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Diritto e Impresa

Cass. Civ., 30/06/2021 n. 18610 e 14/09/2021, n. 24725, sulla concessione abusiva del credito e sulla legittimazione attiva del curatore a esperire l’azione di risarcimento (anche) per il danno patito dalla massa dei creditori

a cura del Dott. Carlo Bergamini

  1. Principi di diritto:

L’erogazione del credito che sia qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata, con dolo o colpa, ad un’impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in assenza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere questi venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, obbligando il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda un aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività di impresa.

Non integra un’abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi di impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione “ex ante”, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi.

Il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecita nuova finanza o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c.

La responsabilità della banca, in caso di abusiva concessione del credito all’impresa in stato di difficoltà economico-finanziaria, può sussistere in concorso con quella degli organi sociali di cui all’art. 146 l.fall., in via di solidarietà passiva ai sensi dell’art. 2055 c.c., quali fattori causativi del medesimo danno, senza che, per altro, sia necessario l’esercizio congiunto delle azioni verso gli organi sociali e verso il finanziatore, trattandosi di litisconsorzio facoltativo.

 

  1. Introduzione

Nelle ordinanze in esame la Corte di Cassazione torna ad affrontare il tema della responsabilità della banca per concessione abusiva del credito e della conseguente legittimazione del curatore fallimentare all’esperimento delle azioni volte a ottenere il risarcimento dei danni. La Suprema Corte, dopo aver fornito la definizione di concessione abusiva del credito, riconosce che tale fattispecie possa cagionare un danno (i) diretto al patrimonio della società finanziata (ii) indiretto in capo alla massa dei creditori per l’aggravamento del dissesto del loro debitore.

Ferma la legittimazione del curatore all’esperimento dell’azione per il risarcimento del danno prodotto dal finanziamento abusivo direttamente sul patrimonio della società fallita, l’elemento di novità delle ordinanze de quo consiste nel riconoscimento, in capo al curatore fallimentare, della legittimazione ad agire nei confronti della banca finanziatrice per il risarcimento dei danni indiretti cagionati alla massa dei creditori, pregiudicati dalla diminuita garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c.

La Suprema Corte giunge a tale risultato argomentando che l’azione esperibile per tentare la ricostruzione del patrimonio della società leso dall’abusivo finanziamento costituisca un rimedio a vantaggio dell’intero ceto creditorio, e pertanto, debba annoverarsi tra le c.d. azioni di massa la cui legittimazione attiva spetta al curatore.

  1. Il fatto

La controversia prende le mosse dal ricorso presentato da un curatore fallimentare per la cassazione di una sentenza attraverso cui la Corte di Appello, confermando quanto deciso dal Tribunale, aveva ritenuto «la curatela priva di legittimazione ad agire con riguardo alla domanda di risarcimento del danno e reintegrazione del patrimonio della società fallita, eroso a causa dell’abusiva concessione di credito da parte delle banche», evidenziando che tale carenza di legittimazione derivasse dal fatto che il fallimento «ha agito deducendo non l’attività illecita compiuta dalla stessa società fallita tramite i suoi amministratori, rientrante nell’art. 146 l. fall., ma un’autonoma e distinta attività imputata alle singole banche, onde si tratta di azione estranea alla norma menzionata».

Avverso la sentenza che lo ha visto soccombente, il Curatore propone ricorso per Cassazione affidandosi a tre motivi i quali, seppure deducendo la violazione di norme eterogenee, vengono dalla Corte trattati congiuntamente in considerazione della circostanza per cui «mirano ad affermare il principio che il curatore fallimentare sia legittimato ad agire contro le banche per il danno da queste cagionato con l’abusiva concessione del credito al patrimonio del soggetto fallito».

  1. La motivazione

La Suprema Corte, in primo luogo, definisce come concessione abusiva del credito «l’agire» – speculare a quello dell’imprenditore che al credito faccia abusivamente ricorso celando il proprio dissesto – «del finanziatore che conceda, o continui a concedere, incautamente credito in favore dell’imprenditore che versi in istato di insolvenza o comunque di crisi conclamata».

