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Cass. civ., sez. II, 15 giugno 2020, n. 11481, sull’irrogazione di sanzioni nei confronti del direttore generale di un istituto di credito

commento breve a cura di Stefania Azzolino

Nella sentenza qui in esame la Suprema Corte ha statuito in relazione all’irrogazione da parte di Banca d’Italia, di sanzioni nei confronti del direttore generale di un intermediario finanziario, nella specie istituto di credito, a fronte di carenza <<nell’organizzazione e nei controlli in materia di Trasparenza e di correttezza delle relazioni con la clientela>>, secondo quanto previsto dai disposti 53 e 67 del t.u.b.

Il direttore generale, in qualità di ricorrente, ha lamentato dinanzi alla Corte di Cassazione la natura sostanzialmente penale delle sanzioni a lui irrogate (artt. 144 e 145 del t.u.b.), argomentando quindi in favore della necessità di dar luogo all’applicazione delle garanzie sostanziali e processuali previste dal quadro normativo penale.

A fronte di tale obiezione, la Suprema Corte ha rilevato come le garanzie del giusto processo, così come previste e disciplinate dall’art. 6 della CEDU, non vengono specificamente in rilievo in relazione a procedimenti sanzionatori, neppure qualora essi si presentino per essere sostanzialmente penali. La disposizione appena qui richiamata, ha quale ratio quella di affidare la tutela del soggetto nei cui confronti viene applicata la sanzione, ad una fase ex ante dell’irrogazione stessa, avente natura amministrativa, ovvero ad una fase ex post, mediante il coinvolgimento dell’Autorità Giudiziaria, la quale verrà investita di un potere di sindacato pieno e di poteri rinnovatori con cui potrà sostituire la propria determinazione in luogo della sanzione irrogata da Banca d’Italia.

In tal senso la Corte argomentando ad abundantiam, rileva che le garanzie costituzionalmente previste ex artt. 24 e 111 Cost., vengano in rilievo soltanto in procedimenti giurisdizionali e non in procedimenti di natura peculiarmente amministrativa, nemmeno qualora si disquisisca su di un diritto soggettivo (il che varrebbe quindi ad escludere la non piena equiparazione tra il processo penale e il procedimento amministrativo).

Nella specie, la Cassazione esclude che il procedimento amministrativo ivi oggetto di riesame possa raffigurarsi come illegittimo, potendosi configurare la possibilità, all’esito dello stesso, di adire il Giudice dando luogo così ad un sindacato giurisdizionale pieno e tendenzialmente sostitutivo. A questo rilievo si affianca poi l’impossibilità di ritenere integrata una violazione dell’art. 24 della l. 262/2005, posto che essa non prevede la conformazione del procedimento sanzionatorio al processo (penale) in senso stretto: il principio del contraddittorio risulterà rispettato laddove vi sia la possibilità di produrre memorie scritte e documenti e non soltanto “con la partecipazione orale in sede decisoria”. Il diritto di difesa invece, sarà “efficacemente garantito dalla notifica della comunicazione di avvio del procedimento, dalla contestazione circostanziata e dalla facoltà di controdedurre e di essere ascoltato, nonché dall’accesso alle prove” (Cass. 19219/2016; Cass. 4755/2016; Cass. 25141/2015).

Per quanto concerne il materiale probatorio, la decisione in esame pone al centro il verbale ispettivo della Banca d’Italia. In particolare, ne viene richiamato il valore probatorio che:

  • In primo luogo, ha efficacia di prova legale (art. 2700 Cod.Civ.) in relazione ai fatti che sono in esso attestati e che vengono riconosciuti come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale accertatore ovvero da lui compiuti o conosciuti senza margine di apprezzamento;
  • In secondo luogo, fa fede sino a che non venga fornita prova contraria in ordine alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti e dai terzi;
  • In terzo luogo, comporta per tutti gli altri elementi probatori, che questi vengano valutati dal Giudice liberamente e nel quadro complessivo dell’istruzione condotta.

Nel caso in esame, il Giudice di appello prima, e la Suprema corte poi, hanno verificato come i verbali di Banca d’Italia risultassero dotati di un alto grado di attendibilità, atteso che i fatti costitutivi in essi puntualmente indicati, non sono stati smentiti dal ricorrente (il quale si è limitato alla contestazione concernente la violazione del diritto di difesa per mancanza di documentazione ai fini delle controdeduzioni).

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

PUBBLICITÀ

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:


SENTENZA


sul ricorso 3309/2018 proposto da:

V.A., rappresentato e difeso dagli avvocati LUISELLA MARIA

BARBERO, ALBERTO ANELLI e GIOVANNI ALESSANDRO SAGRAMOSO;

– ricorrente –

contro

BANCA D’ITALIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NAZIONALE, 91

C/O SERVIZIO CONSULENZA LEGALE DELLA BANCA D’ITALIA, presso lo

studio dell’avvocato DONATELLA LA LICATA, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato DONATO MESSINEO;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il

22/06/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE;

Udito il P.G. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ALESSANDRO PEPE che ha concluso per il rigetto del ricorso;


Uditi gli Avvocati ALBERTO ANELLI e DONATO MESSINEO.



