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Caso Mediaset contro Yahoo!: la Cassazione sulla responsabilità dell’hosting provider alla luce della nuova direttiva sul copyright

Con la sentenza n. 7708 depositata il 19 marzo 2019[1] la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso di Reti Televisive Italiana S.p.A. (RTI, società del gruppo Mediaset) contro Yahoo! Inc. e Yahoo! Italia S.r.l., è intervenuta sullo spinoso tema della responsabilità dell’hosting provider fornendo una serie di fondamentali indicazioni.

La responsabilità dell’internet service provider è, infatti, al centro del dibattito, nazionale e comunitario, ormai da molti anni. La rapidissima crescita tecnologica a cui abbiamo assistito ha rafforzato l’esigenza di regolamentare in modo preciso e puntuale i confini entro i quali il provider incorra in responsabilità, e quelli, invece, in cui, a voler riprendere il lessico comunitario, il provider operi nei limiti di un “safe harbour”.

La (ir)responsabilità del prestatore di servizi nella direttiva e-commerce

La direttiva 2000/31/CE[2], conosciuta anche come direttiva e-commerce, definisce quali “servizi della società dell’informazione” i servizi prestati (normalmente) dietro retribuzione, a distanza, mediante infrastrutture elettroniche di trattamento e di memorizzazione di dati. Il provider dunque è il soggetto che offre agli utenti l’accesso alla rete internet e ai servizi connessi all’utilizzo di essa.

È ormai affermazione ricorrente che la ratio che ha ispirato il legislatore europeo del 2000 trovasse fondamento nell’esigenza di garantire l’espansione della società dell’informazione. Così, nel disciplinare la posizione giuridica del provider, il legislatore ne ha sancito una quasi totale irresponsabilità per l’eventuale diffusione di contenuti inesatti o illeciti.

Ritenere il provider responsabile per qualsivoglia illecito commesso online avrebbe dato origine ad una responsabilità di natura oggettiva, con la conseguente imputabilità in capo a quest’ultimo del fatto dannoso del terzo per il mero fatto di essere fornitore di un servizio di accesso ad internet[3]. Ebbene, un regime siffatto avrebbe inevitabilmente comportato un non desiderato arresto del mercato, in quanto nessun imprenditore avrebbe accettato il rischio di fornire un servizio di provider[4].

Dunque, a fronte di tali premesse, il legislatore europeo ha delimitato il regime di responsabilità del provider con l’obiettivo – assolutamente esplicito – di sostenere le scelte d’impresa.

Così, la direttiva e-commerce configura la responsabilità del provider quale responsabilità di natura colposa[5]. Al provider, infatti, non viene contestato il fatto commesso ma la mancanza di sistemi di prevenzione e di misure repressive.

In buona sostanza, a seguito di un bilanciamento tra gli interessi coinvolti nel fenomeno internet, quali l’indipendenza degli intermediari, la libertà di manifestazione del pensiero e il diritto d’autore, il legislatore comunitario, stabilendo un principio generale in tema di responsabilità, conclude che il prestatore, che offre l’accesso ad internet e permette agli utenti di inserire informazioni, non debba essere ritenuto responsabile per il loro contenuto.

Tuttavia, a fare da contraltare ad un regime impostato sulla responsabilità per colpa è la necessaria individuazione dei casi in cui il provider incorra in responsabilità.

Nel fare ciò, la direttiva distingue le figure dell’intermediario a seconda dell’attività da quest’ultimo svolta.

Così, la direttiva stabilisce l’esenzione da responsabilità per i provider di mere conduit (semplice trasporto) ovvero quei professionisti che si limitano a mettere a disposizione di terzi la propria impalcatura tecnica allo scopo di consentire la trasmissione di dati; per i provider di caching (memorizzazione temporanea) ovvero di attività di mero trasferimento dati che implichino una memorizzazione temporanea di questi ultimi; e di hosting (memorizzazione duratura) ovvero di servizi di memorizzazione delle informazioni fornite dal destinatario.

Il legislatore continua poi affermando, in modo inequivocabile, che si debba escludere qualsiasi “obbligo generale di sorveglianza [in capo al provider] sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite[6].