La Corte fa discendere tale responsabilità delle banche, oltre che dalla regola generale di esecuzione diligente della prestazione professionale ex art 1176 c.c., dalla disciplina primaria e secondaria di settore e da accordi internazionali. Dalla lettura congiunta di queste norme si ricava lo specifico dovere delle banche «all’obbligo di rispettare i principi di c.d. sana e corretta gestione» che si declina nella necessità di verificare «il merito creditizio del cliente in forza di informazioni adeguate».

Dal lato delle società, il danno derivante da un finanziamento “abusivo” incide sulla consistenza del patrimonio sociale su un piano economico e su uno contabile. Dal punto di vista economico, il danno è integrato dalla «diminuita consistenza del patrimonio sociale», mentre sul piano contabile si registra «l’aggravamento delle perdite favorite dalla continuazione dell’attività di impresa».

L’illecito sostegno finanziario all’impresa in crisi può quindi tradursi, secondo la definizione fornita dalla Suprema Corte, nella «condotta della banca, dolosa o colposa, diretta a mantenere artificiosamente in vita un imprenditore in istato di dissesto, in tal modo cagionando al patrimonio del medesimo un danno, pari all’aggravamento del dissesto, in forza degli stessi interessi passivi del finanziamento non compensati dagli utili da questo propiziati, nonché delle perdite generate dalle nuove operazioni così favorite».

Pur tuttavia, le pronunce in esame riconoscono che non ogni finanziamento a imprese in stato di crisi integra gli estremi della concessione abusiva di credito. Al contrario, il legislatore mostra un favor normativo per il finanziamento diretto al risanamento dell’impresa. È la stessa Corte, infatti, che menziona le numerose circostanze in cui il legislatore ritiene meritevole il sostegno finanziario all’impresa nel tentativo di superamento della crisi, così evitandone il fallimento. A titolo esemplificativo basti richiamare i finanziamenti prededucibili nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 182- quater, 182 – quinques l. fall. e artt. 99 e 101 d. lgs. 12 gennaio 2019, n.14). A ulteriore riprova del favor del legislatore nei confronti dei finanziamenti alle imprese in crisi, la Corte richiama l’art. 217 – bis l. fall. che ha previsto «l’esenzione dai reati di bancarotta di cui agli artt. 216, comma 3, e 217 l. fall. in caso di pagamenti ed operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo, di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o del piano attestato di risanamento, potendo dunque fruire della esenzione anche la condotta della banca concorrente». Sempre nel solco delle norme appena menzionate, la Corte esaurisce la disamina delle situazioni da cui si ricava l’interesse per il sostegno alle imprese in crisi menzionando la legislazione di emergenza sanitaria del 2020.

Ribadisce la Corte, sempre a dimostrazione del favor verso il sostegno alle imprese che versino in situazioni di difficoltà, che «in sostanza, numerosi sono i momenti in cui l’ordinamento positivo mostra di tutelare e favorire il finanziamento alle imprese in crisi, articolando le previsioni in relazione allo strumento di risoluzione della crisi prescelto e alla funzione svolta dal finanziamento: la c.d. finanza – ponte, strumentale a pervenire con successo ad uno degli istituti di risanamento previsti dalla legge (cfr. art. 182-quater, c. 2, l. fall.); la finanza interinale, funzionale al giudizio di omologazione in corso di procedura, in via ordinaria o urgente (art. 182-quinques, commi 1 e 3, l. fall.); infine, i finanziamenti in esecuzione dello strumento giuridico di risoluzione della crisi attuato, che mirano al risanamento secondo il piano predisposto dall’imprenditore (ex art. 182-quater, comma 1, l. fall.). Donde, di volta in volta, le norme speciali di tutela della posizione del finanziatore».

Tanto precisato, le ordinanze in esame intervengono anche esaminare quale sia il discrimine tra un finanziamento “lecito” e un finanziamento “abusivo”.

Come visto, non ogni finanziamento a un’impresa in crisi viene qualificato come abusivo, anzi, la regola generale è che il finanziamento all’impresa in crisi debba considerarsi lecito, sino al «limite in cui tali condotte finiscano per alterare – con colpa o dolo – la correttezza delle relazioni di mercato e a costituire fattori di disinvolta attitudine cd. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto». Spetterà al giudice del merito individuare lo spazio ammissibile per un finanziamento lecito, laddove, «pur se concesso in presenza di una situazione di difficoltà economico – finanziaria dell’impresa, sussistevano ragionevoli prospettive di risanamento».

