Cass. Civ., Sez. I, 11 giugno 2020, n. 11267
commento breve a cura di Stefania Azzolino
Con Sentenza n. 11267 dell’11 giugno 2020, la Corte di Cassazione ha statuito in ordine all’accertamento, svolto in sede di merito, dello stato di insolvenza di un’impresa bancaria. In particolare, il giudice di legittimità è stato chiamato a pronunciarsi sulla correttezza e la coerenza di tale accertamento in relazione alla normativa generale.
La Suprema Corte, richiamando precedenti pronunce, ha specificato come ai fini dell’accertamento non rilevino le cause che hanno determinato tale contingenza, nonché l’imputabilità o meno del dissesto finanziario all’imprenditore ovvero a rapporti estranei all’impresa. (Cass. 416/2016, Cass. 9253/2012 e Cass., Sez. U., 115/2001).
La Corte precisa poi che per giurisprudenza costante, l’insolvenza bancaria viene definita secondo quanto stabilito dall’art. 5 l. fall. -per le altre imprese-, avendo cura di precisare che “il significato oggettivo dell’insolvenza deriva da una valutazione circa le condizioni necessarie, secondo un criterio di normalità, all’esercizio di attività economiche, si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonché nell’impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio”. (Cass. 7252/2014, Cass. 3371/1977).
Conseguentemente, la presenza di uno stato d’insolvenza presuppone l’esistenza di elementi esterni di natura indiziaria, come per esempio inadempimenti o altre circostanze, che, sulla base di un apprezzamento delle circostanze del caso concreto, permettano di affermare la sussistenza, nella specie, dell’insolvenza. (Cass. 19027/2013).
Infine, ai fini della valutazione, la Corte specifica come non sia possibile prescindere dall’accertamento ed analisi degli elementi attivi che compongono il patrimonio sociale e che sono chiamati a soddisfare requisiti di attualità e concretezza.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIDONE Antonio – Presidente –
Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 2523/2017 proposto da:
Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via
F. Paulucci dè Calboli n. 9, presso lo studio dell’Avvocato Aldo
Sandulli, che la rappresenta e difende, unitamente all’Avvocato Aldo
Valentini, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
B.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Po n. 102,
presso lo studio dell’Avvocato Pietro Anello, che lo rappresenta e
difende, unitamente all’Avvocato Rosanna Zuccato, giusta procura in
calce al ricorso;
– ricorrente successivo –
contro
Banca delle Marche S.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, in
persona del Commissario liquidatore pro tempore, domiciliata in
Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Centrale Civile della
Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato Alberto
Picciau giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
contro
Banca delle Marche S.p.a. in risoluzione, Banca delle Marche s.p.a in
A.S., Banca d’Italia, Codacons, Fondazione Cassa di Risparmio di
Jesi, Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello
di Ancona, Pubblico Ministero presso il Tribunale di Ancona;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1622/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA
depositata il 20/12/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
20/2/2020 dal cons. Dott. PAZZI ALBERTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
SOLDI ANNA MARIA, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi e della
richiesta di sospensione;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato Benedetto Cimino, con delega
scritta Avv. Sandulli, che si riporta;
uditi, l’Avvocato A. Picciau per la controricorrente Banca delle
Marche e gli Avvocati Anello e Zuccato per il ricorrente B.,
che si riportano ed insistono per l’accoglimento delle rispettive
conclusioni.
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 15 marzo 2016 il Tribunale di Ancona, su istanza del Pubblico Ministero e del Commissario liquidatore della Banca delle Marche s.p.a. in l.c.a., accertava lo stato di insolvenza di tale istituto di credito.
2. La Corte d’Appello di Ancona, con sentenza depositata in data 20 dicembre 2016, dichiarava inammissibile il reclamo proposto da B.M., quale direttore generale dell’istituto di credito, ritenendo che questi non avesse censurato l’autonoma ratio decidendi riguardante la crisi di liquidità della banca.
La Corte di merito, nell’esaminare l’ulteriore gravame presentato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, azionista per il 22,51% del capitale sociale di Banca delle Marche, osservava che, rispetto agli infruttuosi tentativi di intervento del Fondo interbancario per la tutela dei depositi, risultava di poca rilevanza la questione relativa alla necessità o meno dell’autorizzazione della Commissione Europea e della BCE, in quanto in ogni caso i tentativi non si erano positivamente conclusi.