La ragion d’essere di tale regime di irresponsabilità trova fondamento nell’assunto per cui il provider sarebbe un operatore dedito ad attività di tipo “meramente tecnico, automatico e passivo” senza, pertanto, alcuna conoscenza né controllo circa le informazioni trasmesse e memorizzate nelle relative piattaforme[7].

La figura di provider che emerge dal quadro normativo proposto dalla direttiva e-commerce è, dunque, quella di un provider neutro, o passivo, che si trova in una posizione di totale estraneità rispetto all’informazione trasmessa e che non sarà, perciò, considerato responsabile per le violazioni eventualmente scaturenti dall’utilizzo del server messo a disposizione.

Questo regime di irresponsabilità, tuttavia, si applica a condizione che l’hosting provider “non sia effettivamente a conoscenza che l’attività o l’informazione è illecita” e che quest’ultimo “non appena a conoscenza di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso[8].

Il legislatore, dunque, se ha di certo voluto impedire un inaccettabile rallentamento della diffusione delle informazioni tramite il sistema internet, dall’altro ha previsto un obbligo successivo di intervento una volta acquisita la conoscenza dell’illiceità del contenuto immesso in rete. Tale disciplina si giustifica nell’esigenza di bilanciare la tutela degli interessi dell’indipendenza della rete internet e della riservatezza informatica con il controllo sui contenuti che potrebbero configurare illeciti telematici.

È da escludere dunque un qualunque obbligo di attivazione contro gli illeciti o anche solo di ricerca degli stessi. L’obbligo di sorveglianza è esclusivamente successivo, seppur limitato ai fatti illeciti di cui l’hosting provider sia venuto a conoscenza.

Il provider “attivo” nella giurisprudenza europea

Il regime di esenzione da responsabilità del provider è tornato, anche recentemente, nell’occhio del ciclone a seguito di un susseguirsi di pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea (nonché di molti Tribunali nazionali) che hanno dato il via a nuove riflessioni sull’istituto della responsabilità dell’intermediario.

Il rapido sviluppo tecnologico dell’ultimo decennio ha rivoluzionato il modo di vivere la realtà online, portando con sé l’esigenza di rileggere i principi attualmente in vigore in tema di responsabilità del provider[9].

L’intermediario non può più essere considerato un mero trasportatore di dati: tale configurazione collide, infatti, in maniera sempre più evidente con la tutela dei diritti della persona e, in particolare, con la tutelata del diritto d’autore. Il provider che svolge un’attività di trasmissione e memorizzazione di dati, è, oggi, un soggetto dotato di una struttura organizzativa e gestionale sempre più articolata, tale da mettere in dubbio la totale neutralità del provider stesso. A ben vedere, infatti, l’intermediario è in grado di svolgere ulteriori attività, non meramente automatiche e passive, quali l’indicizzazione, la selezione, l’organizzazione il filtraggio dei contenuti nonché la raccolta pubblicitaria.

È innegabile dunque che il quadro normativo delineato dalla direttiva e-commerce, con riferimento alla responsabilità del provider, non sia più in grado di soddisfare le esigenze di tutela, dato il mutuato panorama di riferimento. Le norme ivi contenute si adattano faticosamente all’evoluzione tecnologica che ha interessato il settore delle telecomunicazioni.

Alla luce dell’inadeguatezza della normativa, la giurisprudenza, con interventi di carattere integrativo, si è resa artefice della creazione di una nuova figura di provider non prevista dalla direttiva e-commerce: l’hosting cd. ‘‘attivo’’. Il fondamento di tale figura si rinviene nel considerando 42 della direttiva e-commerce, che prevede che le esenzioni di responsabilità riguardino solo l’intermediario la cui attività sia di ordine meramente tecnico[10].

Così, la Corte di giustizia nel caso Google France[11], uno dei leading case in tema di responsabilità dell’ISP considerato quale provider attivo, giudica Google un hoster attivo, sostenendo, in particolare che “dal quarantaduesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/31 risulta, a tal proposito, che le deroghe alla responsabilità previste da tale direttiva riguardano esclusivamente i casi in cui l’attività di prestatore di servizi della società dell’informazione sia di ordine «meramente tecnico, automatico e passivo», con la conseguenza che detto prestatore «non conosce né controlla le informazioni trasmesse o memorizzate»”. Pertanto, al fine di verificare se la responsabilità del prestatore del servizio possa essere limitata ai sensi dell’art. 14 della direttiva e-commerce, occorre esaminare se il ruolo svolto da detto prestatore sia neutro, e cioè se la sua attività, meramente tecnica, automatica e passiva, comporti una mancanza di conoscenza o di controllo sui dati che esso memorizza.

