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Diritto e Impresa

Cass. civ. sez. I, 20/01/2021, n.979, sui prelievi “indebiti” dei soci ai fini dell’attivo patrimoniale

commento a cura di Giuseppe Spataro

Con la pronuncia in oggetto, la Cassazione interviene in materia di prelievi cd. “indebiti” da parte dei soci.

Ad oggi, non sono infrequenti le prassi intese a qualificare i detti prelievi, seppur riferiti a esercizi ancora in corso, nei termini di “percezione di utili” e a ritenere, all’unica condizione che consti il previo consenso di tutti i soci, le attribuzioni patrimoniali che questi prelievi producono come senz’altro intangibili.

Tale valutazione trae elemento di decisivo supporto nella sentenza n. 10786/2003 luglio 2003 con la quale si è affermato che “quanto alla possibilità, in una società in nome collettivo, di imputare dei pagamenti a utili sociali di competenza del periodo in corso, ancor prima del rendiconto, essa è consentita dall’art. 2262 c.c. Questa norma, infatti, nel subordinare la distribuzione degli utili all’approvazione del rendiconto, ammette espressamente il patto contrario“.

La successiva evoluzione della giurisprudenza di questa Corte ha superato siffatta affermazione ribadendo come “nelle società di persone il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c., all’approvazione del rendiconto, situazione contabile che equivale, quanto ai criteri di valutazione, a quella di un bilancio[1].

Nel sistema in oggi vigente, afferma la Corte, gli utili di periodo si formano in relazione all’esito dei singoli esercizi sociali, secondo quanto dispone la norma generale dell’art. 2217 c.c. Le società di persone non conoscono, diversamente dalle società per azioni, la possibilità di distribuire degli acconti sui dividendi, come previsto dall’articolo 2433 bis c.c.

Dal combinato disposto dell’art. 2433 c.c., comma 4 e art. 2433 bis c.c., comma 7, si ricava, dunque, che la distribuzione di utili non effettivamente conseguiti configura un’ipotesi di indebito oggettivo.

Da tutto ciò, ribadisce nel suo ragionamento la Corte, deriva che il prelievo di somme dalle casse sociali da parte dei soci – che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti dalla società – comporta senz’altro il sorgere del diritto della società di ripetere le somme, che sono state concretamente distribuite, nei confronti di ciascun socio che le abbia fatte proprie.

Si deve dunque affermare che la voce di bilancio “deficit patrimoniale” viene a rappresentare una posta non fittizia, bensì effettiva e, in quanto tale, idonea a integrare l’attivo patrimoniale della società che l’art. 1, comma 2 l. fall. richiede come requisito oggettivo per la valutazione della sussistenza dei presupposti di fallibilità di un imprenditore.

In conclusione, la Cassazione è arrivata cosi ad enunciare il seguente principio, per cui “posto che le obbligazioni sociali costituiscono debiti che stanno in capo alla società pur nel caso delle società di persone, non concorre a formare l’ “attivo patrimoniale”, che viene preso in considerazione dalla norma della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a, il fatto che i soci illimitatamente responsabili siano tenuti, quali garanti ex lege, a rispondere degli stessi. Concorrono invece a formare l’attivo patrimoniale i prelievi di somme dalle casse sociale da parte dei soci, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, dato che le somme così percepite sono soggette ad azione di ripetizione di indebito da parte della società”.

 

Cassazione civile sez. I, sentenza 20 gennaio 2021, n.979

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo                             –  Presidente   –

Dott. TERRUSI   Francesco                         –  Consigliere  –

Dott. PAZZI     Alberto                           –  Consigliere  –

Dott. VELLA     Paola                             –  Consigliere  –

Dott. DOLMETTA  Aldo Angelo                  –  rel. Consigliere  –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12680/2016 proposto da:

(OMISSIS) s.n.c. (OMISSIS), in persona dei legali rappresentanti pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, piazza Prati degli

Strozzi n. 32, presso lo studio dell’avvocata Alessandra Petti,

rappresentata e difesa dalle avvocate Mariangela Grillo, e Francesca

Palozzo, giusta procura in calce al ricorso;

  • ricorrente –

contro

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pescara;

  • intimata –

avverso il decreto del TRIBUNALE di PESCARA, depositato il

22/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/09/2020 dal cons. Dott. ALDO ANGELO DOLMETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale DE RENZIS

LUISA, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1.- Nel novembre 2015, la s.n.c. “(OMISSIS) (OMISSIS)” ha proposto avanti al Tribunale di Pescara una domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo ai sensi della L. Fall., art. 161, comma 6.