FATTI DI CAUSA


1. La Banca d’Italia, all’esito di accertamenti ispettivi condotti dal 27 settembre 2012 al 18 gennaio 2013 con provvedimento numero 123397 del 2014 irrogava ad V.A., nella sua qualità di ex direttore generale di Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.A., la sanzione di Euro 78.000 per carenze nell’organizzazione e nei controlli in materia di trasparenza e di correttezza delle relazioni con la clientela (D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 53, comma 1, lett. b) e d) e art. 67 comma 1, lett. b) e d)).

2. V.A. proponeva opposizione avverso tale provvedimento dinanzi la Corte d’Appello di Firenze e, a seguito della declaratoria di incompetenza, riassumeva il giudizio dinanzi la Corte d’Appello di Roma.

3. La Corte d’Appello di Roma, nel rigettare l’opposizione, riteneva, in primo luogo, infondata l’eccezione di tardività della memoria depositata dalla Banca d’Italia il 3 settembre 2014, in quanto il termine fissato nel decreto della Corte che aveva disposto la comparizione delle parti non aveva carattere perentorio e non era fissato a pena di decadenza, in coerenza con la disciplina che connota lo speciale procedimento di opposizione, come regolato dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145.

Peraltro, la memoria contenente le difese della Banca d’Italia era in ogni caso intervenuta nel termine assegnato dalla Corte e, dunque, era tempestiva a nulla rilevando che vi era stato già un primo atto di costituzione di contenuto sintetico.

3.1 La Corte d’Appello riteneva infondato anche il motivo di opposizione relativo alla mancanza di motivazione del provvedimento sanzionatorio per avere il direttorio fatto rinvio a quanto ritenuto dalla commissione per l’esame delle irregolarità (di seguito CEI), nonostante che il verbale di tale riunione non fosse stato notificato all’opponente.

Secondo la Corte, il provvedimento sanzionatorio era stato notificato con allegata la proposta che, a sua volta, riportava interamente il contenuto del suddetto verbale della CEI sulla correttezza delle relazioni con la clientela. Non vi era stato, quindi, alcun vulnus al diritto di difesa del V. e, in ogni caso, nulla vietava la motivazione per relationem tanto più che, ai sensi dell’art. 24 della L. n. 262 del 2005, i provvedimenti devono essere motivati “in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.

3.2 Infondate dovevano ritenersi anche le doglianze relative alla violazione delle norme in tema di giusto processo, diritto di difesa e contraddittorio, di cui agli artt. 24 e 111 Cost., e all’art. 6, comma 1, CEDU. Doveva ribadirsi la differenza tra il procedimento sanzionatorio amministrativo e quello giurisdizionale, essendo sufficiente, ai sensi del citato art. 6 CEDU, per l’incolpato poter sottoporre la questione della fondatezza dell’accusa ad un organo indipendente ed imparziale dotato di piena giurisdizione. Peraltro, le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 144 TUB, per carenze nell’organizzazione e nei controlli interni non erano equiparabili quanto a tipologia, severità, incidenza patrimoniale e personale, a quelle erogate dalla Consob, ai sensi dell’art. 187 ter TUF, per manipolazione del mercato, sicchè esse non avevano natura sostanzialmente penale, nè ponevano un problema di compatibilità con le garanzie riservate ai processi penali dall’art. 6 CEDU.


Dunque, doveva ritenersi che nel procedimento era stato assicurato il contraddittorio e la piena conoscenza degli atti istruttori, essendo state trasmesse al direttorio le difese degli incolpati e anche i verbali delle dichiarazioni rilasciate.

3.3 Doveva rigettarsi anche il terzo motivo di opposizione relativo alla genericità delle censure. Sin dalla lettera di contestazione degli addebiti notificata all’opponente erano descritte specifiche violazioni con l’indicazione delle norme violate. Non vi era alcuna genericità e indeterminatezza delle censure stante l’esaustività, tanto della lettera di contestazione, quanto della proposta sanzionatoria, atti entrambi richiamati dalla delibera impugnata anche se per relationem. Le condotte addebitate, peraltro, non erano rappresentate da singoli specifici atti, ma da un complesso di omissioni e di inadeguatezze organizzative rilevanti rispetto alla normativa di settore.

3.4 Infondata era anche la censura relativa all’inversione dell’onere della prova per avere ritenuto che il V. non avesse controdedotto nulla rispetto ai singoli rilievi ispettivi, in sostanza non smentendo la fondatezza degli stessi.