Parimenti, nel caso L’Oreal c. eBay[12], eBay viene inquadrato quale provider attivo perché in grado di ottimizzare le offerte di prodotti L’Oreal contraffatti, rendendone addirittura le aste più visibili su Google. La Corte di Giustizia poi, nel caso Stichting Brein[13], riconosce la figura del provider attivo quale operatore che “indicizza, cataloga, filtra”.

È opportuno altresì osservare come sia questione di evoluzione normativa la circostanza per cui, a seguito dell’affermarsi di un determinato settore, con il pieno dispiegarsi delle risorse economiche degli operatori, gli ordinamenti giuridici, gradatamente, impongano agli imprenditori, regole sempre maggiori di responsabilità.

E ciò è proprio quanto è accaduto in tema di responsabilità dell’internet service provider.

Mentre nei primi anni di evoluzione di internet la giurisprudenza era restia ad applicare in modo severo le norme, adesso, con l’affermazione del mercato, la giurisprudenza ha dato origine a nuove figure (hosting attivi), con ciò sanzionando gli operatori che non sono completamente passivi e neutri.

Il provider attivo è, dunque, l’operatore digitale dei nostri giorni. L’era dei motori di ricerca e dei social network lascia ben poco spazio alla figura del provider neutro.

Caso Yahoo! contro Mediaset

La vicenda su cui gli Ermellini sono stati chiamati a pronunciarsi si trascina fin dal 2011, quando il Tribunale di Milano[14] riconosce Yahoo! quale provider attivo e, in quanto tale, responsabile per la diffusione non autorizzata di contenuti protetti da copyright – nel caso di specie sequenze di immagini in movimento tratte dalle trasmissioni “Amici” e “Striscia la notizia” – in violazione dei diritti di utilizzazione economica esclusiva di RTI.

A nulla rilevava, dunque, l’esenzione da responsabilità prevista dall’art. 14 della direttiva e-commerce, rientrando Yahoo! nel regime ordinario di responsabilità per colpa. Yahoo! veniva infatti inquadrato nella figura del provider attivo “quale soggetto che fornisce (quanto meno) un hosting attivo, in quanto organizza e seleziona il materiale trasmesso dagli utenti riservandosi anche — così certamente esorbitando da qualsiasi posizione di pretesa neutralità — il diritto di “riprodurre, modificare, remixare, adattare, estrarre, preparare opere derivate” da contenuti video immessi dagli utenti””.

La vicenda subiva però una brusca inversione di rotta quando il giudice d’appello[15], ribaltando completamente la decisione di primo grado, inquadrava Yahoo! quale provider neutro, in quanto mero fornitore di accesso a spazi sui propri server.

Contro la sentenza d’appello proponeva ricorso in Cassazione RTI, con ciò offrendo alla Suprema Corte l’occasione di intervenire sul dibattuto tema del ruolo dell’hosting provider.

Con la sentenza n. 7708 del 2019, la Suprema Corte cassa la sentenza di secondo grado, ritenendo Yahoo! responsabile per violazione del diritto d’autore e rinviando al giudice di merito per la concreta individuazione della modalità mediante le quali identificare i video abusivi.

Gli Ermellini, in primis, sulla scorta di una attenta ricostruzione della giurisprudenza della Corte di giustizia, riconoscono la figura del provider attivo; nozione che era stata respinta dalla Corte di merito, definita addirittura come “fuorviante”.

Successivamente, sebbene non riscontrando in capo a Yahoo! la figura di hoster attivo, giudicano quest’ultimo responsabile della violazione del diritto d’autore, identificando, dunque, le cause di decadenza dal beneficio del regime di irresponsabilità.

Ma procediamo con ordine.

La Suprema Corte rileva che la Corte EU ha, anche di recente, accolto la nozione di hosting provider attivo riferendolo a tutti questi casi che esulano “da una attività dei prestatori di servizi della società dell’informazione (che) sia di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, con la conseguenza che detti prestatori non conoscono né controllano le informazioni trasmesse o memorizzate dalle persone alle quali forniscono i loro servizi” mentre “tali limitazioni di responsabilità non sono applicabili nel caso in cui un prestatore di servizi della società dell’informazione svolga un ruolo attivo[16].