2.- Con decreto depositato in data 22 marzo 2016, il Tribunale ha dichiarato l’inammissibilità della domanda così presentata, osservando che “dalla documentazione allegata alla domanda” non emerge il “requisito soggettivo per l’ammissione alla procedura, non essendo evidenziato il superamento dei limiti dimensionali posti dalla L. Fall., art. 1“.

3.- Più in particolare, il Tribunale ha rilevato che, nella documentazione contabile prodotta (in specie, bilancio al 31 dicembre 2014 e situazione patrimoniale aggiornata al 30 settembre 2015), l'”attivo ascende oltre il limite di e 300.000,00 solo per effetto della contabilizzazione della voce “deficit patrimoniale””. Per precisare che tale voce “indica il disavanzo patrimoniale riportato dall’impresa” e che essa “può essere inserita nelle attività”, allorchè il passivo risulti a queste superiore; ciò, tuttavia, “può avvenire per una mera questione di segno contabile, che non può avere l’effetto di indicare un effettiva attività considerabile quale elemento dell’attivo patrimoniale ai fini del superamento della soglia di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2″.

Nell’attivo così computabile comunque non rientra – ha anche aggiunto il Tribunale – il capitale sociale, che risulta per contro collocato nell’ambito delle poste passive dall’art. 2424 c.c.

4.- Avverso questo provvedimento ricorre la s.n.c. “(OMISSIS) (OMISSIS)”, promovendo due motivi di cassazione.

L’intimata Procura non si è costituita.

5.- La controversia è stata chiamata all’udienza non partecipata della Sesta Sezione civile – 1 del 21 novembre 2017.

Con ordinanza interlocutoria dell’11 gennaio 2018, n. 548, il Collegio ha rinviato la causa alla pubblica udienza della Prima Sezione civile.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6.1.- Con il primo motivo, il ricorrente – lamentando omessa e/o contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia contesta la decisione del Tribunale di assegnare carattere meramente fittizio alla posta “deficit patrimoniale”.

Tale valutazione, che non risulta sorretta da alcun argomento, si manifesta – così si assume – comunque “intrinsecamente infondata”. Del resto, il Tribunale non ha proprio esaminato la fattispecie concretamente sottoposta al suo giudizio.

In realtà, nel caso di specie la voce in questione rappresenta senz’altro una “posta effettiva”, che va computata ai fini della L. Fall., art. 1, comma 2: essa consiste in “crediti della società nei confronti dei soci”; crediti, da un lato, “sorti in virtù dell’erosione del capitale sociale, determinata dalla sommatoria dei fattori perdita di esercizio su varie annualità”; crediti derivati, dall’altro, da “prelievi dei soci”.

6.2.- Il secondo motivo, che si inscrive nel vizio di violazione di legge, lamenta in specie la falsa applicazione dell’art. 2424 c.c. “Pur richiamando l’art. 2424 c.c. quale norma atta a governare quali debbano essere gli elementi da considerare nella redazione del bilancio” – si segnala – il decreto “afferma che detti criteri non necessariamente coincidono con quelli riferibili ai requisiti soggettivi di cui alla L. Fall., art. 1 ma tale ultima affermazione appare totalmente infondata”.

7.- Il ricorso è inammissibile.

Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, il “decreto, con cui il tribunale dichiara l’inammissibilità della proposta di concordato preventivo… senza emettere consequenziale sentenza dichiarativa del fallimento del debitore, non è soggetto a ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., comma 7, non avendo carattere decisorio. Invero, tale decreto, non decidendo nel contraddittorio tra le parti su diritto soggettivi, non è idoneo al giudicato” (Cass., Sezioni Unite, 28 dicembre 2016, n. 27073).

8.- Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio, stante la mancata costituzione della Procura.

9.- Ciò posto, il Collegio reputa peraltro di doversi pure soffermare su una questione di particolare importanza, che è stata considerata dal decreto del Tribunale abruzzese; e così utilizzare il potere che l’art. 363 c.p.c., comma 3, attribuisce alla Corte di Cassazione: quello di enunciare principi di diritto nell’interesse della legge.

La questione riguarda il rilievo da riconoscere – con specifico riferimento alla nozione di “attivo patrimoniale”, che viene presa in considerazione dalla L. Fall., art. 1, comma 2, lett. A – alla voce di bilancio “deficit patrimoniale”. Se questa sia, più precisamente, da stimare nei termini di mera posta contabile o per contro rappresenti una effettiva voce dell'”attivo patrimoniale”: con riguardo ai debiti dei soci “sorti in virtù dell’erosione del capitale sociale” ovvero, e in modo distinto, con riguardo ai “prelievi” da questi effettuati dalle casse sociali.