La Corte d’Appello riportava testualmente i singoli rilievi emersi dal verbale ispettivo dai quali era emersa l’impossibilità di ricostruire i criteri seguiti per l’innalzamento dei tassi, il calcolo di tali incrementi senza verifica dell’effettivo peggioramento del rating della clientela e senza distinzione delle forme tecniche, l’assenza dei legami tra le iniziative relative al corrispettivo accordato e l’aumento dei costi effettivamente sostenuti dalla banca, l’introduzione di un tasso maggiorato non previsto contrattualmente sugli anticipi scaduti e non rimborsati (rilievo 6), l’applicazione di addebiti di spese di liquidazione e tenuta conto contrattualmente non previste (rilievo n. 8), difformità tra le condizioni contrattualmente previste e quelle applicate, incongruità tra documenti di sintesi e foglio informativo, parziale compilazione dei contratti, mancata archiviazione attestante l’avvenuta consegna della documentazione di trasparenza (rilievo n. 9). Tali accertamenti ispettivi, in quanto svolti dalla massima autorità di vigilanza nell’ambito della gestione dell’attività creditizia, dotata di alta specializzazione tecnica e investita di una pubblica funzione a tutela dell’interesse pubblico, pur se non assistiti da una presunzione di assoluta incontrovertibilità, erano caratterizzati da un elevato grado di attendibilità conoscitiva, per superare il quale l’opponente doveva essere in grado di fornire argomentazioni tecniche puntuali, non potendosi limitare a critiche generiche ed a podittiche.


Il V. non aveva controdedotto in ordine alle contestazioni, trincerandosi dietro l’impossibilità di esercizio del diritto di difesa, essendo cessato il rapporto con MPS e non disponendo più della documentazione aziendale necessaria per difendersi e controdedurre.

Tale assunto non assumeva alcuna rilevanza, ben potendo il V. acquisire o visionare tutta la documentazione da lui ritenuta rilevante rispetto ai fatti addebitati mentre erano sicuramente a lui imputabili le carenze organizzative riscontrate nella proposta sanzionatoria.

3.5 Infondata era anche la censura relativa alla violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, con riferimento all’elemento soggettivo.

Nella consolidata interpretazione giurisprudenziale tale norma prevedeva una presunzione relativa di colpa, riservando all’incolpato l’onere di dimostrare di aver agito senza colpa. Ne conseguiva che l’accertamento dei fatti nella loro oggettività e la riconduzione degli stessi agli incolpati esauriva qualsiasi dimostrazione circa l’elemento psicologico, fatta salva la prova contraria di aver adempiuto ai propri obblighi, prova incombente sugli incolpati. Di conseguenza, in mancanza di prova contraria, che spettava al soggetto sanzionato fornire ex art. 2697 c.c., la sanzione era del tutto legittima.

3.6 Infine, in ordine all’entità della sanzione irrogata, essa risultava congrua con riferimento agli indicati criteri di commisurazione utilizzati, peraltro, il giudice dell’opposizione investito della questione relativa alla congruità della sanzione non era chiamato a controllare la motivazione dell’atto ma a determinare la sanzione mediante diretta applicazione dei criteri stabiliti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11. In conclusione, la quantificazione della sanzione doveva ritenersi congrua, fondata su parametri di valutazione del tutto condivisibili, sufficientemente specifici e in linea con la L. n. 689 del 1981.


4. V.A. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di sei motivi.

5. Banca d’Italia si è costituita con controricorso.

6. Entrambe le parti, con memorie depositate in prossimità dell’udienza, hanno insistito nelle rispettive richieste.

Diritto


RAGIONI DELLA DECISIONE



1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145, della L. n. 689 del 1981, art. 23, e del D.Lgs. n. 150 del 2011, artt. 4 e 6. Violazione degli artt. 166,167,347,416 e 436 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione degli artt. 50,152,153 e 154 c.p.c.. Violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 111 Cost.. Violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., e art. 2697 c.c..

Il ricorrente lamenta l’erroneità della decisione della Corte d’Appello di Roma che ha respinto le eccezioni di tardività del deposito della memoria del 2 settembre 2014 della Banca d’Italia formulate nella memoria di replica del 14 settembre 2014, e poi ribadite nella comparsa di riassunzione del procedimento di opposizione a seguito della declaratoria di incompetenza della Corte d’Appello di Firenze.


Il ricorrente afferma che la costituzione in giudizio non è una fattispecie a formazione progressiva nella quale una parte può depositare molteplici scritti difensivi a più riprese con le quali articolare le proprie deduzioni. Tutte le disposizioni che disciplinano la costituzione del convenuto, infatti, stabiliscono che nel primo scritto difensivo questi deve proporre tutte le sue difese, prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, indicare i mezzi di prova di cui intenda valersi e i documenti che offre in comunicazione. Colui che è convenuto in giudizio dinanzi a un giudice territorialmente incompetente non può costituirsi in giudizio al solo fine di chiedere la declaratoria di incompetenza e poi effettuare una seconda costituzione in occasione della quale proporre le proprie difese e articolare i propri mezzi istruttori.

