venerdì, Aprile 19, 2024
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Capacità distintiva e secondary meaning: il caso Adidas

Capacità distintiva e secondary meaning. Il caso Adidas

a cura di Dott.ssa Rossella Breci

  1. Premessa

È noto – anche ai non operatori del diritto – che il marchio riveste un ruolo fondamentale nell’economia di mercato e che svolge la principale funzione di rendere riconoscibile un’impresa, consentendo al pubblico dei consumatori di individuare la fonte imprenditoriale di un dato prodotto. Da questo punto di vista, come ha rilevato in innumerevoli occasioni la più autorevole dottrina, il marchio “deve consistere in una entità idonea a caratterizzare il prodotto ed a distinguerlo dagli altri[1].

Detta definizione esprime il basilare concetto della capacità distintiva, da intendersi come il principale requisito da valutare al fine di determinare la validità di un marchio e da ritenersi sussistente in tutti quei casi in cui il segno comunichi in modo inequivocabile la provenienza imprenditoriale del bene da esso contraddistinto[2].

2. Il c.d. “secondary meaning

Nondimeno, un marchio può essere considerato valido anche se sia originariamente incapace di esprimere capacità distintiva, ove si dimostri che prima della registrazione abbia acquisito nella percezione del pubblico dei consumatori un’attitudine individualizzante,a seguito dell’uso che ne sia stato fatto[3] da parte del titolare. Si parla, a questo proposito, di secondary meaning – fenomeno disciplinato dall’art. 13, c. 2, c.p.i.[4] nonché, a livello europeo, dall’art. 59, par. 2, Reg. 2017/1001[5], per i testi dei quali ci si riporta in nota – che esprime la “possibilità per un termine che nasce generico o descrittivo di acquisire un ulteriore significato, diverso, che rapporta quel termine ad uno specifico prodotto, proveniente da una impresa determinata, differenziandolo attraverso tale significato dal genus cui appartiene[6]. Ciò che occorre tenere presente per stabilire se un segno abbia o meno acquisito nel tempo la capacità distintiva è, pertanto, la modificata percezione del pubblico, tale per cui nella mente del consumatore un segno viene oramai associato ad una data impresa.

Vi sono stati casi nei quali il secondary meaning è stato determinante nella tutela del marchio. Così, risulta interessante quanto affermato dal Giudice di rinvio nel caso Louboutin v. Van Haren, secondo cui, nell’autunno 2012, “una parte considerevole dei consumatori di scarpe da donna con tacco alto, in Benelux, era in grado di identificare le scarpe di [Christian Louboutin] come provenienti da quest’ultimo e, pertanto, di distinguerle dalle scarpe da donna con tacco alto [provenienti] da altre imprese”, aggiungendo che “Christian Louboutin ha inizialmente utilizzato la colorazione rossa delle suole per ragioni estetiche, prima di concepirla come identificazione d’origine[7]. In sostanza, nella mente del consumatore, il colore rosso della suola delle scarpe di Louboutin è oggi attribuito alla celebre maison francese proprio per effetto del richiamato principio del secondary meaning.

3. Caso Adidas[8]: l’annullamento del marchio

Viceversa, in un recente caso che ha destato perplessità avente ad oggetto il marchio Adidas, e più precisamente il marchio figurativo rappresentato da «tre fini strisce nere verticali e parallele, su fondo bianco, circa cinque volte più alte che larghe», il Tribunale dell’Unione Europa ha dichiarato nullo detto segno quale marchio europeo in quanto privo di capacità distintiva, non potendo la stessa desumersi neppure dal secondary meaning.

La vicenda prende le mosse dalla presentazione da parte della società Shoe branding Europe BVBA di una domanda di dichiarazione di nullità del marchio Adidas, deducendo sostanzialmente l’assenza di capacità distintiva[9]. Detta domanda veniva accolta dall’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (EUIPO), che provvedeva così a dichiarare la nullità della registrazione.