Dunque, detta nozione può ormai ritenersi acquisita in ambito comunitario.

Fa seguire ad una tale nozione, non senza una certa dose di critica nei confronti del legislatore europeo, tendente ad una “sottoteorizzazione”, in quanto “pragmatico” e non curante “delle architetture concettuali”, l’esigenza di preservare il valore della certezza del diritto “il che passa anche attraverso la riconduzione ad un sistema concettuale efficiente delle norme di derivazione Europea”.

Alla luce di tale premessa, gli Ermellini riscontrano la figura dell’hosting provider attivo – in quanto tale sottratto al regime di esenzione – quando sia configurabile una condotta di azione identificata da diversi “indici di interferenza[17].

Tali elementi – da accertarsi in concreto ad opera del giudice di merito – sono riscontrabili, a titolo esemplificativo, nelle attività di:

  • filtro;
  • selezione;
  • indicizzazione;
  • organizzazione;
  • catalogazione;
  • aggregazione;
  • valutazione;
  • uso;
  • modifica;
  • estrazione;
  • promozione.

Condotte che abbiano, in sostanza, l’effetto di completare ed arricchire in modo non passivo la fruizione dei contenuti da parte di utenti indeterminati.

Con tale analisi la Suprema Corte respinge l’interpretazione data dalla sentenza impugnata laddove si rifiutava di riconoscere la figura di hosting provider attivo.

Tuttavia, per la Suprema Corte, è sufficiente correggere la motivazione in quanto, nel merito, la decisione impugnata è conforme a diritto.

Con ciò si chiarisce che Yahoo!, nel caso di specie, non integra il profilo del cd. provider attivo, costituendo esso, come correttamente ricostruito dalla Corte di merito, un mero intermediario “passivo” o “neutro”.

Yahoo! infatti, si limitava, nei fatti, ad erogare un servizio di fruizione di video come mera prestazione di servizi di hosting – mediante servizi di accesso al sito – senza tuttavia procedere ad alcuna elaborazione né manipolazione dei dati, nonostante l’utilizzo di tecnologie più avanzate. La Corte afferma infatti che “tali attività […] non assurgono a manipolazione dei dati immessi e non determinano il mutamento della natura del servizio”. Pertanto, la natura del servizio offerto da Yahoo! rimane meramente “passivo”.

Inquadrata la figura di Yahoo! quale hosting provider passivo, la Corte si spinge oltre affermando che non vi sono esenzioni da responsabilità se vi è stata conoscenza dell’illecito e mancata attivazione per farlo cessare. Pertanto, nonostante lo speciale regime di responsabilità disciplinato dalla direttiva e-commerce, anche l’hosting provider neutro può essere riassorbito nel regime di responsabilità per colpa. Dunque, la Corte, sebbene inquadri Yahoo! quale hosting neutro ne riconosce la responsabilità per violazione del diritto d’autore.

Al provider passivo si rimprovera dunque una “condotta commissiva mediante omissione” per aver concorso nel comportamento lesivo altrui senza aver provveduto alla rimozione del contenuto illecito. In conclusione, affinché si configuri la responsabilità dell’hosting passivo deve necessariamente riscontrarsi:

  • l’effettiva conoscenza dell’illiceità dei contenuti;
  • la mancata immediata attivazione per rimuovere le informazioni o disabilitarne l’accesso.

Fermo restando, tuttavia, che la conoscenza dell’altrui illecito, quale elemento costitutivo della responsabilità dell’internet provider, coincide con una comunicazione in tal senso ad opera del terzo i cui diritti si presumono lesi, non potendosi configurare, alla luce del dettato normativo, un obbligo generale di sorveglianza né di diretta ricerca dei contenuti lesivi. Tale obbligo sorge, infatti, soltanto nel momento in cui di tale illiceità l’hosting provider viene effettivamente a conoscenza.

Dunque, l’elemento dirimente in tema di responsabilità dell’internet provider pare doversi cogliere nel concetto di “conoscenza effettiva” a seguito della quale la posizione dell’hosting neutro può trasformarsi in posizione di responsabilità.