Il collegio del reclamo inoltre, dopo aver ritenuto che nell’esame dei pareri dell’autorità di vigilanza e delle comunicazioni dei commissari straordinari occorresse distinguere fra accertamenti dei fatti e valutazione dei medesimi, poichè quest’ultima doveva essere rimessa all’analisi critica del giudice sulla base della sua congruenza logica e delle risultanze processuali, condivideva le considerazioni già espresse dal primo giudice rispetto allo stato di deficit patrimoniale e alla percentuale di svalutazione dei crediti che portava a tale sbilancio, al dato della perdita di esercizio al 30/9/2015 e all’esistenza di una crisi di liquidità grave e non transitoria.
Le singole circostanze poste a base del ragionamento inferenziale illustrato all’interno della sentenza impugnata – non contrastate tutte specificamente e nel loro complesso – convergevano poi, secondo i giudici distrettuali, con gravità, precisione e concordanza per la irreversibilità dell’incapacità di Banca delle Marche di far fronte con regolarità alle proprie obbligazioni, con la conseguente necessità, una volta disattesa la richiesta di espletamento di consulenza tecnica per la sua evidente natura esplorativa, di rigettare anche il secondo reclamo proposto.
3. Hanno presentato separati ricorsi per cassazione avverso questa pronuncia B.M. e la Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, ai quali ha resistito con controricorso Banca delle Marche s.p.a. in l.c.a..
Gli intimati Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ancona, Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Ancona, Banca delle Marche s.p.a. in risoluzione, Banca d’Italia, F.G. e T.F., nella qualità di Commissari straordinari di Banca delle Marche s.p.a. in a.s., Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi e Codacons non hanno svolto difese.
Entrambi i ricorrenti e la controricorrente hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.1 Prendendo le mosse dall’esame del ricorso presentato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, il primo motivo di impugnazione assume, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e sotto la rubrica “violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 5, del D.Lgs. n. 180 del 2016, art. 36, comma 2, degli artt. 96 T.U.B. e ss. e degli artt. 107 TFUE – error in iudicando. Erroneità della sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto irrilevante scrutinare la legittimità dell’intervento del FITD, in grado di assicurare credito e liquidità a Banca Marche. Ove occorra richiesta di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE”, che la Corte di merito abbia erroneamente ritenuto che fosse sufficiente prendere atto del mancato esito positivo dei tentativi di intervento del Fondo interbancario per la tutela dei depositi, risultando di poca importanza la questione concernente la legittimità del diniego di autorizzazione da parte della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea; al contrario il collegio del reclamo avrebbe dovuto riscontrare che la Banca d’Italia, a dispetto della disponibilità manifestata dal FITD ad assicurare credito e liquidità a Banca delle Marche, non aveva autorizzato l’intervento, ritenendolo illegittimo, e aveva dichiarato la risoluzione, di modo che la condizione di insolvenza si era verificata non perchè sussistente nella realtà economica, ma perchè ingenerata da una decisione dell’autorità di vigilanza.
La Corte territoriale, nel prendere in esame compiutamente la questione, avrebbe dovuto anche rilevare che l’intervento del FITD non costituiva un aiuto di Stato ex art. 107 TFUE, poichè il fondo non è un organismo di Stato bensì un consorzio con personalità giuridica di diritto privato che utilizza risorse non pubbliche, derivanti dai contributi versati dalle banche consorziate.
Si sarebbe perciò dovuto constatare – a dire della fondazione ricorrente – che la Banca d’Italia, in presenza di un intervento di mercato che rispettava i vincoli comunitari, aveva disposto la risoluzione e la liquidazione coatta di Banca delle Marche benchè fosse disponibile una misura alternativa pienamente idonea a superare il rischio di dissesto e atta a escludere la sussistenza di uno stato di insolvenza.
4.2 Il motivo non è fondato.
4.2.1 La Corte territoriale ha escluso dal novero degli elementi da vagliare al fine di valutare l’esistenza di un’effettiva insolvenza gli infruttuosi tentativi di intervento del Fondo interbancario per la tutela dei depositi.
Ciò non solo perchè quegli interventi non vi erano stati, ma anche perchè le infruttuose interlocuzioni con diverse controparti bancarie e finanziarie attestavano “una condizione di degrado non risolvibile con tali interventi e il difetto di… fiducia creditizia” (pag. 20).
La valutazione non si presta a censure, dato che la Corte territoriale, nel verificare l’esistenza di un’effettiva situazione di insolvenza dell’istituto di credito alla data di adozione del provvedimento di avvio della risoluzione D.Lgs. n. 180 del 2015, ex art. 36 doveva apprezzare la situazione addotta in sè, a prescindere dalle ragioni che l’avevano causata.
