giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Caso Contrada: la Corte di Cassazione revoca la sentenza passata in giudicato

Contrada

Nell’ Aprile del 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha emanato una sentenza epocale, di cui solo attualmente se ne avverte in pieno la portata straordinaria e di cui si rende, quindi, necessaria un’analisi più approfondita.

L’importanza della vicenda risiede nel fatto che la nostra Corte Suprema di Cassazione, poche settimane fa (Cassazione Penale, Sez. I, ud. 6 luglio 2017), proprio in considerazione di tale sentenza della CEDU, ha revocato la condanna in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, emanata nel 2006 nei confronti di Bruno Contrada. Nella sua pronuncia, infatti, la Cassazione dichiara “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” la condanna dell’ex agente di polizia e dei servizi segreti.

Il caso

La controversia origina dalla vicenda giudiziaria relativa a Bruno Contrada, ex funzionario della polizia e dei servizi segreti italiani, che viene condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Secondo i tribunali italiani, infatti, l’imputato sarebbe colpevole di aver, fra il 1978 e il 1988, passato informazioni riservate all’associazione mafiosa di “Cosa Nostra”. La fattispecie sarebbe inquadrabile, secondo i giudici, nel reato di concorso esterno in associazione mafiosa dal momento che l’ex agente ha apportato sistematicamente un contributo alle attività dell’associazione e al perseguimento da parte della stessa dei suoi scopi illeciti.
Il caso non sarebbe, quindi, secondo la ricostruzione giurisprudenziale, sussumibile nel reato di favoreggiamento, dal quale si differenzierebbe per il carattere non episodico del contributo e non riferito ad un singolo reato di un partecipante.
In questo modo, le corti italiani sposano la tipizzazione giurisprudenziale del concorso esterno in associazione mafiosa fornita dalla sentenze Demitry nel 1994 e confermata dalla successiva Mannino.
Viene respinto, quindi, ogni tentativo di impugnazione della condanna da parte della difesa di Contrada, che lamenta la violazione del principio di irretroattività della legge penale, al quale va ricondotto il principio del “nulla poena sine lege”.

La doglianza, essenzialmente, è fondata sul fatto che Contrada, a causa della controversia evoluzione giurisprudenziale in tema di concorso esterno in associazione mafiosa, non poteva ragionevolmente prevedere, al momento della commissione dei fatti, la qualificazione giuridica degli stessi e, di conseguenza, delle pene alle quali rischiava di soggiacere.

La questione viene, però, ripetutamente ignorata dalle corti interne che si limitano ad affermare la legittimità dell’origine giurisprudenziale del reato del concorso esterno in associazione mafiosa, senza smontare la tesi della difesa secondo cui la sua tipizzazione da parte della giurisprudenza era, comunque, successiva ai fatti commessi dall’ex agente.

Ravvisando, quindi, per tale motivo, una violazione dell’art.7 della CEDU, Bruno Contrada ricorre alla Corte di Strasburgo, chiedendo un risarcimento del danno a causa della condanna per concorso esterno in associazione mafiosa che prevede una pena superiore a quella più lieve prevista per il reato di semplice favoreggiamento.

