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Brexit e status del Regno Unito: a quando l’uscita definitiva dall’ UE?

Dopo la decisione adottata con il referendum popolare indetto il 23 giugno 2016, la Gran Bretagna ha dato inizio al lungo processo che la porterà ad un definitivo distacco dall’Unione Europea. La vittoria referendaria, che ha visto il voto favorevole del 52 % dei cittadini inglesi, ha spontaneamente fatto sorgere interrogativi su cosa aspettarsi fuori dal mondo UE, e, soprattutto, quali sorti subiranno l’economia ed il commercio dello Stato sopra la Manica.

Ma cosa si intende per “Brexit”?
La parola Brexit è stata coniata dai mass-media, formata dai termini inglesi Britain (Regno Unito) ed exit (uscita) e racchiude un concetto immediato per rispondere al fenomeno che ha coinvolto il Regno Unito e l’Europa, volto all’abbandono del primo dal sistema economico, istituzionale, normativo del secondo. Riprende, in pratica, la parola Grexit, diffusa lo scorso anno, utilizzata per indicare l’allarme della possibile uscita della Grecia dall’euro, frutto di una crisi economica che ha logorato il paese, peraltro ancora in fase di risoluzione.
Il sì all’uscita non produce l’auspicato effetto in breve tempo: il rapporto tra uno Stato membro e l’Unione è intriso di atti che lo vincolano al rispetto degli obblighi comunitari contenuti in trattati, principi generali e atti normativi. Non a caso l’ordinamento comunitario è definito come un sistema sì autonomo, ma non originario: i suoi poteri e le sue competenze sono il frutto del trasferimento di porzioni di sovranità da parte degli Stati membri all’Unione, cessioni che giustificano la sua azione e la sua prevalenza sui sistemi interni.
E’ il processo di integrazione europea che ha avuto come obiettivo, fin dal Trattato di Roma del 1957, la realizzazione di un mercato unico il quale comportasse “l’assenza di qualsiasi frontiera a merci, servizi, capitali, persone”: la libera circolazione dei fattori produttivi e delle persone ha contribuito non solo ad un esteso sviluppo economico, ma anche al rafforzamento dei diritti delle persone, tutelati tanto dal giudice nazionale quanto da quello dell’Unione.
Difatti, i nodi cruciali della Brexit intorno ai quali al momento i dibattiti si stanno accedendo riguardano soprattutto lo status dei cittadini e il trattamento che riceveranno nella libera circolazione e soggiorno nei territori dell’Unione Europea; a tal proposito, il Parlamento Europeo, proprio in questi giorni, ha bocciato la proposta presentata dal governo inglese in
merito allo status dei cittadini UE in Gran Bretagna, in seguito all’uscita. Theresa May aveva ipotizzato un “settled
status”, una residenza permanente con cui godere di tutti i diritti, ma richiedibile solo dai cittadini europei che vivono legalmente negli UK da almeno 5 anni. Riferendoci alle parole del Parlamento Europeo, ciò rischia di creare una “cittadinanza di seconda generazione”, e che a fronte della “reciprocità e parità di trattamento” si è lontani
dalla tutela dei diritti dei cittadini UE.

Per questi motivi, prima di ottenere uno scioglimento completo del “legame europeo”, è necessario valutare tutti gli aspetti coinvolti, iniziando negoziati e prendendo decisioni che dovranno ottenere l’appoggio dell’Unione, ma con la possibilità che il Parlamento Europeo ponga il suo veto a qualsiasi accordo che non risponda alle sue esigenze e finalità.

La posizione del Regno Unito nel sistema comunitario si è sempre mostrato piuttosto sui generis: lo Stato si è avvalso più volte della clausola opting out, rinunciando all’adozione di regole decise dall’Unione stessa: si pensi all’opt-out dalla Convenzione di Shengen, con il quale ha deciso di mantenere i controlli alle frontiere; dalla Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea, ottenendo in sede di conferenza intergovernativa l’esclusione dall’applicazione della Carta (idem la Polonia); ancora dallo Spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, per cui le decisioni UE adottate in materia non sono vincolanti per il Regno Unito. D’altronde, l’Unione Economica e Monetaria non ha previsto la sostituzione dell’euro alla moneta nazionale, restando la sterlina l’unica moneta avente corso legale in territorio britannico.

Insomma, la Brexit si presenta come il risultato raggiunto dal Regno Unito per definire una volta e per tutte il suo status sul piano internazionale, non più ridotto alla qualifica di “Stato membro con deroga”: status che, per ora, sarà ancora soggetto ai Trattati che vincolano l’UE, fino alla conclusione della procedura di recesso.

Dal punto di vista strettamente giuridico, la disciplina del recesso è contenuta nell’articolo 50 TUE ed è caratterizzata da 3 fasi necessarie: 1) la notifica dell’intenzione di recedere al Consiglio europeo; 2) accordo negoziato tra Unione e Stato dove si definiscono le modalità del recesso; 3) entrata in vigore dell’accordo e conseguente cessazione dell’applicazione dei Trattati allo Stato che recede.
Il Trattato però, prevede che nel caso in cui l’accordo non venga concluso entro due anni dalla notifica della decisione di recedere (prorogabile dal Consiglio europeo con voto all’unanimità), si verificherà un recesso unilaterale da parte dello Stato.
Sono ancora in corso, pertanto, i negoziati tra Regno Unito e Unione Europea per la definizione di un nuovo rapporto tra i due, che, con l’adozione dell’accordo,vedranno la loro conclusione nel marzo 2019.

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