In vero ai fini dell’accertamento del ricorrere di uno stato d’insolvenza dell’imprenditore commerciale, quale presupposto per la dichiarazione di fallimento, resta irrilevante ogni indagine sulle cause che lo hanno determinato, sull’imputabilità o meno all’imprenditore medesimo delle ragioni del dissesto ovvero sulla loro riferibilità a rapporti estranei all’impresa (si vedano in questo senso Cass. 441/2016, Cass. 9253/2012 e Cass., Sez. U., 115/2001).
L’oggetto della valutazione non muta in caso di dichiarazione dello stato di insolvenza di un ente creditizio sottoposto a risoluzione, in quanto il D.Lgs. n. 180 del 2015, art. 36 si limita a individuare il frangente a cui si debba avere riguardo per accertare lo stato di insolvenza (indicandolo nel momento dell’avvio della risoluzione) ma non stabilisce affatto che, a differenza di quanto avviene per il generale accertamento della condizione di insolvenza, si debba compiere una valutazione controfattuale in merito alle cause che hanno condotto a un simile stato.
Un conto quindi è l’insolvenza, da chiunque determinata, quale situazione da accertare nel suo oggettivo ricorrere ai fini della dichiarazione di insolvenza, un conto invece è la responsabilità nella determinazione di un simile stato, passibile, ove accertata, di danni, ma priva di rilievo ai fini della constatazione dello stato di insolvenza.
4.2.2 Da quanto appena detto discendono l’irrilevanza, ai fini della definizione del presente giudizio di legittimità, dell’esito dell’appello pendente dinnanzi alla Corte di Giustizia avverso la sentenza del Tribunale UE del 19 marzo 2019 (che ha riconosciuto che gli interventi del FITD non costituiscono un aiuto di Stato) e l’impossibilità di disporre la sospensione di questa causa fino all’esito di tale lite, come richiesto dalla Fondazione ricorrente con la memoria da ultimo depositata.
In vero, quand’anche si accertasse nelle competenti sedi che l’intervento del Fondo interbancario per la tutela dei depositi era ammissibile, si dovrebbe comunque constatare, come ha fatto il giudice di merito, che tale finanziamento nei fatti non era avvenuto e dunque non aveva rilievo ai fini dell’apprezzamento dello stato di insolvenza. Ed anche volendosi porre nella prospettiva controfattuale sollecitata da parte ricorrente (malgrado la stessa esuli dall’indagine che il giudice di merito era chiamato a compiere) non si arriverebbe a differenti risultati, ove si consideri che il collegio del reclamo non solo non ha accertato che un simile finanziamento sarebbe stato di certo erogato, ma soprattutto ha stabilito – con una valutazione insindacabile in questa sede di legittimità – che comunque l’intervento non avrebbe posto rimedio alla “condizione di degrado non risolvibile” in cui si trovava Banca delle Marche.
5.1 Il secondo mezzo, sotto la rubrica “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., L. Fall., art. 5, art. 82 T.U.B. e D.Lgs. n. 180 del 2015, art. 36 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – error in iudicando. Erroneità della sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto dotate di speciale forza probatoria le valutazioni e le interpretazioni tecniche della Banca d’Italia e degli organi di amministrazione straordinaria”, denuncia la violazione di tale compendio normativo in quanto la decisione impugnata avrebbe ritenuto che le valutazioni tecniche di Banca d’Italia e dei Commissari straordinari, seppur non insindacabili, fossero dotate di speciale forza probatoria, dovessero essere valutate rispetto alla loro non manifesta irragionevolezza e ponessero a carico di azionisti e creditori l’onere della prova negativa dello stato di insolvenza.
La Corte di merito, ritenendo che le valutazioni tecniche espresse dall’autorità di vigilanza potessero essere rimesse all’analisi critica del giudice sulla scorta delle risultanze processuali e della loro congruenza logica, avrebbe avuto un accesso filtrato e non diretto al fatto controverso e in questo modo avrebbe esercitato un sindacato tipico del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica dell’amministrazione piuttosto che effettuare una prudente valutazione della congerie istruttoria raccolta.
Risulterebbe inoltre erronea l’equiparazione della posizione dei commissari straordinari a quella del curatore sotto il profilo dell’efficacia probatoria delle relazioni predisposte, in quanto il secondo è nominato dal Tribunale e opera in maniera neutrale, mentre i primi sono portatori di un interesse alla stabilità del sistema creditizio, che nei casi di crisi bancaria si pone in contrasto con quello dei creditori e degli azionisti dell’istituto di credito.
L’accertamento del deficit patrimoniale e dello stato di illiquidità sarebbe perciò avvenuto sulla base di documenti unilateralmente precostituiti e prospettazioni di parte prive di riscontro esterno.