La peculiare importanza della questione risulta pure sollecitata dalla constatazione che, nella prospettiva segnata dalla disposizione di cui alla L. Fall., art. 1, comma 2, non risultano reperibili in proposito precedenti interventi di questa Corte.

10.- Come appena sopra avvertito, la questione viene a scindersi in due quesiti distinti, che esigono separate disamine.

11.- Per prima va esaminata l’ipotesi dei crediti della società sorti nei confronti dei soci “in virtù dell’erosione del capitale sociale”, secondo la formula che è stata congegnata dal ricorrente. La locuzione rimanda in via diretta all’idea che – nelle società di persone – debitore finale delle obbligazioni assunte dalla società sia non già quest’ultima, bensì le persone dei soci illimitatamente responsabili.

Questa tesi, tuttavia, non corrisponde all’orientamento che la giurisprudenza di questa Corte è venuta a sviluppare nella relativa materia.

L’orientamento di questa Corte si sostanzia, infatti, nel rilevare che la società costituisce un “distinto centro di interessi e imputazione di situazioni”, “dotato di una propria autonomia e capacità rispetto ai soci”; che la responsabilità verso terzi dei soci, che è sancita dagli artt. 2304 e 2291 c.c., si atteggia come una forma di “garanza fissata ex lege”; che il socio, che ha provveduto a pagare il debito sociale, ha azione di regresso nei confronti della società (cfr. Cass., 16 marzo 2018, n. 6650; Cass., 22 marzo 2018, n. 7139; Cass., 26 febbraio 2014, n. 4528; Cass., 12 dicembre 2007, n. 26012).

La tesi così sviluppata trova, d’altro canto, conforto espresso nel tenore della norma generale dell’art. 2266 c.c., che è precisa nell’indicare che “la società… assume obbligazioni a mezzo dei soci” (per completezza, è pure da precisare che la responsabilità dei soci, che si trova regolata nella norma dell’art. 2280 c.c., comma 2 viene ad atteggiarsi come sopportazione e distribuzione del rischio dell’insolvenza della società debitrice nel cui esclusivo interesse risulta posta l’obbligazione, sulla falsariga della disposizione generale dell’art. 1299 c.c., comma 3).

12.- Al complesso di queste osservazioni segue, naturalmente, che rispetto al profilo qui in discorso – la posta di bilancio “deficit patrimoniale” assume riferimento e valore meramente contabili, dato che la società in nome collettivo non vanta crediti nei confronti dei soci in punto di obbligazioni sociali.

Per la maggiore chiarezza dell’esposizione, appare opportuno altresì mettere per esplicito che resta del tutto estranea al tema ora considerato l’ipotesi dei versamenti ancora dovuti dai soci a titolo di conferimento: chè questa rappresenta, anzi, la voce dell’attivo delle società che per prima viene presa in considerazione dalla norma dell’art. 2424 c.c. (comma 1, ATTIVO, lett. A.).

13.- Discorso un poco più articolato occorre svolgere per l’altro quesito, relativo ai prelievi da parte dei soci di somme dalle casse sociali.

In proposito è subito da annotare che, nell’operatività attuale, non sono infrequenti le prassi intese a qualificare i detti prelievi, seppur riferiti a esercizi ancora in corso, nei termini di “percezione di utili”; e altresì a ritenere le attribuzioni patrimoniali, che questi prelievi producono, come senz’altro definitive e quindi intangibili: all’unica condizione che consti il previo consenso di tutti i soci.

Tale valutazione – così si afferma in letteratura – trae elemento di decisivo supporto nella sentenza emessa da questa Corte in data 9 luglio 2003, n. 10786 (non massimata). Questa pronuncia ha ritenuto, in particolare, che “quanto alla possibilità, in una società in nome collettivo, di imputare dei pagamenti a utili sociali di competenza del periodo in corso, ancor prima del rendiconto, essa è consentita dall’art. 2262 c.c. Questa norma, infatti, nel subordinare la distribuzione degli utili all’approvazione del rendiconto, ammette espressamente il patto contrario”.

14.- Per la verità, tale pronuncia ha, in sè stessa, un orizzonte alquanto circoscritto, posto che risulta fermata sul punto rappresentato dalla possibilità di imputare un trasferimento di somme a versamento di utili. Potrebbe anche sembrare una forzatura, pertanto, attribuirle il senso di ritenere la definitività e intangibilità dell’attribuzione patrimoniale così posta in essere (e non già quello – comunque non privo di significato – di ammettere un’attribuzione “provvisoria” e condizionata al riscontro dell’effettiva sussistenza degli utili di periodo).