Al riguardo, la Cassazione afferma che la comunicazione all’intermediario debba essere idonea a consentire la comprensione e l’identificazione dei contenuti illeciti. Tuttavia, precisa la Suprema Corte, il sorgere dell’obbligo in capo all’hosting provider non richiede una diffida in senso tecnico, “essendo sufficiente la mera comunicazione o notizia della lesione del diritto”.

Ciò precisato, la Cassazione sposta la lente sulla valutazione del contenuto della comunicazione intervenuta.

Il punto centrale della questione riguarda infatti la modalità mediante la quale identificare i contenuti illeciti. È sufficiente la mera identificazione del nome della trasmissione, o simili elementi descrittivi, oppure occorre l’indicazione dell’indirizzo URL?  

Nonostante ometta di pronunciare espressamente sul punto, in quanto oggetto dell’apprezzamento del giudice di merito, la Corte di Cassazione sembra aderire ad una tesi (peraltro maggioritaria[18]) che ammette la segnalazione dei contenuti lesivi anche tramite la mera indicazione dei titoli dei materiali illeciti, senza dunque specifica indicazione dell’URL di allocazione. Ciò alla luce dei sofisticati sistemi tecnologici esistenti che permetterebbero comunque alla piattaforma una facile individuazione dei contenuti lesivi senza una violazione del divieto generale di sorveglianza preventiva.

Al riguardo occorre sottolineare che la stessa Commissione europea[19] ha, in passato, offerto alcuni orientamenti, rilevando che le piattaforme online dispongono di sofisticati mezzi tecnologici per identificare e rimuovere i contenuti illeciti e che, alla luce del progresso tecnologico nell’elaborazione delle informazioni, l’uso di tecnologie di individuazione e filtraggio sta diventando uno strumento sempre più determinante nella lotta ai contenuti illeciti online.

La Suprema Corte, ha, in conclusione, sollevato la – non più procrastinabile – necessità di reinterpretare il regime di responsabilità del provider, non più relegabile a mero operatore passivo, ma da identificare quale soggetto attivo e protagonista, dato il mutuato scenario tecnologico di riferimento.

La responsabilità del provider alla luce della nuova direttiva sul copyright

Del rivoluzionato panorama tecnologico e digitale di riferimento è ben consapevole la Corte di Cassazione che, a ragione, menziona la ratio ispiratrice della nuova direttiva sul copyright, riconoscendo nella nuova legislazione europea una presa d’atto sia dell’evoluzione delle tecniche informatiche di protezione del diritto d’autore sia dell’esigenza di questa ultima.

La direttiva copyright, infatti, pone al centro del proprio intervento le piattaforme intelligenti, inquadrandole quali hosting provider attivi, e imponendo a queste ultime di stringere accordi di licenza con i titolari dei diritti. Pare, dunque, ammettersi apertamente una forma di accountability dell’hosting provider attivo in forza della quale, in caso di violazione del diritto d’autore, la piattaforma verrà ritenuta direttamente responsabile.

La Suprema Corte, nel riportare la ratio ispiratrice della direttiva sul copyright, cita il testo originale del considerando 38, che, esprimendo esattamente il nuovo spirito giuridico volto alla responsabilizzazione delle piattaforme digitali, recita  “qualora i prestatori di servizi della società dell’informazione memorizzino e diano pubblico accesso a opere o altro materiale protetti dal diritto d’autore caricati dagli utenti, andando così oltre la mera fornitura di attrezzature fisiche ed effettuando in tal modo un atto di comunicazione al pubblico, essi sono obbligati a concludere accordi di licenza con i titolari dei diritti[20], ciò a meno che tali piattaforme non rientrino nell’esenzione di responsabilità di cui alla direttiva e-commerce.

Tuttavia, è opportuno soffermarsi sulla seconda parte del testo originale del considerando 38, in quanto questa sembra doversi applicare non solo all’hosting provider attivo, per il quale, si ripete, si introduce una forma piena di accountability, ma anche all’hoster neutro[21].

Infatti, recita la direttiva, “per garantire il funzionamento di qualsiasi accordo di licenza, i prestatori di servizi della società dell’informazione che memorizzano e danno pubblico accesso ad un grande numero di opere o altro materiale protetti dal diritto d’autore caricati dagli utenti dovrebbero adottare misure appropriate e proporzionate per garantire la protezione di tali opere o altro materiale, ad esempio tramite l’uso di tecnologie efficaci. L’obbligo dovrebbe sussistere anche quando i prestatori di servizi della società dell’informazione rientrano nell’esenzione di responsabilità di cui all’articolo 14 della direttiva 2000/31/CE.”