5.2 Il motivo risulta in parte infondato, in parte inammissibile.
5.2.1 La Corte di merito, nell’individuare i criteri di metodo a cui ispirare la propria indagine nell’esame dei pareri espressi dall’autorità di vigilanza e delle comunicazioni dei commissari straordinari, ha distinto (a pag. 15) tra accertamenti dei fatti in senso stretto e valutazioni dei medesimi ed ha ritenuto in particolare che le seconde, pur dovendosi tenere presente le garanzie di terzietà e imparzialità connesse alla posizione di indipendenza dell’organo che le aveva redatte, dovessero essere oggetto di analisi critica sulla scorta delle risultanze processuali e della congruenza logica delle valutazioni espresse.
Un simile modus procedendi nell’attribuzione del valore probatorio del materiale istruttorio raccolto non contrasta con il compendio normativo indicato dal mezzo in esame.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte un documento, per costituire atto pubblico ed avere l’efficacia riconosciuta dall’art. 2700 c.c., deve provenire da un pubblico ufficiale ed essere formato nell’esercizio di una funzione specificatamente diretta alla documentazione, funzione questa che la legge non riconosce al commissario straordinario o commissario liquidatore di un istituto bancario; di conseguenza va escluso che gli atti provenienti da tali organi, al pari di quelli redatti dall’autorità di vigilanza, abbiano l’efficacia probatoria privilegiata prevista da tale norma.
Il che tuttavia non impedisce (al pari di quanto questa Corte ha già ritenuto rispetto al curatore; Cass. 10216/2009, Cass. 14831/2006) di ritenere che tali atti – proprio a causa della loro origine e per le finalità perseguite dalla legge di fornire, attraverso l’intervento dell’autorità di controllo e l’opera dei commissari, ogni più ampio elemento di valutazione sulle condizioni in cui versa l’istituto di credito costituiscano una legittima fonte di informazione in merito all’accertamento dei fatti di causa in senso stretto, che, ove non sia validamente contraddetta, ben può concorrere alla formazione del convincimento del giudice in merito alla sussistenza dell’insolvenza bancaria.
Ed il valore probatorio attribuibile a queste legittime fonti di informazione fa sì che il giudice, se può ammettere le prove che le altre parti deducono per contrastare le risultanze di detta relazione, non sia però tenuto ad acquisirne d’ufficio per controllare la rispondenza al vero degli elementi di valutazione offerti dall’autorità di vigilanza o dai commissari.
5.3.2 La Corte di merito ha poi constatato che il primo giudice, nell’evincere l’accertamento dei fatti dai pareri e dalle comunicazioni sottoposti al suo vaglio, non aveva attribuito il medesimo valore probatorio agli aspetti valutativi contenuti in tali documenti ed aveva proceduto a un vaglio critico degli stessi, in termini che il collegio del reclamo ha ritenuto di condividere.
Queste ultime valutazioni non possono essere riviste in questa sede. Al riguardo va ribadito il principio secondo cui il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà del controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr., ex plurimis, Cass. 21098/2016, Cass. 27197/2011).
6.1 Il terzo motivo di ricorso, nel denunciare ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 5, artt. 74 e 82 T.U.B., D.Lgs. n. 180 del 2015, art. 36 e art. 2426 c.c., n. 8, assume che la sentenza impugnata abbia fondato il proprio convincimento su circostanze inidonee in punto di diritto a dimostrare lo stato di insolvenza e non riconducibili alla relativa nozione legale; in tesi di parte ricorrente, posto che la nozione di insolvenza in ambito bancario coincide con quella comune senza alcun tratto di specialità, la Corte d’appello avrebbe ravvisato l’incapacità di Banca delle Marche di far fronte alle obbligazioni senza considerare che la stessa, alla data della risoluzione, era dotata di liquidità finanziaria e di un patrimonio attivo, in assenza di fatti esteriori percepibili e sulla base di mere valutazioni prognostiche o elaborazioni contabili redatte a fini interni e in difformità dei criteri codicistici di redazione dei bilanci.
In particolare – a dire della ricorrente – non vi sarebbe stata alcuna situazione di illiquidità in atto e nessun inadempimento di obbligazioni correnti e la Corte di merito si sarebbe limitata a individuare una situazione di illiquidità potenziale, formulando un giudizio prognostico di futura illiquidità al verificarsi di alcune condizioni eventuali, mai ventilate in concreto e costituenti pure ipotesi di lavoro.
Per di più la sospensione dei pagamenti, a meno che non si dimostri aliunde l’impotenza patrimoniale non transeunte, non costituirebbe prova di insolvenza ma una normale soluzione di vigilanza ex art. 74, comma 3 T.U.B..
