perseguimento delle finalità costituzionali nel modo più adeguato sia a livello amministrativo che legislativo.

Allora “adeguatezza” significa che la capacità di intervento di una data articolazione territoriale della Repubblica deve essere adeguata a perseguire tali valori e principi e, evidentemente, a conseguirli in maniera migliore e più penetrante rispetto al livello statale, proprio grazie alla vicinanza del livello territoriale rispetto ai destinatari ultimi del diritto.

 

In questi ultimi passaggi è più evidente il quid che accomuna, sotto il profilo della sussidiarietà[12], funzione amministrativa e legislativa, come suggerito dalla Corte nel superare la rigidità letterale, rendendo possibile la traslazione delle ragioni esposte fin qui anche alla questione dell’autonomia differenziata ex art. 116.3 della Costituzione.

 

Conclusioni.

 

Ne consegue, riguardo al dibattito su quest’ultimo tema, una duplice considerazione:

  • Come già detto, non si deve cadere nell’errore, magari insinuato anche dal braccio di ferro tra le forze politiche parlamentari e regionali, di considerare l’autonomia differenziata come una partita la cui posta in gioco è un decentramento di potere o di risorse, tale da determinare una sorta di legittimo conflitto tra gli interessi generali dello Stato e quelli particolari della Regione, per cui la Regione più forte sarebbe eventualmente in grado di determinarsi addirittura in senso contrapposto alle finalità della Repubblica e, contemporaneamente, agli interessi delle altre Regioni.

 

L’autonomia differenziata non può essere considerata, alla luce dei valori costituzionali e del finalismo dello Stato accennato poc’anzi, come una semplice occasione per appropriarsi di talune competenze, considerando queste ultime come un “diritto della Regione” attribuito direttamente dall’art. 116.3 e disponibile su richiesta, e non può trovare corrispondenza nella Costituzione in tutti i casi in cui, al di là di una gestione potenzialmente più efficiente delle risorse, renda necessario un giudizio di bilanciamento per cui, in nome del Titolo V e dell’attribuzione di certe competenze, vengano automaticamente compresse le finalità generali dello Stato sotto altri profili[13], compresa l’ipotesi in cui la devoluzione di una determinata materia all’esclusiva competenza regionale, così come prevista dalla proposta di intesa, riduca corrispettivamente il godimento del bene della vita tutelato dalla medesima materia nei confronti della generalità dei cittadini, cosa che a ben vedere si scontra già con il principio di uguaglianza e poi eventualmente con altri diritti specifici.

 

Si ricorda, tra l’altro, che giudizi di bilanciamento tra valori costituzionali non possono mai essere operati sul piano di un interesse puramente regionale, secondo una linea di pensiero orientata verso il perseguimento del “bene comune” di tutti i cittadini, che si identifica pur sempre con le finalità costituzionali dello Stato, la quale è quella infine sposata proprio dalla Sentenza 303 del 2003: essa, infatti, dalla necessità di superare la rigidità letterale della ripartizione di competenze con il criterio delle materie, ricava quell’istituto fondamentale che è la chiamata in sussidiarietà[14], con la quale, richiamando a sé le materie che richiedano un «esercizio unitario»[15] delle competenze, lo Stato entra a talune condizioni in modo determinante nel bilanciamento, recuperando così in ogni caso la possibilità di far prevalere l’interesse generale sulle istanze di carattere più ristretto, rendendo dunque la sussidiarietà ex art.118.1, a tutti gli effetti, «metafora dell’interesse nazionale»[16].

 

  • Le maggiori forme di autonomia garantite dalla Costituzione, nella loro migliore interpretazione alla luce del principio di sussidiarietà, sono ispirate a principi di miglior governo del territorio, considerando tale in linea di massima il livello più vicino ai destinatari ultimi delle norme e della gestione amministrativa, anche alla luce del pluralismo e del fondamento personalistico che caratterizza il nostro ordinamento[17]. Abbiamo visto come la sussidiarietà, che costituisce il mezzo tramite cui ottenere questo risultato, sia principio da applicare in tutte le sfaccettature, consentendo dunque la maggiore autonomia legislativa delle Regioni che la richiedono, quando esse siano in grado di assicurare interventi migliorativi rispetto al livello statale, grazie alla migliore gestione locale delle risorse ed alla più approfondita conoscenza dei territori, senza controindicazioni di sorta.

 

L’unica versione di autonomia differenziata che sia conforme allo spirito e al sistema costituzionale, in conclusione, e che in quanto tale è non solo possibile, ma incentivata dalla Costituzione stessa, è la prospettiva di una crescita progressiva e parallela, nella solida direzione dei valori che la Repubblica (comprensiva sia di Stato che di Regione) ha il dovere di perseguire, per il successo della quale il livello statale si rende sussidiario di fronte a quelle iniziative che il livello regionale dimostra di poter gestire in modo più vicinanza territoriale, rendendosi avanguardia di un miglioramento costante guidato e monitorato dallo Stato.