Avverso il provvedimento dell’EUIPO, la multinazionale adiva la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, deducendo la mancata considerazione da parte dell’Ufficio di una serie di elementi che avrebbero dimostrato l’acquisizione del secondary meaning. Più precisamente, le argomentazioni di Adidas possono schematizzarsi così come di seguito:

  1. Il marchio deve qualificarsi come “marchio a motivi”: secondo detta interpretazione, la tutela sarebbe estesa anche a forme derivate, rendendolo idoneo ad essere prolungato e/o tagliato in vari modi (tra cui il famoso taglio obliquo presente sulle scarpe Adidas); in sostanza, la natura di marchio a motivi farebbe sì che le proporzioni del segno non sarebbero definite. Questa interpretazione è stata tuttavia rigettata dai Giudici, che hanno espressamente ritenuto che il marchio dovesse essere valutato sulla base della descrizione indicata nella domanda di registrazione, descrizione che “si limita a ricordare che tale marchio è composto da «tre strisce parallele di larghezza equidistante» e a precisare che tali strisce possono essere «applicate sul prodotto in qualsiasi direzione», senza menzionare che la lunghezza delle strisce potrebbe essere modificata o che le strisce potrebbero essere tagliate in obliquo[10].
  2. Erronea applicazione della “legge delle varianti autorizzate”: secondo la ricorrente, troverebbe applicazione al caso di specie il principio secondo il quale l’uso di un marchio in una forma che si differenzia solo per minimi elementi che non alterano il carattere distintivo è da considerarsi alla stregua di un uso di detto marchio. Anche detta censura è stata respinta dal Tribunale UE, il quale ha concluso che nei casi di estrema semplicità dei segni – come nel caso che ci occupa – “anche modifiche minori apportate a detto marchio possono costituire variazioni non trascurabili, di modo che la forma modificata non potrà essere considerata come complessivamente equivalente alla forma registrata di tale marchio”. In sostanza, più un marchio è semplice, più un cambiamento a tale marchio può essere idoneo ad alterarne la percezione da parte del pubblico[11]. Partendo da questo assunto, i Giudici si sono spinti sino ad affermare che “il fatto di invertire lo schema dei colori … non può essere qualificato come variazione trascurabile rispetto alla forma registrata dal marchio controverso”, escludendo in definitiva tutte quelle immagini prodotte dalla ricorrente a dimostrazione dell’acquisita capacità distintiva del segno a seguito dell’uso.

Il punto della decisione del Tribunale UE che qui risulta di maggiore interesse è quello relativo all’esclusione di carattere distintivo del marchio Adidas. I Giudici, infatti, dopo aver ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale, al fine di valutare se un marchio abbia o meno acquisito carattere distintivo in seguito all’uso che ne è stato fatto, occorre considerare fattori quali “la quota di mercato detenuta dal marchio, l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso di tale marchio, l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuoverlo, la percentuale degli ambienti interessati che identifica il prodotto o il servizio come proveniente da un’impresa determinata grazie al marchio, nonché le dichiarazioni delle camere di commercio e dell’industria o di altre associazioni professionali”[12], hanno ribadito che le immagini fornite nel caso di specie dalla multinazionale riguardavano dei segni non complessivamente equivalenti alla forma registrata del marchio controverso. Conseguentemente, le immagini prodotte non dimostrerebbero che il segno abbia acquisito carattere distintivo a seguito dell’uso, quantomeno con riferimento al marchio Adidas così come depositato.

Se è vero che la ricorrente aveva effettuato importanti investimenti per la promozione dei suoi segni e ne aveva fatto un uso intenso nel territorio dell’Unione, è altresì vero che i dati forniti non si riferiscono al marchio così come specificamente depositato, ma al complesso dei segni adoperati.

La medesima considerazione può essere svolta con riferimento alla prova dell’uso in tutta l’Unione Europea. Invero, la maggior parte degli studi di mercato presentati dalla società sono da considerare inutilizzabili proprio in quanto aventi ad oggetto segni non complessivamente equivalenti alla forma registrata.

4. Conclusioni

La vicenda analizzata, che pur potrebbe prestarsi a facili fraintendimenti, dev’essere correttamente interpretata, muovendo dalla peculiarità della stessa.