Sarebbe mancato inoltre – prosegue la ricorrente – un reale deficit patrimoniale, poichè la Corte territoriale, per negare rilievo all’esistenza di un attivo di tredici milioni di Euro, avrebbe fatto riferimento a una prognosi di patrimonio passivo futuro, confondendo la normativa tecnica sugli standard di solidità patrimoniale richiesti per la regolare erogazione di servizi bancari con l’incapacità reddituale dell’impresa che sola determina l’insolvenza.
Infine la perdita patrimoniale registrata costituirebbe non un fatto esteriorizzatosi, ma una mera valutazione contabile interna frutto dell’abbattimento del valore dei crediti in sofferenza secondo parametri iperprudenziali funzionali all’adozione di misure di vigilanza e non conformi al criterio codicistico del valore di realizzo; ed ancora nessuna gestione in perdita vi sarebbe stata nel periodo 2013 – 2015 ma solo l’emergere di asserite perdite storiche non ancora contabilizzate a bilancio, inidonee a giustificare alcuna inferenza prognostica sulla capacità reddituale futura.
6.2 Il motivo risulta in parte infondato, in parte inammissibile.
6.2.1 In assenza di un’autonoma definizione all’interno del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 82 dello stato d’insolvenza rilevante ai fini della relativa declaratoria è opinione consolidata di questa Corte (si vedano al riguardo Cass. 9408/2006, Cass. 20186/2017 e Cass. 3864/2019) che l’insolvenza bancaria vada definita nei medesimi termini previsti dalla L. Fall., art. 5 per le altre imprese.
Questa riconduzione al generale paradigma previsto dalla L. Fall., art. 5 è avvenuta ad opera della Corte di merito considerando opportunamente i tratti peculiari della fattispecie regolata dall’art. 82 T.U.B., la quale si riferisce a un’impresa di particolare natura ancora operativa al momento dell’emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa o di risoluzione.
6.2.2 La legge non prevede un requisito di manifestazione all’esterno dello stato di insolvenza, ma degli indizi che ne costituiscano gli elementi sintomatici e siano apprezzabili dal giudice al fine della dimostrazione della sua sussistenza.
Più precisamente il significato oggettivo dell’insolvenza deriva da una valutazione circa le condizioni necessarie, secondo un criterio di normalità, all’esercizio di attività economiche, si identifica con uno stato di impotenza funzionale non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa e si esprime, secondo una tipicità desumibile dai dati dell’esperienza economica, nell’incapacità di produrre beni con margine di redditività da destinare alla copertura delle esigenze di impresa (prima fra tutte l’estinzione dei debiti), nonchè nell’impossibilità di ricorrere al credito a condizioni normali, senza rovinose decurtazioni del patrimonio (Cass. 7252/2014, Cass. 3371/1977).
L’accertamento di una simile condizione presuppone l’esistenza di fatti esteriori – quali inadempimenti o altre circostanze, con valore meramente indiziario e da apprezzarsi caso per caso – idonei a manifestare quello stato (Cass. 19027/2013).
6.2.3 La Corte di merito, nell’esaminare le circostanze già portate all’attenzione del primo giudice, ha ritenuto di condividere le valutazioni già compiute in merito alla sussistenza dello stato di insolvenza in quanto la presenza di un deficit patrimoniale (evincibile da un CET negativo, necessarie svalutazioni del valore di libro dei crediti e perdite di esercizio per Euro 920.000.000) e il verificarsi di una crisi di liquidità grave e non transitoria (dimostrata dall’esiguità delle scorte, dal ricorso a linee di credito temporanee e da deflussi costanti) costituivano, unitamente a una serie di circostanze di corredo utili a confermare la loro pregnanza dimostrativa, elementi sufficienti a integrare il requisito dell’impossibilità per l’impresa bancaria di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.
In questo modo la corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi sopra ricordati, valorizzando indici di insolvenza che, pur dovendo essere ricondotti alla nozione generale di cui alla L. Fall., art. 5, nel contempo non potevano prescindere dalla peculiarità dell’attività esercitata e del patrimonio annoverato dall’imprenditore.
Quanto al profilo del deficit patrimoniale la Corte territoriale, nel preoccuparsi di verificare l’effettiva sussistenza dello stato di insolvenza di cui all’art. 82, comma 2 T.U.B. e, a tal fine, delle perdite indicate dai commissari straordinari, ha tenuto presente che per un’impresa bancaria l’attivo in larga parte è costituito da crediti per finanziamenti verso la clientela, sicchè il grado di recuperabilità effettiva delle esposizioni è di per sè suscettibile solo di una valutazione presuntiva.