[1] Per un’analisi approfondita delle richieste delle tre regioni, si legga: Dossier n.565, Senato della Repubblica, novembre 2017. http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DOSSIER/1057305/index.html

[2] Il Veneto e la Lombardia ne hanno chieste ventitré, cioè tutte le materie possibili, l’Emilia-Romagna quindici.

[3] L. Cost. 3/2001

[4] Art. 5 Cost.: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento

[5] L. Cost. 3/2001

[6] Con estensione della ricostruzione interpretativa che Bassanini definisce «acrobatica», F. Bassanini, La Repubblica della sussidiarietà. Riflessioni sugli articoli 114 e 118 della Costituzione, «Astrid Rassegna», n.12, 2007.

[7] Uno dei significati della sussidiarietà è anche questo, come sussidio nei confronti delle iniziative meritevoli.

[8] Si vedano, in questo senso, gli interventi in seno all’Assemblea Costituente relativi all’art. 1, ad esempio da parte di Marchesi e La Pira; il fondamento lavoristico viene considerato simbolo di una costituzione estesa ai diritti sociali, che segni una netta linea di demarcazione rispetto alla democrazia formale tipica delle costituzioni liberali.

[9] Pizzolato, Filippo, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Milano, Vita e Pensiero, 1999

[10] Art. 2 Cost.

[11] Art. 3.2 Cost.

[12] La sussidiarietà, considerata come principio generale oltre la lettera dell’art. 118, si deve considerare comprensiva delle limitazioni determinate dall’adeguatezza nel comma 1 e dall’interesse pubblico nel comma 2.

[13] Si riporta a tal proposito un commento di Roberto Bin, dotato di una certa verve critica: «Le “23 materie” che hanno costituito la rivendicazione del Veneto sono per lo più fatte di micro-competenze o semplici compiti, che però possono rivestire un significato notevole sul piano dei rapporti tra regione e interesse generale: spostare sulla regione, per esempio, una serie di “determinazioni” in materia ambientale – come la definizione delle caratteristiche delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti – non sembra una acquisizione tale da rafforzare il ruolo politico e programmatorio della regione nel settore; mentre “liberare” l’approvazione del piano paesaggistico e delle autorizzazioni paesaggistiche dal consenso, rispettivamente, del ministero e delle soprintendenze significa abbattere quel tanto di protezione degli interessi pubblici che ancora sussiste. Insomma, quello a cui la regione sembra puntare non è una diversa politica ambientale, ma piuttosto liberare la mano dei privati dai vincoli posti a tutela dell’ambiente e del paesaggio e consentire alla regione di favorire interessi locali» (R. Bin, L’attuazione dell’autonomia differenziata, Relazione al Convegno «A che punto è l’autonomia regionale differenziata?», Torino, 20/04/17).

[14] Per un commento approfondito sull’istituto: C. Mainardis, Chiamata in sussidiarietà e strumenti di raccordo nei rapporti Stato – Regioni, «Le Regioni», 2011; in relazione alla Sentenza della C. Cost. 303/2003: F. Bassanini, La Repubblica della sussidiarietà. Riflessioni sugli articoli 114 e 118 della Costituzione, «Astrid Rassegna», n.12, 2007

[15] C. Cost. 303/2003

[16] A. Morrone, Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enciclopedia del diritto, Annali, Milano, 2008, vol.2, tomo II, pagg. 185-204.

[17] Grossi, Paolo, La Costituzione italiana quale espressione di una società plurale, «Cortecostituzionale.it», 2017

Davide Testa

Davide Testa è dottorando di ricerca presso la LUISS - Guido Carli e City Science Officer a Reggio Emilia, cultore della materia in Diritto Costituzionale e avvocato nel Foro di Padova. Dopo aver conseguito gli studi classici presso il Liceo Marchesi,  ha studiato Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Padova, svolgendo un periodo di mobilità di due semestri presso l’University College Dublin. Nel 2019 si laurea in Diritto Costituzionale con una tesi intitolata “Fondata sul lavoro: dall’Assemblea costituente alla gig economy”. A partire dallo stesso anno, collabora con l’area di Diritto Costituzionale della rivista Ius in Itinere e partecipa ai lavori del gruppo di ricerca "Progetto Città", promosso dal Dipartimento di Diritto Pubblico, Internazionale e Comunitario dell'Università di Padova. Nel 2020-2021 è inoltre stato titolare di un assegno di ricerca FSE intitolato "Urban Data Regulation – Best practices locali per un uso condiviso" presso il medesimo ateneo. Dal 2022 è dottorando di ricerca industriale presso LUISS - Guido Carli e, nell'ambito del dottorato, svolge attività di ricerca applicata presso il City Science Office attivato presso l'amministrazione di Reggio Emilia, nell'ambito della City Science Initiative promossa dal JRC della Commissione Europea. È inoltre avvocato presso il Foro di Padova.

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