In ogni caso, i contenuti espressi da tale pronuncia sono stati superati dalla (successiva) evoluzione della giurisprudenza di questa Corte. Che ha appunto affermato che “nelle società di persone il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 c.c., all’approvazione del rendiconto, situazione contabile che equivale, quanto ai criteri di valutazione, a quella di un bilancio” (cfr. Cass., 31 dicembre 2013, n. 28806; Cass. 4 luglio 2018, n. 17489; nella medesima direzione si può già vedere, peraltro, la decisione resa da Cass., 17 febbraio 1996, n. 1240).

Vero è che questi arresti non si sono occupati in modo diretto di una eventuale “derogabilità pattizia” del principio così enunciato. Non pare dubbio, tuttavia, che esse muovano propriamente dal presupposto della imperatività della regola per cui “non può farsi luogo a ripartizione di somme fra soci, se non per utili realmente conseguiti” (secondo quanto prescrive in modo espresso, per le società in nome collettivo, l’art. 2303 c.c.).

Come viene a rimarcare la notazione (svolta da Cass., n. 17489/2018), secondo cui la distribuzione di utili, che non siano effettivamente, conseguiti è fenomeno che tende, per sua propria natura, a produrre un “rimborso mascherato dei conferimenti”.

15.- Non si può in ogni caso trascurare, nell’indicata direzione, che la richiamata regola risulta presidiata da un’apposita sanzione penale nei confronti degli amministratori, che “ripartiscono utili o acconti su utili non effettivamente conseguiti” (art. 2627 c.c.).

Non può, poi, essere ritenuta d’ostacolo a una simile lettura la circostanza che la norma dell’art. 2262 c.c. – nel dichiarare il diritto del socio a percepire la “sua parte di utili dopo l’approvazione del rendiconto” – fa salvo il “patto contrario”. Chè questa possibilità si mostra riferita, secondo la piana lettura del testo normativo, alla possibilità di “limitare”, non già di “espandere”, il diritto del socio alla percezione degli utili di periodo; e così, in specie, alla possibilità che lo statuto sociale venga a subordinare – durante la vita della società – la distribuzione degli utili al consenso della maggioranza dei soci.

16.- Nel sistema in oggi vigente, gli utili di periodo si formano in relazione all’esito dei singoli esercizi sociali, secondo quanto dispone la norma generale dell’art. 2217 c.c. Le società di persone non conoscono, d’altra parte, la possibilità di distribuire degli acconti sui dividendi, secondo quanto si ricava (se non altro) dalla norma dell’art. 2433 bis c.c.

Dal testo delle norme dell’art. 2433 c.c., comma 4 e art. 2433 bis c.c., comma 7, si ricava agevolmente, poi, che la distribuzione di utili non effettivamente conseguiti configura un’ipotesi di indebito oggettivo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2033 c.c.

17.- Da tutto ciò deriva che il prelievo di somme dalle casse sociali da parte dei soci – che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti dalla società – comporta senz’altro il sorgere del diritto della società di ripetere le somme, che sono state concretamente distribuite, nei confronti di ciascun socio che le abbia fatte proprie.

Nel rispetto di queste condizioni – si deve dunque concludere – la voce di bilancio “deficit patrimoniale” viene a rappresentare una posta non fittizia, bensì effettiva; come tale a formare l’attivo patrimoniale della società in relazione alla norma della L. Fall., art. 1, comma 2.

18.- In base alle considerazioni esposte è dunque possibile enunciare il seguente principio di diritto.

“Posto che le obbligazioni sociali costituiscono debiti che stanno in capo alla società pur nel caso delle società di persone, non concorre a formare l'”attivo patrimoniale”, che viene preso in considerazione dalla norma della L. Fall., art. 1, comma 2, lett. a, il fatto che i soci illimitatamente responsabili siano tenuti, quali garanti ex lege, a rispondere degli stessi. Concorrono invece a formare l’attivo patrimoniale i prelievi di somme dalle casse sociale da parte dei soci, che non trovino la loro esatta giustificazione in utili effettivamente conseguiti, dato che le somme così percepite sono soggette ad azione di ripetizione di indebito da parte della società”.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso ed enuncia, ai sensi dell‘art. 363 c.p.c., il principio di diritto di cui in motivazione.

Dà atto, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a noma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 24 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2021

 

[1] Si veda sul punto Cass., 31 dicembre 2013, n. 28806; Cass. 4 luglio 2018, n. 17489; nella medesima direzione si può già vedere, peraltro, la decisione resa da Cass., 17 febbraio 1996, n. 1240).

 

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