Circostanza dirimente per qualificare un finanziamento come abusivo, dunque, non è se l’impresa fosse in stato di crisi, «quanto che non sussistessero fondate prospettive, in base a ragionevolezza e a una valutazione ex ante, di superamento di quella crisi. Prosegue la Suprema Corte ritenendo che «sovente il confine tra finanziamento meritevole e finanziamento abusivo si fonderà sulla ragionevolezza e fattibilità di un piano aziendale».

Le ordinanze riconoscono la difficoltà che incontra il “buon banchiere” il quale si trova a dover scegliere tra il rischio di mancato recupero dell’importo precedentemente erogato e la responsabilità per aver incautamente concesso credito al debitore stesso e per questo motivo ribadiscono che l’accertamento del giudice di merito per valutare la sussistenza o meno della responsabilità della banca «dovrà essere rigoroso e tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, secondo il suo prudente apprezzamento, soprattutto ai fini di valutare se il finanziatore abbia agito con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p., o abbia viceversa, pur nella concessione del credito, attuato ogni dovuta cautela, al fine di prevenire l’evento».

A titolo esemplificativo, viene individuato quale finanziamento lecito quello in cui la banca, prima della erogazione, abbia valutato – e tale valutazione abbia dato esito positivo – «le concrete probabilità di superamento della crisi, o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile».  Tale valutazione, precisa la Corte, deve essere effettuata dalla banca adottando lo standard di diligenza qualificata che è lecito aspettarsi da un operatore professionale.

Dopo aver sviluppato la concessione abusiva di credito, le ordinanze sono chiamate a pronunciarsi sulla legittimazione attiva del curatore per le azioni volte al ristoro del pregiudizio causato dalla condotta della banca.

In linea generale, la Corte di Cassazione ha già avuto modo di richiamare il principio affermato dalle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un., 23 gennaio 2017, n. 1641) per cui nel sistema della legge fallimentare «la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle c.d. azioni di massa – finalizzate, cioè, alla ricostruzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo». Obiettivo delle azioni di massa (categoria che ha una valenza meramente descrittiva), tra le quali figurano le azioni revocatorie ex artt. 2901 c.c. e 66 l. fall. le azioni di responsabilità contro gli organi sociali, è quello di pervenire all’effetto di aumentare l’attivo fallimentare.

In termini negativi, «non appartiene a tale novero di azioni ogni pretesa che richiede l’accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo in capo ad uno o più creditori. Né vi appartiene ogni azione che, per quanto diffusa possa essere una specifica pretesa, necessita pur sempre dell’esame di specifici rapporti e del loro svolgimento, non essendo sufficiente ad assicurarne l’eventuale beneficio la mera appartenenza ad un ceto».

Tanto chiarito, le ordinanze distinguono tra legittimazione ad agire per il danno che la concessione abusiva del credito abbia cagionato: (i) alla società; (ii) al ceto creditorio.

Quanto alla legittimazione per il danno alla società, la Suprema Corte conferma il proprio orientamento per cui «il curatore è legittimato ad agire per il ristoro del pregiudizio in virtù del medesimo titolo per il quale avrebbe potuto agire l’imprenditore danneggiato». La giurisprudenza di legittimità è da tempo concorde nel ritenere siffatta azione una c.d. azione di massa, pertanto esperibile dal curatore.

Come si è già accennato, la Corte si spinge oltre argomentando che il danno patrimoniale subito dall’impresa in conseguenza dell’abusiva concessione del credito che le abbia permesso di rimanere immeritatamente sul mercato continuando la propria attività e aumentando il dissesto, cagiona un ulteriore danno a tutto il ceto creditorio, «essendo indubbio che il peggioramento delle condizioni patrimoniali societarie arreca un danno a tutti i creditori, che vedono pregiudicata la garanzia patrimoniale generica e ridotta matematicamente le chance di soddisfare il loro credito». Tale danno riguarda la totalità del creditori senza che rilevi il momento in cui sono divenuti tali, in quanto «quelli che  avevano già contrattato con la società prima della concessione abusiva del credito de qua, perché essi vedono, a cagione di questa, aggravarsi le perdite e ridursi la garanzia ex art. 2740 c.c.; quelli che abbiano contrattato con la società dopo la concessione di credito medesima, perché (se è vero che a ciò possa aggiungersi pure la causa petendi di essere stati indotti in errore, ed allora individualmente, dall’apparente stato non critico della società, è pur vero che) del pari avranno visto progressivamente aggravarsi l’insufficienza patrimoniale della società, con pregiudizio alla soddisfazione  dei loro creditori».