Ai fini della valutazione dello stato di insolvenza l’accertamento degli elementi attivi del patrimonio sociale non poteva quindi prescindere dalla valutazione della concretezza ed attualità di tali elementi; il che significa che occorreva considerare il valore del credito non in termini nominali o di perdita già registrata ma di presumibile realizzo, secondo una valutazione riservata al giudice di merito che non è sindacabile in questa sede.
Quanto al profilo del deficit di liquidità la Corte di merito – nel riscontrare l’esistenza di una “crisi di liquidità grave e non transitoria, momentaneamente tamponata da temporanei finanziamenti idonei soltanto a raggiungere il margine di sicurezza per l’attività giornaliera” (pag. 4) e laddove ha ravvisato una situazione di “esiguità delle scorte di liquidità, ricorso a linee di credito temporanee e deflussi costanti” (pag. 16) per arrivare, infine, a dire che “la liquidità stentata e solo fortunosamente ottenuta è segno di crisi finanziaria” (pag. 18) – ha tenuto conto che l’attività dell’impresa bancaria necessita, per sua natura, di sufficiente liquidità di cassa e della possibilità di disporre di canali di reperimento della stessa ed in questa prospettiva ha valutato la disponibilità di scorte liquide non nella loro mera consistenza, ma rispetto al fabbisogno e all’orizzonte temporale con esse assicurabile, ed in considerazione dell’origine delle stesse, da crediti temporanei piuttosto che da fonti proprie o da finanziamenti stabili.
Non si tratta perciò, secondo i giudici di merito, di patologia consistita nella dipendenza dal credito, condizione rientrante nella fisiologia dell’attività di impresa, ma nel reperimento di fonti di finanziamento che, per il loro carattere limitato (per consistenza, incrementando di un sol giorno la disponibilità) e precario (dipendendo da finanziamenti temporanei), dimostravano il godimento di credito in misura idonea “soltanto a raggiungere il margine di sicurezza per l’attività giornaliera” ed inadeguata al normale svolgimento dell’attività bancaria.
Il che costituisce applicazione, in questo particolare ambito economico, del generale principio secondo cui l’insolvenza non suppone, necessariamente, l’esistenza di inadempimenti (Cass. 30209/2012, Cass. 19027/2013) e consiste invece in una situazione in prognosi irreversibile di regolare adempimento delle obbligazioni dovuta all’incapacità dell’imprenditore di fronteggiare con mezzi normali le proprie esposizioni debitorie.
Infine parte ricorrente, rispetto alla denunciata violazione dell’art. 74, comma 3 T.U.B., si limita alla mera riproposizione delle tesi difensive svolte nelle fasi di merito e motivatamente disattese dal giudice dell’appello, operando così una mera contrapposizione del suo giudizio e della sua valutazione a quella espressa dalla sentenza impugnata senza considerare le ragioni offerte da quest’ultima e impegnarsi a contrastarle.
6.2.4 La situazione di insolvenza, come detto, andava ricostruita nei medesimi termini previsti dalla L. Fall., art. 5 per le altre imprese, piuttosto che con riferimento ai criteri di vigilanza.
Occorreva quindi verificare la presenza di una situazione d’impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie per l’espletamento della attività imprenditoriale (Cass. 29913/2018).
Questa valutazione è stata opportunamente calata dalla Corte di merito non solo nella realtà economica bancaria, ove le situazioni debitorie degli istituti di credito sono costituite in larga parte da depositi, ma anche nella specifica situazione in cui si trovava l’istituto bancario, che – secondo gli accertamenti del giudice di merito – poteva far fronte alle richieste dei depositanti “in una situazione di ridotta, precaria temporanea liquidità” e “in uno scenario che vedeva un costante deflusso della clientela retail”.
A fronte di questa crisi oggettiva e immediata di liquidità (“con un orizzonte temporale di soli dieci giorni”) il collegio di merito ha poi constatato il carattere irreversibile della situazione di impotenza economica, dato che la banca non aveva un attivo idoneo a porvi rimedio, con un accesso al mercato altrettanto immediato (trovando così giustificazione l’individuazione del valore di cessione immediata dei crediti piuttosto che secondo i valori in precedenza stimati nei tentativi di salvataggio o nelle rettifiche apportate durante l’amministrazione straordinaria), nè poteva contare sull’apporto di terzi, la cui disponibilità era limitata a interventi del tutto marginali.
Il giudice di merito – nel ritenere che l’attuale mancanza di cassa e l’impossibilità di ripristinarla nell’immediato in ragione del deficit patrimoniale impedissero l’esercizio dell’attività bancaria, stante l’incapacità strutturale di restituire le somme percepite dai depositanti – ha perciò reputato che fossero venute meno in maniera irrimediabile e irreversibile le condizioni economiche necessarie, secondo un criterio di normalità, all’esercizio dell’attività caratteristica.