Dunque, la Banca d’Italia, depositando il proprio atto di costituzione, aveva consumato interamente le facoltà esercitabili con il suo primo atto difensivo.

La Corte d’Appello ha posto in essere, secondo il ricorrente, una grave violazione degli artt. 3 e 111 Cost., giacchè ha creato una palese ed ingiustificata disparità di trattamento tra l’attore e il convenuto.

La Banca d’Italia r in ossequio al termine assegnatole dal Presidente della Corte d’Appello di Firenze con decreto del 29 maggio 2014, avrebbe dovuto depositare la sua memoria e i documenti allegati entro e non oltre il 22 luglio 2014, mentre aveva ottemperato con una breve memoria solo il 3 settembre 2014. Il ricorrente evidenzia l’erroneità dell’affermazione circa la flessibilità che connota il procedimento di opposizione formulata dalla Corte d’Appello nel decreto impugnato, richiamando l’art. 145 TUB secondo cui la Corte d’Appello deve fissare il termine per la presentazione di memorie e documenti. Infatti, tali termini erano sono stati fissati dal presidente della Corte d’Appello di Firenze con il suddetto decreto. Non sarebbe condivisibile neanche l’assunto della Corte d’Appello, secondo il quale, il termine è ordinatorio e dunque non è a pena di decadenza. A tal proposito il ricorrente richiama la giurisprudenza delle sezioni unite che hanno stabilito che anche in presenza di un termine ordinatorio affinchè questo possa essere prorogato è necessario che vi sia una richiesta in tal senso prima della sua scadenza, e una volta scaduto senza tale richiesta si determina il venir meno del potere di compiere l’atto con conseguenze analoghe a quelle ricollegabili al decorrere di un termine perentorio.


Dunque, tutte le contestazioni svolte da Banca d’Italia nella memoria depositata, avrebbero dovuto ritenersi tardive e inammissibili al pari dei documenti con essa prodotti in giudizio. Invece, la Corte d’Appello aveva posto a base della decisione tali atti e documenti, in tal modo incorrendo anche nella violazione dell’art. 115 c.p.c., e art. 2697 c.c., perchè, anzichè ritenere pacifici i fatti dedotti dal ricorrente e non contestati dalla Banca d’Italia, avrebbe dovuto ritenere non assolto l’onere probatorio gravante sull’autorità di vigilanza di dimostrare gli elementi costitutivi della pretesa avanzata nei confronti del sanzionato.

Peraltro, un’ulteriore violazione di legge si era determinata nel ritenere che, in ogni caso, il rispetto del termine del 15 maggio assegnato con decreto del presidente del 15 gennaio 2015 era idoneo a sanare ogni eventuale decadenza.

Infatti, è principio assolutamente pacifico quello secondo il quale la riassunzione del giudizio dinanzi al giudice dichiarato competente a seguito della dichiarazione di incompetenza del primo giudicante non determina l’instaurazione di un nuovo giudizio ma, ai sensi dell’art. 50 c.p.c., la prosecuzione del giudizio originario, pertanto, essendo il giudizio dinanzi la Corte d’Appello di Roma la prosecuzione di quello promosso dinanzi la Corte d’Appello di Firenze le decadenze processuali formatesi in quest’ultimo non potevano essere sanate, permanendo gli effetti processuali e sostanziali e le preclusioni maturate.


1.2 Il primo motivo di ricorso è in parte infondato in parte inammissibile.

La censura di violazione degli artt. 3 e 111 Cost., per avere la decisione della Corte d’Appello creato una palese ed ingiustificata disparità di trattamento tra l’attore del convenuto è manifestamente inammissibile.

La violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (Sez. 5, Ord. n. 15879 del 2018).

Ciò premesso deve evidenziarsi che la memoria della Banca d’Italia è stata tempestiva, in quanto depositata entro il termine assegnato dalla Corte d’Appello di Roma a nulla rilevando il termine dato dalla Corte d’Appello di Firenze prima della declaratoria di incompetenza.

Inoltre, non assume alcuna rilevanza che prima della memoria vi sia stato un altro atto di costituzione, in quanto con tale atto non si era consumato il potere di esercitare tutti i diritti propri della parte fino all’esaurirsi del termine previsto dalla legge o dal Giudice, anche in ragione del fatto che il primo atto difensivo aveva essenzialmente assolto, per il suo carattere generico, ad una non equivoca funzione di mera costituzione e non di approntamento delle difese.