Il rimedio a disposizione del curatore che voglia ricostruire il patrimonio della società consiste nell’azione risarcitoria, che «produrrà un beneficio per i creditori, come avviene nell’esperimento delle azioni revocatorie e altre similari in favore della massa: in quanto per tutti i creditori, il cui credito sia sorto vuoi prima, vuoi dopo la concessione di credito imputata di abusività, se il risultato a questa eziologicamente collegato sia il compimento di ulteriore attività d’impresa con aggravamento del dissesto societario, le perdite da ciò derivate comporteranno una matematica riduzione della garanzia patrimoniale generica, l’insufficienza del patrimonio d’impresa a soddisfare i crediti, ed, in definitiva, un danno riflesso, che il curatore potrà reintegrare grazie all’azione di risarcimento del danno cagionato al patrimonio della società, anche nella sua veste di legittimato attivo per conto dei creditori». Infatti, eventuali importi che il curatore dovesse recuperare attraverso l’esperimento di tale azione gioverebbero «a tutti i creditori concorrenti, perché, trattandosi del ristoro al patrimonio dell’impresa, il risarcimento del danno va esclusivamente in favore della massa, appunto come a vantaggio di quest’ultima va quanto recuperato in forza della unitaria azione ex art. 146 l. fall.».

Ecco che tale azione «si innesta quindi nell’ambito di quelle in cui il Curatore ha la legittimazione attiva. Infatti, la funzione recuperatoria della garanzia patrimoniale a tutela della par condicio creditorum è tipica della attività demandata dalla legge al curatore, il quale, esercitando una azione di massa, non si sostituisce ai singoli creditori, ma amministra il patrimonio dell’impresa soggetto ad esecuzione concorsuale, recuperandolo alla sua propria funzione di garanzia».

Così decidendo, la Suprema Corte sancisce che al curatore appartiene «sia la legittimazione attiva a richiedere al finanziatore c.d. abusivo il risarcimento per i danni diretti cagionati alla società», sia – ed è qui la portata innovativa delle ordinanze in oggetto – «quella per i danni indiretti alla massa dei creditori». In questo modo il curatore tutela sia la società sia la compagine dei creditori.

E quindi come al curatore compete, ex art. 147 l. fall. in una con l’art. 2394-bis c.c., la legittimazione attiva per le azioni di responsabilità previste dagli artt. 2393, 2392-bis e 2394 c.c. contro gli amministratori, compete anche «l’azione per la reintegrazione del patrimonio sociale – garanzia per l’intero ceto creditorio ai sensi dell’art. 2740 c.c. – diminuito a causa della continuazione dell’attività di impresa favorita dall’indebito ricorso o concessione di credito».

Quanto al titolo di responsabilità verso l’impresa, la Corte distingue a seconda che si tratti di (i) concessione di un nuovo finanziamento, ovvero (ii) mantenimento in essere di un finanziamento già in corso.

Nel primo caso la responsabilità è a titolo precontrattuale ex art. 1337 c.c. per aver la banca disatteso, colposamente o dolosamente, il rispetto delle prescrizioni in tema di valutazione del merito creditizio, mentre nel secondo caso la Corte rinviene una ipotesi di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. In entrambi i casi si tratta di «responsabilità da inadempimento di un’obbligazione preesistente».

A tal proposito opera quindi una distinzione tra (i) obblighi che precedono e accompagnano la stipulazione del contratto e (ii) obblighi che si riferiscono alla successiva fase esecutiva.  Quanto ai primi, la Corte ha puntualizzato che l’avvenuta stipulazione del contratto non impedisce il sorgere della responsabilità precontrattuale in capo alla banca in quanto l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto ex artt. 1337 e 1338 c.c. assume rilievo «non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche se il contratto concluso sia valuto e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto». Inoltre, posto il valore generale della clausola contenuta nell’art. 1337 c.c., a tale norma «può essere ricondotta anche la stipulazione di un contratto di finanziamento c.d. abusivo che si inserisca nella serie causale eziologicamente ricollegata al danno subito dall’altro contraente».