La Corte di Cassazione ha dunque ben presente il mutato scenario tecnologico e normativo: non è ormai più sufficiente richiamare le disposizioni della direttiva e-commerce, evidentemente costruite su un modello digitale non più esistente.

Nel ricostruire la responsabilità dell’hosting provider gli Ermellini si agganciano alla nuova normativa sul diritto d’autore, lanciando un segnale importante: è necessario procedere ad una rivalutazione degli obblighi e dei diritti dei soggetti che partecipano alla società dell’informazione.

[1] Cass. Civ., sentenza n. 7708, 19 marzo 2019

[2] Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico») disponibile qui:

[3] G. Ponzanelli, “Verso un diritto uniforme per la responsabilità degli internet service provider”, in Danno e resp., 2002

[4] R. Bocchini, La responsabilità extracontrattuale del provider, in Manuale di diritto dell’Informatica, Valentino (a cura di), 2016

[5] M. Astone, “La responsabilità del prestatore di servizi della società di informazione nella direttiva 2000/31/CE”, in Europa e diritto privato, 2003

[6] Art. 15 Direttiva 2000/31/CE

[7] Considerando 42 della Direttiva 2000/31/CE

[8] Art. 14 Direttiva 2000/317CE

[9] S. Scudieri, “La responsabilità dell’internet service provider alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (causa c-610/15, 14 giugno 2017)”, in Diritto Mercato Tecnologia, 2018

[10] R. Bocchini, “La responsabilità di Facebook per la mancata rimozione di contenuti illeciti”, in Giur. it., 2017

[11] Corte di giustizia UE, sentenza C-236/08 – Google France e Google, 23 marzo 2010, disponibile qui: http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?num=C-236/08&language=it

[12] Corte di giustizia UE, sentenza C-324/09 L’Oreal/eBay, 12 luglio 2011, disponibile qui: http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?language=it&num=C-324/09

[13] Corte di giustizia UE, sentenza C-610/15 – Stichting Brein, 14 giugno 2017, disponibile qui: http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?num=C-610/15&language=IT

[14] Trib. Milano, sentenza n. 10893, 9 settembre 2011, con nota di A. Saraceno, in Giur. it., 2012

[15] App. Milano, sentenza n. 38, 7 gennaio 2015

[16] Corte di giustizia UE, sentenza C‑521/17 7 Coöperatieve Vereniging, 7 agosto 2018, disponibile qui: http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?num=C-521/17&language=IT

[17] E. Rosati, “Italian Supreme Court clarifies availability of safe harbours, content of notice-and-takedown requests, and stay-down obligations”, disponibile qui: http://ipkitten.blogspot.com/2019/03/italian-supreme-court-clarifies.html

[18] Trib. Roma, sentenza n. 8437, 27 aprile 2016

[19] COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE AL PARLAMENTO EUROPEO, AL CONSIGLIO, AL COMITATO ECONOMICO E SOCIALE EUROPEO E AL COMITATO DELLE REGIONI “Lotta ai contenuti illeciti online Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online” COM (2017) 555, 28 settembre 2017, disponibile qui: http://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2017/IT/COM-2017-555-F1-IT-MAIN-PART-1.PDF

[20] Del Parlamento Europeo e del Consiglio sul diritto d’autore nel mercato unico digitale, testo approvato, disponibile qui: https://www.iusinitinere.it/risorse/direttiva-eu-sul-copyright

[21] D. Bianchi, “Caso Yahoo!/Mediaset: dal dogma dell’irresponsabilità del provider all’accountability della nuova Direttiva UE sul diritto d’autore”, in Diritto e Giustizia, 2019

Camilla Cristalli

Camilla si è laureata con lode in giurisprudenza presso l'Alma Mater Studiorum Università di Bologna nel 2019 discutendo una tesi in Diritto Commerciale. Nell'anno 2017/2018 ha conseguito un LLM in Intellectual Property & Information Law presso la Dickson Poon School of Law del King's College di Londra. È attualmente trainee lawyer.

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