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo

Nella sentenza, la Corte EDU, in primo luogo, respinge le questioni di irricevibilità presentate dal governo italiano in merito al ricorso n.66655/13, che dà avvio alla controversia dinanzi alla Corte di Strasburgo. In particolare, respinge la questione fondata sul principio di sussidiarietà, che, secondo il Governo italiano, era violato dall’essere la questione già stata analizzata nei tribunali interni. Secondo la CEDU, tale violazione non vi sarebbe poiché lo Stato non è riuscito a dimostrare, con la presentazione della questione, l’effettività della tutela e dell’analisi della questione giuridica da parte delle corti interne, ricadendo sullo stesso tale onere.
Poi, passa ad analizzare la posizione delle parti e, quindi, il merito della controversia.
Secondo il Governo Italiano, la violazione del principio di irretroattività e di prevedibilità del diritto penale non sussisterebbe in quanto la nozione di concorso esterno, seppur riferita ai reati di terrorismo, già sussisteva alla fine degli anni ’60 ed era, quindi, ragionevolmente prevedibile da parte del ricorrente.
In particolare, a partire dall’87 la stessa nozione fu rinvenuta anche in relazione al reato di partecipazione in associazione mafiosa in maniera lineare, intervenendo la Cassazione a Sezioni Uniti nel 1994 (Sentenza Demitrysolo per superare delle contestazioni minoritarie.
In questo modo, secondo lo Stato Italiano, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe stato già ragionevolmente prevedibile all’epoca dei fatti ascritti all’imputato, cioè il decennio ’78-’88.
Secondo il ricorrente, invece, tale fattispecie sarebbe sì di creazione giurisprudenziale, come affermato anche dallo Stato Italiano, ma di fine anni ’80 e, quindi, posteriore ai fatti commessi da Bruno Contrada. Non sarebbe pertinente il riferimento alla figura di concorso esterno nei reati di terrorismo, in particolare politico, perché avente origine ed evoluzione giurisprudenziale del tutto peculiare e separata rispetto a quella relativa all’associazione mafiosa.
La CEDU aderisce all’impostazione del ricorrente.
Afferma, infatti, l’inderogabilità art.7 della CEDU, per cui non vi può essere pena se l’ azione o l’omissione non costituivano reato secondo il diritto interno o internazionale al momento in cui commessi.
Il principio ricavabile dall’art.7 non sarebbe, quindi, solo il divieto di applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell’imputato, ma il principio più ampio secondo il quale la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono.
Tale requisito è soddisfatto, secondo la Corte, se la persona, nel momento in cui agisce, può sapere, a partire dal testo della disposizione, “anche secondo l’interpretazione dei giudici”, per quali atti gli è attribuita responsabilità penale e di quale pena è passibile. Perciò, la questione di merito è valutare se nel momento in cui l’imputato ha commesso i fatti a lui ascritti esistevano una disposizione legislativa ed un’interpretazione giurisprudenziale che li rendevano punibili.
Di conseguenza, la CEDU fa notare come solo nell’87 venga menzionata, per la prima volta, la fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa, per di più per contrastarne l’esistenza.
Solo con la sentenza Demitry del 1994, come asserito dal ricorrente, vi è un’organica elaborazione e sistemazione della materia, da molti definita il primo caso di “tipizzazione giurisprudenziale” di un reato nel nostro ordinamento giuridico.
Perciò all’epoca dei fatti non erano per niente chiare e prevedibili le conseguenze in caso di condotte di facilitazione relative ad un’associazione mafiosa e, quindi, vi è una violazione dell’art.7 della CEDU.
Di conseguenza, condanna lo stato italiano a risarcire 10.000 euro  di danno morale al ricorrente, più 2500 per le spese dallo stesso affrontate.

Conclusioni
La nostra Corte di Cassazione, il 7 luglio 2017, ha, quindi, accolto la richiesta di revoca della sentenza ex art.673 c.p.p, riconoscendo così che, come asserito dalla CEDU, il fatto, per cui era stato condanna Contrada, non costituiva reato.
In attesa di poter leggere nel dettaglio la motivazione della Suprema Corte, è necessario notare come tale vicenda possa avere un effetto domino e portare alla revoca di tutte le sentenze di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa relativi a fatti accaduti prima della sentenza Demitry del 1994, come per esempio il caso Dell’Utri.
L’eterno scontro, nei commentatori e nell’opinione pubblica, fra legalità delle pene ed esigenze politico-criminali è destinato a continuare ancora e, probabilmente, ad acuirsi nei prossimi tempi.

Simone D'Andrea

Studente di Giurisprudenza, classe 1994, tesista in Diritto del Mercato Finanziario, collaboratore area di Diritto Internazionale

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