Infine, ferma restando la tempestività dell’attività processuale svolta dalla Banca d’Italia (memoria e produzione documentale), giova ribadire che, con riferimento alla memoria di costituzione, trattandosi di mero atto difensivo, non vi sarebbe stata alcuna preclusione alla sua ammissibilità, anche perchè il procedimento si era svolto nelle forme dell’udienza pubblica e le medesime difese erano state o avrebbero potuto essere svolte nel corso della discussione.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, si può vantare un diritto al rispetto delle regole del processo solo se, in dipendenza della loro violazione (violazione come si è detto nella specie non realizzata), ne derivi un concreto pregiudizio (Sez. 3, Sent. n. 3432 del 2016).

La violazione di norme processuali può costituire motivo idoneo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando abbia influito in modo determinante sul contenuto della decisione di merito, ovvero allorchè quest’ultima – in assenza di tale vizio – non sarebbe stata resa nel senso in cui lo è stata (Sez. 3, Sent. n. 22978 del 2015).

Con riferimento alla documentazione premesso che lo stesso ricorrente afferma con il terzo motivo, di seguito riportato, che nessuna documentazione era stata prodotta in giudizio oltre al verbale ispettivo, deve richiamarsi la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale nei giudizi di opposizione a sanzioni amministrative: “la produzione di documenti da parte dell’Autorità opposta, può intervenire anche nel corso del giudizio, non avendo il termine relativo natura perentoria, e indipendentemente dalla costituzione della predetta autorità o dalla comparizione della medesima, senza che venga perciò in considerazione il disposto dell’art. 87 disp. att. c.p.c. che contempla (regolandone le modalità) la diversa ipotesi di documenti offerti in comunicazione alle parti dopo la costituzione” (Sez. 1, Sent. n. 14016 del 2002).


Infine, deve richiamarsi anche l’orientamento consolidato secondo cui: “In tema di opposizione a sanzione amministrativa, grava sull’amministrazione opponente l’onere di provare gli elementi costitutivi dell’illecito, ma la sua inerzia processuale non determina l’automatico accertamento dell’infondatezza della trasgressione, poichè il giudice, chiamato alla ricostruzione dell’intero rapporto sanzionatorio e non soltanto alla valutazione di legittimità del provvedimento irrogativo della sanzione, può sopperirvi sia valutando i documenti già acquisiti sia disponendo d’ufficio i mezzi di prova ritenuti necessari” (Sez. 2, Ord. n. 24691 del 2018).

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione degli artt. 24,25,97 e 111 Cost. Violazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 144, violazione della L. n. 262 del 2005, art. 24. Violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

Il ricorrente lamenta che il decreto della Corte d’Appello di Roma, nel respingere il suo quinto motivo di opposizione, ha fatto proprio un orientamento giurisprudenziale della Cassazione secondo il quale il principio del contraddittorio e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie previsti dalla L. n. 262 del 2005, art. 24, impone solo che agli incolpati sia trasmessa la contestazione degli addebiti e non prevede che gli stessi siano ascoltati durante la discussione orale, essendo sufficienti le loro difese scritte. Secondo tale orientamento, le garanzie previste dagli artt. 24 e 111 Cost., non trovano applicazione nei procedimenti sanzionatori amministrativi ma solo in quelli formalmente giurisdizionali e la sanzione pecuniaria ex art. 144 TUB non presenta, alla stregua della giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’Uomo, un carattere di afflittività tale da essere equiparabile, per tipologia severità ed idoneità di incidere nella sfera patrimoniale e personale alla sanzione penale anche perchè non accompagnata da sanzioni di natura accessoria.


Il ricorrente, invece, ritiene erronea la negazione della natura sostanzialmente penale alla sanzione prevista dall’art. 144 TUB in ragione sia dell’entità della pena pecuniaria prevista, sia della sua comparazione con quella di cui all’art. 187 ter TUF, sia in virtù di altri indici rivelatori della sua natura punitiva.

Sulla base di tale premessa il ricorrente afferma che l’equiparazione fra sanzioni dichiaratamente penali e sanzioni solo sostanzialmente penali non può essere limitata al solo diritto sostanziale ma deve riguardare anche quello processuale e dunque comportare l’applicazione di tutte le garanzie ivi previste.

2.1 Il secondo motivo è infondato.

Preliminarmente deve affermarsi l’inammissibilità delle censure di diretta violazione degli artt. 24,25,97 e 111 Cost..

Si è già detto, infatti che la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (Sez. 5, Ord. n. 15879 del 2018).


Inoltre, deve affermarsi l’infondatezza della interpretazione dell’art. 6 CEDU e della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’Uomo sui procedimenti aventi ad oggetto sanzioni “sostanzialmente penali”. In tali procedimenti, infatti, non devono applicarsi le medesime garanzie processuali proprie dei procedimenti giurisdizionali aventi ad oggetto sanzioni penali.