Ancora, la Corte Suprema condivide l’inquadramento della concessione di credito nella responsabilità di tipo contrattuale da contatto sociale qualificato, «inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni ex art. 1173 c.c., da cui derivano, a carico delle parti, reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.».

Diversamente, verso il ceto creditorio sussiste in capo alla banca finanziatrice una responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. (eventualmente in concorso con quella degli organi sociali).

Ciò perché nell’azione ex art. 2043 c.c. verso la banca finanziatrice (come pure in quella ex art. 2394-bis c.c. verso gli amministratori) il curatore fa valere i danni che abbiano colpito il ceto creditorio e non il danno subito nella sfera individuale da un singolo creditore.

Tale distinzione in tema di natura della responsabilità non pregiudica in alcun modo la legittimazione del curatore a promuovere entrambe le azioni, stante la possibilità di concorso tra responsabilità contrattuale e aquiliana «allorché un unico comportamento, risalente al medesimo autore, appaia lesivo, oltreché di regole di condotte poste a tutela di interessi variamente protetti, anche di clausole contrattuali».

Ulteriore oggetto delle ordinanze in commento, esaminato in virtù di un argomento sollevato dai controricorrenti, è la circostanza per cui in capo alla banca possa coesistere la qualità di debitrice (per l’azione sin qui esaminata) e quella di creditrice (per la restituzione delle somme finanziate) della società fallita.

Invero, tale situazione non è impedita da qualche norma o principio di legge, potendo anzi trovare spazio l’istituto della compensazione tra i rispettivi crediti ex artt. 1241 e ss c.c. e 56 l.fall.

Quanto all’onere della prova, perché si configuri la responsabilità del soggetto finanziatore per le condotte più volte enunciate, il curatore ha l’onere di dedurre e provare: «a) la condotta violativa delle regole che disciplinano l’attività bancaria, caratterizzata da dolo o almeno da colpa, intesa come imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p.; b) il danno-evento, dato dalla prosecuzione dell’attività di impresa in perdita; c) il danno-conseguenza, rappresentato dall’aumento del dissesto; d) il rapporto di causalità tra tali danni e la condotta tenuta».

Per l’affermazione della responsabilità della banca è richiesta, oltre all’indagine circa la situazione di negligenza della banca, la rigorosa verifica del nesso causale alla stregua della teoria della causalità adeguata, per il quale «non è sufficiente che tra l’antecedente ed il dato consequenziale sussista un rapporto di sequenza temporale, essendo invece necessario che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza possibile alla stregua di un calcolo di regolarità statistica, di tal che l’evento dannoso si ponga come conseguenza normale dell’antecedente il quale abbia rappresentato, secondo la logica del “più probabile che non”, la ragione della prosecuzione dell’attività di impresa e, quindi, del pregiudizio economico di cui si chiede il risarcimento».

Infine, la Corte interviene sulla possibilità che la responsabilità della banca possa porsi in concorso con quella degli organi sociali ex art. 146 l. fall. e sul concorso del fatto del creditore ex art. 1227 c.c.

Quanto al concorso con gli organi sociali, quando il curatore dovesse agire nei confronti degli amministratori della società fallita per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale il cui fondamento sia costituito dalla diminuzione dello stesso arrecata dagli organi sociali, e tale diminuzione fosse dipesa dal fatto concorrente del terzo – qual è la banca finanziatrice – «il curatore può invocarne la responsabilità solidale con gli amministratori ai sensi dell’art. 2055 c.c. quale causatore del medesimo danno».

Sul concorso del fatto del creditore ex art. 1227 c.c., la Corte precisa che esso potrebbe essere invocato per i danni diretti alla società, ma non quando il curatore agisca per la massa dei creditori.

In questo secondo caso, in cui il creditore agisce a reintegrazione del patrimonio da assoggettare a procedura concorsuale, non rileva se la società abbia, a mezzo dei suoi amministratori, contribuito nell’illecito con l’abusivo ricorso al credito: l’art. 1227 c.c. non potrà essere invocato dalla banca per ridurre la sua responsabilità «perché allora questo sarà dato dall’intero ceto creditorio, formato da una massa indefinita, alla quale ciascun creditore ha titolo di partecipare nelle forme del concorso e in ragione della posizione di terzietà dei creditori rispetto al soggetto finanziato».

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