La possibilità di continuare a esercitare un’impresa bancaria rimaneva così irrimediabilmente pregiudicata da una situazione, strutturale e irreversibile, di impotenza a soddisfare, regolarmente e con mezzi normali, le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito a ciò necessarie.
Una volta rilevato come i rilievi della Corte di merito siano coerenti con la normativa generale e di settore, tengano conto delle precipue caratteristiche dell’attività bancaria e si pongano nel solco della giurisprudenza di questa Corte è sufficiente poi osservare, rispetto ai vari profili apprezzati ai fini dell’accertamento dell’insolvenza, come le doglianze sollevate a questo proposito deducano, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, a un’inammissibile rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.
Il convincimento espresso dal giudice di merito circa la sussistenza dello stato di insolvenza costituisce invece un apprezzamento di fatto, incensurabile in cassazione, ove sorretto da motivazione esauriente e giuridicamente corretta (Cass. 7252/2014).
7.1 Il quarto motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2727 c.c. e art. 116 c.p.c., in quanto la sentenza appellata avrebbe violato i parametri legali del procedimento inferenziale e della formazione della prova su base indiziaria: la Corte di merito si sarebbe limitata a elencare un coacervo di elementi piuttosto che individuare indizi dotati di significatività, scrutinarli individualmente e apprezzare poi la loro complessiva coerenza.
7.2 Il motivo è infondato.
Vero è che il procedimento che deve necessariamente seguirsi in tema di prova per presunzioni si articola in due momenti valutativi, in quanto il giudice dapprima deve valutare in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, ossia presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria, quindi deve procedere a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. 27410/2019, Cass. 9059/2018, Cass. 5374/2017, Cass., Sez. U., 584/2008, Cass. 19894/2005).
La Corte territoriale tuttavia, dopo aver individuato i singoli elementi indiziari valorizzati dal giudice di merito, ha registrato a più riprese (alle pagg. 13 e 16) come gli stessi non fossero stati “oggetto di specifica ed efficace doglianza” “con riferimento a ogni singolo referente” e “con riguardo al portato congiunto di tutti i referenti”.
L’appello dunque era circoscritto alla prima parte del ragionamento inferenziale e investiva la capacità dei singoli elementi oggetto di espressa censura a presentare una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria.
Ed a tanto doveva limitarsi la Corte di merito, rivalutando il carattere di precisione e gravità degli elementi indiziari investiti da apposito gravame.
Il collegio di merito, una volta ribadita la concludenza dei singoli elementi ai fini della valutazione complessiva, non era poi tenuto a rivedere anche quest’ultima, dato che, rimasto immutato il novero degli elementi indiziari da tenere a base della valutazione complessiva, quest’ultima non era stata oggetto di specifica censura (e comunque ha ribadito, a pag. 18, che gli elementi presuntivi isolati risultavano concordanti ed erano in grado nella loro combinazione di fornire una valida prova presuntiva).
8.1 Il quinto motivo di ricorso, sotto la rubrica “violazione degli artt. 61,115, 116 c.p.c. e art. 191 c.p.c. e ss. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 – error in procedendo in relazione all’omessa istruttoria tecnica richiesta dalla parte”, lamenta la mancata ammissione, senza adeguata motivazione, della consulenza contabile volta a individuare le attività deteriorate e l’entità della svalutazione ad esse attribuibile al fine di verificare la correttezza delle rettifiche compiute da Banca d’Italia e Commissari.
8.2 Il motivo è inammissibile.
La Corte di merito ha ritenuto, “sulla scorta delle argomentazioni che precedono”, “la natura meramente esplorativa della richiesta C.T.U.”. Trattandosi di richiesta che riguardava le attività deteriorate e l’entità della svalutazione ad esse attribuibile, occorre avere riguardo al passaggio motivazionale (pag. 16) in cui il collegio del reclamo ha condiviso la svalutazione operata all’interno dei pareri formulati dall’organo di vigilanza sulla base delle indicazioni della Direzione Generale della Concorrenza della Commissione Europea, ispirate dall’esperienza maturata in altri contesti di risoluzione bancaria.
La Corte distrettuale ha così inteso sostenere che a fronte di simili argomenti di prova la parte non poteva limitarsi a sollecitare il ricorso a una consulenza tecnica d’ufficio sulla consistenza della svalutazione (dato che essa non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze) e doveva invece allegare argomenti o offrire prove che contrastassero queste valutazioni, piuttosto che supplire alla deficienza delle proprie difese tramite la richiesta di compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
Non si tratta quindi di un ribaltamento dell’onere della prova, come sostiene il mezzo in esame senza cogliere la ratio decidendi della decisione impugnata, ma di attribuzione alla parte, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 2, dell’onere di dare corpo alle proprie difese tramite adeguate allegazioni o offerte di prova piuttosto che attraverso l’illegittima richiesta di compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. 30218/2017).