La giurisprudenza consolidata di questa Corte ha affermato che: In tema di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente penale, la garanzia del giusto processo, ex art. 6 della CEDU, può essere realizzata, alternativamente, nella fase amministrativa – nel qual caso, una successiva fase giurisdizionale non sarebbe necessaria – ovvero mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio – adottato in assenza di tali garanzie ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva ed attuato attraverso un procedimento conforme alle richiamate prescrizioni della Convenzione, il quale non ha l’effetto di sanare alcuna illegittimità originaria della fase amministrativa giacchè la stessa, sebbene non connotata dalle garanzie di cui al citato art. 6, è comunque rispettosa delle relative prescrizioni, per essere destinata a concludersi con un provvedimento suscettibile di controllo giurisdizionale. (Fattispecie in tema di sanzioni applicate dalla Consob all’esito del procedimento amministrativo previsto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 septies).

Le stesse Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 20935 del 2009 hanno affermato che i precetti costituzionali riguardanti il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.) riguardano espressamente e solo il giudizio, ossia il procedimento giurisdizionale che si svolge avanti al giudice e non il procedimento amministrativo, ancorchè finalizzato all’emanazione di provvedimenti incidenti su diritti soggettivi; cosicchè l’incompleta equiparazione del procedimento amministrativo sanzionatorio a quello giurisdizionale non viola in alcun modo la Costituzione.


In sostanza, in continuità con la citata sentenza n. 8210 del 2016 di questa Sezione, deve affermarsi che – in materia di irrogazione di sanzioni che, pur qualificate come amministrative, abbiano, alla stregua dei criteri elaborati dalla Corte EDU, natura sostanzialmente penale – gli Stati possono scegliere se realizzare le garanzie del giusto processo di cui all’art. 6 della Convenzione EDU già nella fase amministrativa (nel qual caso, nella logica di tale Convenzione, una fase giurisdizionale non sarebbe nemmeno necessaria) o mediante l’assoggettamento del provvedimento sanzionatorio applicato dall’autorità amministrativa (all’esito di un procedimento non connotato da quelle garanzie) ad un sindacato giurisdizionale pieno, di natura tendenzialmente sostitutiva, attuato attraverso un procedimento conforme alle prescrizioni dell’art. 6 della Convenzione. Nel secondo caso, non può ritenersi che il procedimento amministrativo sia illegittimo, in relazione ai parametri fissati dall’art. 6 della Convenzione, e che la successiva fase giurisdizionale determini una sorta di sanatoria di tale originaria illegittimità; al contrario, il procedimento amministrativo, pur non offrendo esso stesso le garanzie di cui all’art. 6 della Convenzione, risulta all’origine conforme alle prescrizioni di detto articolo, proprio perchè è destinato a concludersi con un provvedimento suscettibile di un sindacato giurisdizionale pieno, nell’ambito di un giudizio che assicura le garanzie del giusto processo.

Non sussiste, dunque, nessuna violazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, artt. 144 e 145, e neanche il prospettato contrasto con l’art. 6, p. 1, della Convenzione EDU proprio in ragione di quanto sopra si è precisato: il procedimento sanzionatorio in esame non partecipa della natura giurisdizionale del processo, che è solo quello che si svolge davanti a un giudice (cfr., S.U. n. 4429/2014).


Quanto alla censura di violazione della L. n. 262 del 2005, art. 24, deve essere assicurata continuità alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, la quale ha ampiamente chiarito che la norma citata non conforma il procedimento sanzionatorio qui in esame al modello del processo in senso tipico e stretto: 1) l’esercizio del contraddittorio non impone la partecipazione orale in sede decisoria, essendo il principio assicurato dalla possibilità di produrre difese scritte e documenti, nonchè i verbali delle rese dichiarazioni; 2) il diritto di difesa viene ampiamente assicurato dalla comunicazione dell’avvio del procedimento, dalla contestazione circostanziata, dalla facoltà di controdedurre e di essere ascoltato, nonchè dall’accesso alle prove (cfr., ex multis, Cass. n. 19219/2016; n. 4725/2016; n. 25141/2015).

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c., e della L. n. 689 del 1981, art. 23, e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 11.

A parere del ricorrente la Corte d’Appello di Roma ha fatto falsa applicazione delle norme in materia di oneri probatori e di valutazione delle prove in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., e dell’art. 2697 c.c..

In particolare, la Corte d’Appello ha attribuito un valore probatorio al verbale ispettivo della Banca d’Italia mentre spetta all’organo amministrativo di provare i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria avanzata. I verbali ispettivi fanno fede solo dei fatti attestati nel verbale come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti mentre tale fede privilegiata non si estende alla veridicità del contenuto dei documenti che il verbalizzante assume di aver esaminato e, ancor meno, alle sue valutazioni.


