venerdì, Marzo 29, 2024
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Avvelenamento di acque ad uso alimentare ex art. 439 c.p.

                                                                   

L’avvelenamento di acque ex art. 439 c.p. recita: “Chiunque avvelena acque o sostanze destinate all’alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, è punito con la reclusione non inferiore a quindici anni. Se dal fatto deriva la morte di alcuno, si applica l’ergastolo; e, nel caso di morte di più persone, si applica la pena di morte.”  Alla pena di morte, ormai abolita, è sostituito l’ergastolo. Tale delitto è punibile anche nella forma colposa ex art. 452 c.p. , prevedendo la “reclusione da tre a dodici anni, nei casi per i quali è prevista la pena di morte, la reclusione da uno a cinque anni, nei casi per i quali è previsto l’ergastolo, e la reclusione da sei mesi a tre anni, nel caso in cui l’articolo 439 stabilisce la pena della reclusione“. Nel caso di condanna per ipotesi dolosa sono applicabili le pene accessorie “dell’interdizione dalla professione, arte, industria, commercio, mestiere nonché dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Se dal fatto doloso deriva la morte o la lesione grave di una persona il giudice dispone obbligatoriamente la confisca delle res che servirono o furono destinate a commettere il reato e di quelle che ne sono il prodotto o il profitto“.

Rare sono le ipotesi in cui sono stati intentati procedimenti con oggetto la contestazione di avvelenamento doloso di acque, reato di competenza della Corte di Assise, essendo invece più frequente l’applicazione della fattispecie nella più lieve forma colposa. Inserita nel Libro II, Titolo VI, tra i delitti contro l’incolumità pubblica, è l’ipotesi più grave di reato contro la salute pubblica in tema di alimenti e bevande. La ratio legis, infatti, è proprio la tutela della salute pubblica minacciata in tale fattispecie dall’avvelenamento di acque o sostanze destinate all’alimentazione ed al consumo umano.

Se il successivo articolo, incriminante chiunque adulteri o corrompa acque o sostanze destinate all’alimentazione, richiede esplicitamente per la sua configurazione la pericolosità per la salute pubblica, l’art. 439 non presenta un riferimento di questo genere. L’opinione tradizionale, muovendo proprio dall’assenza nella fattispecie di alcun riferimento al pericolo, considera il delitto di avvelenamento di acque quale reato di pericolo astratto. Secondo altre opinioni per le elevate pene previste il giudice dovrebbe senz’altro accertare la pericolosità reale della condotta.

Le ricostruzioni giurisprudenziali più note e recenti individuano l’avvelenamento sulla base di due criteri:

  1. Qualitativo: per cui la condotta deve consistere nell’immissione nelle acque di sostanze tossiche per l’uomo
  2. Quantitativo: per cui tali sostanze devono essere effettivamente idonee per quantità, modalità e concentrazione, a produrre un concreto pericolo per gli eventuali consumatori.

Il giudice, per cui, deve accertare se realmente l’avvelenamento supera le concentrazioni soglia di rischio, se è potenzialmente idoneo a produrre effetti tossico-nocivi per la salute. La pericolosità deve dunque potersi ritenere scientificamente accertata, nel senso che deve essere riferita a “dose di sostanza contaminante alla quale le indagini scientifiche hanno associato effetti avversi per la salute”. Il mero superamento dei limiti tabellari fissati dalle autorità non è un presupposto per integrare il reato di avvelenamento trattandosi di valori soglia basati su indici precauzionali che non sottendono automaticamente pericoli per la salute pubblica.

Un altro requisito controverso è la destinazione delle acque all’alimentazione sia direttamente sia indirettamente. La disputa è sull’attualità o potenzialità della destinazione. Parte della giurisprudenza protende per la potenzialità trasformando il pericolo da concreto in remoto. La giurisprudenza più recente condivide, viceversa, la necessità che la destinazione sia attuale. In particolare sostenendo che sebbene in presenza di una falda inquinata qualora i punti di attingimento delle acque destinate al consumo umano non presentassero concentrazioni concretamente tossiche per la salute umana il reato non si concretizzasse.

Un cambiamento radicale di pensiero ci riporta ad una delle vicende più note, in Abruzzo, allo stabilimento della Montedison di Bussi sul Tirino. Il colosso della chimica, tra i fiumi Pescara e Tirino, attraverso varie discariche, ha sotterrato veleni in quantità tale da contaminare oltre 500 mila tonnellate di suolo. In primo grado la Corte di Assise di Chieti, nel dicembre 2014, assolse gli imputati, gestori del sito industriale, adducendo la non sussistenza del fatto, non avendo la pubblica accusa dimostrato la causazione di alcun pericolo concreto per la salute pubblica in quanto le acque effettivamente contaminate non erano destinate all’alimentazione (negando tutela giuridica alla falda, assumendo che solo l’acqua nel punto di captazione potesse essere oggetto giuridico del delitto di avvelenamento, in linea con la giurisprudenza recente). La Corte d’Assise d’Appello nel Febbraio 2017 ha però ribaltato il giudizio dato in primo grado sul fatto che le acque sotterranee non siano oggetto di tutela del reato di avvelenamento. Infatti “l’acqua sotterranea costituisce risorsa di approvvigionamento idrico: sempre più frequenti sono i casi di inquinamento delle acque superficiali e dunque la necessità di prendere l’acqua destinata a bere dalla falda, dal sottosuolo, anche a notevoli profondità”, dimostrando così la destinazione ad uso alimentare delle acque avvelenate e condannando questa volta i gestori dello stabilimento per reato di avvelenamento colposo delle acque.

Per le difficoltà derivanti dall’accertamento del pericolo e dall’interpretazione di alcuni requisiti la giurisprudenza ha preferito rifarsi, per la repressione degli inquinamenti idrici, alla legge 319/76, anche nota come legge Merli”, una disciplina specifica di tutela delle acque, contenente reati di pericolo astratto e limitandosi a dover fornire la prova, ben più semplice, del superamento dei limiti tabellari piuttosto che dover dimostrare la pericolosità per la salute umana.

Chiara Molinario

Nasce ad Ariano Irpino (Av) il 15/05/1994. Nel 2012 consegue la maturità classica e si iscrive all'Università degli Studi del Sannio. Frequentante il quinto anno e prossima alla laurea, scrive la tesi con la Professoressa Antonella Tartaglia Polcini, in materia di Mediazione Ambientale, dopo aver frequentato un corso innovativo sulla Negoziazione e lo Sviluppo Sostenibile. Ha partecipato ad un concorso nazionale di idee, bandito dalla Fondazione Italiana Accenture, "Youth in Action for Sustainable Development Goals", in cui è arrivata in finale. E' socia di ELSA (European Law Student's Association) di cui è Responsabile dell'Area Seminari e Conferenze nel board beneventano. Ha organizzato un'importante Conferenza sul tema dell'Ambiente ed Infrastrutture a cui ha partecipato il Sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e Trasporti. Molto attiva nel sociale, è Presidente del Collegio dei Revisori dei Conti di "Panacea", e Consigliera di amministrazione della Cooperativa "Magnolia". Ama i viaggi, la lettura, la salute e lo sport.

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