D’altra parte, il giudizio sulla necessità ed utilità di fare ricorso a una consulenza tecnica d’ufficio rientra nel potere discrezionale del giudice del merito, la cui decisione è di regola incensurabile in Cassazione (Cass. 4853/2007); se è poi vero che il giudice di merito è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione di un simile incombente proveniente da una delle parti (Cass. 17399/2015), occorre prendere atto che nel caso di specie il rigetto dell’istanza è stata oggetto di motivazione, nel senso appena illustrato, mentre non è sindacabile in questa sede il giudizio espresso dalla Corte di merito in ordine all’insufficienza degli elementi probatori che avrebbero consentito l’esperimento dell’indagine peritale.
9.1 L’unico motivo di ricorso presentato da B.M. lamenta la violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 5 in quanto la Corte territoriale avrebbe omesso di prendere in esame le doglianze sollevate per contestare l’esistenza di un deficit patrimoniale in mancanza di contestazioni circa la situazione di illiquidità, malgrado quest’ultimo parametro avesse natura sussidiaria e fosse inidoneo di per sè a fondare una dichiarazione di insolvenza.
9.2 Il motivo è inammissibile.
9.2.1 Esso infatti assume che la pronuncia dello stato di insolvenza di una banca debba giocoforza fondarsi sull’esistenza di un grave deficit patrimoniale, mentre la situazione di illiquidità costituirebbe un elemento di corredo di per sè insufficiente a giustificare l’approdo a cui sono arrivati i giudici di merito.
Si è già detto però, più sopra, che la Corte di merito, pur astenendosi dall’esaminare il reclamo del B., ha preso in esame, vagliando l’impugnazione della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, l’aspetto del deficit patrimoniale, non solo confermando l’esistenza di una “situazione di deficit patrimoniale, via via esplicitatasi” (pag. 18), ma anche prendendo in esame il profilo specificamente criticato dal Dott. B., costituito dal carattere eccessivo della svalutazione dei crediti che, in tesi del reclamante, avrebbe comportato l’aumento delle perdite e l’erosione del patrimonio.
E sotto questo profilo la Corte d’appello ha condiviso, come detto, la valutazione compiuta dal primo giudice in merito alla riduzione da compiere sul valore di libro dei crediti.
La doglianza risulta quindi priva di decisività, poichè tesa a lamentare il mancato riscontro di una critica che risulta comunque essere stata vagliata negativamente dalla Corte di merito, seppur rispetto all’altro reclamo presentato.
9.2.2 Peraltro la Corte di merito ha posto in risalto a più riprese, nel senso sopra illustrato, l’esistenza di una crisi immediata e oggettiva di liquidità, intendendo sottolineare come la stessa fosse di entità tale da pregiudicare il regolare adempimento delle obbligazioni esistenti nei confronti dei depositanti e compromettere l’esercizio dell’attività caratteristica.
L’assunto non è affatto in contrasto con il citato arresto di questa Corte (Cass. 9408/2006), il quale per il vero non sostiene che il deficit patrimoniale costituisca l’unico elemento determinante la situazione di insolvenza di un istituto di credito, ma si limita invece a rappresentare che la situazione di eventuale liquidità in cui la banca si trovi non è di per sè sufficiente a escludere l’insolvenza, dato che l’ente creditizio, disponendo di molteplici canali di accesso al reperimento della stessa, è in grado di mascherare sotto questo profilo il proprio dissesto.
Il che significa che la condizione di liquidità di un istituto di credito non esclude l’insolvenza, non che la situazione di illiquidità non vale ad accertarne l’insolvenza.
Il mezzo in esame dunque prescinde dal contenuto della decisione impugnata e dagli argomenti offerti dalla Corte territoriale, tentando di valorizzare un precedente di questa Corte che non si attaglia al caso concreto e il cui senso è di tenore ben diverso da quello preteso.
10. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro va pertanto respinto, mentre il ricorso presentato da B.M. deve essere dichiarato inammissibile. Le spese – da porsi a carico dei ricorrenti in pari misura ex art. 97 c.p.c. – seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso presentato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, dichiara inammissibile il ricorso proposto da B.M. e condanna i ricorrenti, in pari misura, al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 7.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori come per legge e contributo spese generali nella misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2020.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2020