La Corte d’Appello, invece, ha respinto l’opposizione, ritenendo sussistenti i presupposti per l’erogazione della sanzione unicamente sulla base di quanto scritto nel verbale ispettivo senza che lo stesso avesse alcun documento allegato.

La stessa Corte di Cassazione ha già affermato che i verbali redatti dai funzionari fanno fede fino a querela di falso solo dei fatti attestati in loro presenza, e il materiale raccolto dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice che può valutarne l’importanza ai fini della prova ma non può addossare all’opponente l’onere di fornire la prova dell’insussistenza dei fatti a lui contestati.

Dunque, la Corte d’Appello avrebbe dovuto valutare il contenuto del verbale ispettivo in concorso con altri elementi probatori che nella specie mancavano del tutto non essendo allegato alcun altro documento.

Inoltre, il rilievo n. 8 del verbale ispettivo era stato formulato su circostanze apprese solo de relato; allo stesso modo il rilievo n. 9, formulato su circostanze di fatto che il verbalizzante aveva appreso in seguito ad ispezione di documenti neppure specificamente indicati.

La Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto sussistenti i presupposti di fatto per l’irrogazione della sanzione, ritenendo sufficiente come fonte di prova il solo verbale ispettivo, allorquando a quest’ultimo non avrebbe potuto essere attribuito neppure il valore di presunzione semplice. Infatti, in nessun caso i fatti ivi accertati erano avvenuti in presenza del funzionario dell’autorità di vigilanza o erano stati da lui compiuti. In particolare a titolo esemplificativo per il rilievo numero sei e numero otto come già detto.


3.1 Il terzo motivo è infondato.

Quanto alla censura di violazione degli artt. 115 e 116, c.p.c. il ricorrente non indica alcun omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in proposito deve richiamarsi il principio di diritto secondo il quale: “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012” (Sez. 3, Sent. n. 23940 del 2017).

Quanto alla violazione. Delll’art. 2697 c.c., e della L. n. 689 del 1981, art. 23, del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 11, la pronuncia della Corte d’Appello di Roma è conforme agli orientamenti di questa Corte circa l’efficacia probatoria nei giudizi di opposizione a sanzioni amministrative dei verbali ispettivi.

Tali verbali hanno un triplice livello di attendibilità: a) sono assistiti da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonchè quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) fanno fede fino a prova contraria quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti o da terzi e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla parte e/o da terzi; c) per tutti gli altri aspetti anche relativi all’esame della documentazione costituiscono comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disattesi solo in caso di motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore.


Dalla lettura del decreto impugnato emerge che il giudice del merito ha scrutinato il contenuto dei verbali ispettivi apprezzandoli liberamente ed operando un complessivo esame delle risultanze istruttorie sulla scorta di una motivazione priva di contraddizioni, con l’esplicita affermazione che i suddetti verbali, pur non assistiti da una presunzione di assoluta incontrovertibilità, sono caratterizzati da un elevato grado di attendibilità conoscitiva. Peraltro, la Corte d’Appello ha anche evidenziato che il ricorrente non aveva fornito alcun elemento concreto che valesse a smentire quanto verificato dall’organo di vigilanza, trincerandosi dietro una presunta impossibilità di esercizio del proprio diritto di difesa perchè, essendo cessato il rapporto con MPS, non disponeva della documentazione aziendale necessaria per contro dedurre.

Nella specie, dunque, non si è realizzata alcuna inversione dell’onere della prova, in quanto i fatti contestati erano stati puntualmente accertati.

4. Il quarto motivo di ricorso è così rubricato: omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti: la quantità marginale dei rapporti interessati dalle ritenute irregolarità.

Il ricorrente lamenta la violazione del principio di proporzionalità fra i fatti ascritti e la sanzione comminata.


Le asserite irregolarità infatti avevano riguardato una percentuale assolutamente esigua (meno del 6,5%), dei rapporti e a fronte di ciò sarebbe ingiustificato attribuire al ricorrente carenze qualificate come diffuse, sicchè anche sotto tale aspetto emergerebbe l’eccessività della sanzione. La Corte d’Appello avrebbe omesso l’esame di tali aspetti.

5. Il quinto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 145, e della L. n. 689 del 1981, art. 11.

Il ricorrente lamenta che la Corte d’Appello nel determinare la sanzione abbia fatto un generico riferimento alla L. n. 689 del 1981, art. 11, senza specificare le ragioni in base alle quali è giunta a determinare l’ammontare della sanzione concretamente irrogata.

5.1 Il quarto e il quinto motivo che, stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono infondati.

In primo luogo, deve evidenziarsi che il ricorrente con il quarto motivo, pur censurando formalmente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, chiede in realtà un’inammissibile rivalutazione del giudizio operato dalla Corte di merito circa la gravità dei fatti accertati in relazione alla sanzione irrogata.