Non è vero infatti – come in maniera affrettata potrebbe dirsi – che il Tribunale abbia inteso negare la sussistenza di capacità distintiva in ogni segno grafico con cui Adidas contraddistingue i suoi prodotti. Il caso va piuttosto letto volgendo lo sguardo alle caratteristiche proprie del marchio per il quale la multinazionale ha chiesto la registrazione nonché alla sostanziale inutilizzabilità delle prove dalla stessa fornite al fine di dimostrare l’acquisizione di capacità distintiva in forza dell’uso.

In tale prospettiva, la conclusione a cui inevitabilmente i Giudici europei sono giunti – escludendo il compendio probatorio presentato dalla ricorrente – è che non si possono registrare come marchi le forme di uso che si allontanano dalle caratteristiche essenziali del marchio, come il suo schema di colori, e cioè segni non essere complessivamente equivalenti alla forma registrata del marchio controverso.

[1] Così, VANZETTI – DI CATALDO, Manuale di Diritto Industriale, Giuffrè 2009, pag. 159

[2] Il concetto di capacità distintiva è disciplinato in negativo nel Codice della Proprietà Industriale italiano, posto che l’art. 13, c. 1, sancisce i casi in cui i segni risultano esserne privi: “In deroga al comma 1 possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo”.

[3] Art. 13, c. 2, c.p.i.: “In deroga al comma 1 possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo”.

[4] V. nota 3.

[5] Art. 59, par. 2, Reg. 2017/1001: “Il marchio UE, registrato in contrasto con le disposizioni dell’articolo 7, paragrafo 1, lettere b), c) e d), non può essere dichiarato nullo se, per l’uso che ne è stato fatto, dopo la registrazione ha acquisito carattere distintivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato”.

[6] Così DE SAPIA, “L’acquisto della capacità distintiva”, pag. 267. È evidente, pertanto, come “la capacità distintiva sia un carattere dinamico del marchio, cioè in grado di variare nel tempo in relazione alla percezione che il pubblico ha di quel segno”, come correttamente rilevato da CAPRIO, Tutela e registrazione del marchio tra Italia ed USA: il caso delle Rockstud di Valentino, Ius In Itinere, disponibile al seguente link: https://www.iusinitinere.it/tutela-e-registrazione-del-marchio-tra-italia-ed-usa-il-caso-delle-rockstud-di-valentino-35640#_ftnref1

[7] Così, par. 15-16, Corte di Giustizia UE, C‑163/16, sentenza 12 giugno 2018, consultabile al seguente sito internet: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=202761&pageIndex=0&doclang=IT&mode=lst&dir=&occ=first&part=1&cid=4398718.

[8] Tribunale dell’UE, Sez. IX, sentenza del 19 giugno 2019, causa T-307/17, Adidas AG contro Ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale, consultabile al seguente link: https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=215208&mode=req&pageIndex=1&dir=&occ=first&part=1&text=&doclang=IT&cid=2120283. Cfr. anche Comunicato stampa n. 76/19, https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2019-06/cp190076it.pdf.

[9] La Shoe branding Europe BVBA invocava l’art. 52 (cause di nullità assoluta) del Regolamento n. 207/2009 (corrispondente all’attuale art. 59 del Regolamento n. 1001/2017).

[10] Par. 44, Tribunale dell’UE, Sez. IX, sentenza del 19 giugno 2019, causa T-307/17.

[11] Vedi in senso analogo sentenza del 13 settembre 2016, Rappresentazione di un poligono, T‑146/15, EU:C:2016:469, punti 33 e 52.

[12] Par. 109, Tribunale dell’UE, Sez. IX, sentenza del 19 giugno 2019, causa T-307/17; cfr. sentenze del 4 maggio 1999, Windsurfing Chiemsee, C‑108/97 e C‑109/97, EU:C:1999:230, punto 51, e del 18 giugno 2002, Philips, C‑299/99, EU:C:2002:377, punto 60).

Si legga anche:

C. Caprio, Tutela e registrazione del marchio tra Italia ed USA: il caso delle Rockstud di Valentino, Ius in itinere, disponibile al seguente link: https://www.iusinitinere.it/tutela-e-registrazione-del-marchio-tra-italia-ed-usa-il-caso-delle-rockstud-di-valentino-35640

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