In tema di opposizione a sanzione amministrativa, nel caso di contestazione della misura della stessa, il giudice è autonomamente chiamato a controllarne la rispondenza alle previsioni di legge, senza essere soggetto a parametri fissi di proporzionalità correlati al numero ed alla consistenza degli addebiti, e può reputare congrua l’entità della sanzione inflitta in riferimento ad una molteplicità di incolpazioni anche qualora escluda l’esistenza di alcune di esse (Sez. 2, Sent. n. 6778 del 2015). Tale valutazione, una volta riscontrata l’astratta corrispondenza dei fatti contestati all’illecito amministrativo tipizzato, si sottrae al sindacato di legittimità, dovendo il Giudice di merito valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda.


Infine, con riferimento al quinto motivo, deve evidenziarsi che esso si risolve in un’inammissibile censura sull’insufficienza della motivazione in ordine all’applicazione dei parametri di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 11.

Nella specie, invece, la Corte d’Appello ha motivato sulle ragioni del rigetto del motivo di opposizione relativo alla quantificazione della sanzione.

In particolare la Corte d’Appello ha ritenuto, in conformità con la giurisprudenza di questa Corte, che nel procedimento di opposizione a sanzione amministrativa pecuniaria la motivazione dell’ordinanza-ingiunzione in ordine alla concreta determinazione della sanzione non assume rilievo, risolvendosi semplicemente nell’esposizione dei criteri seguiti dall’autorità ingiungente per pervenire alla liquidazione della somma pretesa e dall’altro che il giudice dell’opposizione, investito della questione relativa alla congruità della sanzione, non è chiamato propriamente a controllare la motivazione dell’atto sul punto, ma a determinare la sanzione applicando direttamente i criteri previsti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11. Correttamente, pertanto, la Corte d’Appello ha escluso che l’adeguatezza della motivazione sull’entità della sanzione fosse determinante al fine di stabilire la legittimità o meno del provvedimento sanzionatorio e ha poi richiamato, sia pure solo genericamente, i parametri di cui al citato art. 11, al fine di confermare la congruità della sanzione irrogata dall’Autorità di vigilanza.


Tale motivazione, sia pure estremamente sintetica, è sufficiente ad integrare il minimum costituzionale non potendosi qualificare come inesistente o apparente.

Il Collegio, pertanto, intende dare continuità al seguente principio di diritto: “Nel procedimento di opposizione avverso le sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per violazione del TUB o del TUF, il giudice ha il potere discrezionale di quantificare l’entità della sanzione, entro i limiti edittali previsti, allo scopo di commisurarla all’effettiva gravità del fatto concreto, desumendola globalmente dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che sia tenuto a specificare i criteri seguiti, dovendosi escludere che la sua statuizione sia censurabile in sede di legittimità ove quei limiti siano stati rispettati e dalla motivazione emerga come, nella determinazione, si sia tenuto conto dei parametri previsti dalla L. n. 689 del 1981, art. 11”.

6. Il sesto motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione del D.M. giustizia 10 marzo 2014, n. 55.

Nella liquidazione delle spese la Corte d’Appello non ha tenuto conto del fatto che il procedimento di opposizione rientra nell’ambito di quelli di volontaria giurisdizione e che la tabella allegata al decreto ministeriale citato per tali procedimenti prevede una somma inferiore che, anche aumentata del 80% ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, art. 4, citato, non raggiunge la somma liquidata nel provvedimento impugnato.


9.1 Il motivo è infondato.

In tema di individuazione della natura contenziosa o di volontaria giurisdizione di un procedimento civile, ai fini della liquidazione delle spese di lite, ciò che rileva è l’oggetto del procedimento e la sua effettiva sostanza e natura. Nella specie, pertanto, deve affermarsi la natura contenziosa del giudizio che ha ad oggetto il provvedimento con il quale sono irrogate sanzioni amministrative, che si svolge in pieno contraddittorio tra le parti e che si conclude con un provvedimento il quale, pur con la forma del decreto motivato, ha natura sostanziale di sentenza ed è suscettibile di acquistare autorità di giudicato. Ne consegue che le spese di lite devono essere liquidate non già in base alla tabella n. 7 del D.M. n. 55 del 2014, del Ministero della Giustizia, concernente i procedimenti di volontaria giurisdizione, bensì a quella n. 12 del medesimo D.M. sui giudizi ordinari innanzi alla corte d’appello (Per un caso simile vedi Sez. 2, Sent. n. 10750 del 2019).

10. Il ricorso è rigettato.

11. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

12. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.


PQM


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.500 più 200 per esborsi;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato previsto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 14 novembre 2019.


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