giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Cass. pen., 5 ottobre 2020, n. 27541

commento breve a cura di Rossella Giuliano

In tema di conservazione di sostanze alimentari destinate al consumo, l’espressione “cattivo stato di conservazione” di cui all’art. 5, lett. b), l. 30 aprile 1962, n. 283 (recante la disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande) allude ad un tempo, quali parametri di giudizio, agli atti normativi ed alle regole della comune esperienza, usi e prassi: secondo un risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, il cattivo stato di conservazione delle sostanze alimentari considerato dalla disposizione incriminatrice inerisce a tutte quelle situazioni in cui le sostanze stesse – pur essendo ancora genuine e sane – si presentano mal conservate, ossia preparate, confezionate o messe in vendita senza l’osservanza delle prescrizioni dettate a garanzia della loro adeguata conservazione sotto il profilo igienico-sanitario e miranti a prevenire i pericoli della loro precoce degradazione, contaminazione o alterazione.

Trattandosi di contravvenzione, l’elemento psicologico del reato è integrato dalla mera colpa, la quale può estrinsecarsi in una condotta negligente nelle dovute verifiche sulla conformità alla normativa, nonché alle regole espressive della cultura tradizionale, delle modalità di preparazione e di somministrazione del prodotto alimentare.

L’accertamento del cattivo stato di conservazione degli alimenti può essere compiuto dal giudice di merito senza necessità del prelievo di campioni ovvero di specifiche analisi di laboratorio, potendo basarsi su dati obiettivi risultanti dalla documentazione acquisita e su convergenti dichiarazioni verbalizzate: in particolare, esso è ravvisabile nell’ipotesi di evidente inosservanza delle tecniche e cautele igieniche idonee ad assicurare che gli alimenti si mantengano in condizioni confacenti alla successiva somministrazione (nel caso di specie, nel corso di un convito nuziale).

 

Cass. Sez. Pen. 5 ottobre 2020, n. 27541
Bricchetti, pres.; Calaselice, est.

Ritenuto in fatto

1. La sentenza impugnata, emessa il 23 gennaio 2020 dal Tribunale di Bologna, a seguito di opposizione a decreto penale, ha condannato A.S. alla pena di Euro cinquemila di ammenda per la contravvenzione di cui alla L. n. 283 del 30 aprile 1962, art. 5, lett. b) e d), perché, nella veste di esercente attività di ristorazione, impiegava nella preparazione di alimenti e somministrava per il consumo, nel corso di un banchetto nuziale, sostanze alimentari in cattivo stato di conservazione, in stato di alterazione e nocive alla salute, tali da causare intossicazione.
2. Avverso il provvedimento descritto ha proposto ricorso per cassazione l’imputata, a mezzo dei difensori, deducendo, nei motivi di seguito riassunti ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., tre vizi.
2.1. Con il primo motivo si denuncia erronea applicazione ed interpretazione della L. n. 283 del 1962, art. 5.
Con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 5, lett. b), legge cit., si deduce che, per giurisprudenza di questa Corte (citando Sez. 3, n. 45701 del 11.11.2019), il cattivo stato di conservazione degli alimenti ricorre quando è accertato che le modalità siano idonee, in concreto, a determinare il pericolo di danno o il deterioramento delle sostanze. Nella specie, invece, perla ricorrente, l’istruttoria fonderebbe solo sulla deposizione degli invitati, parti civili e dunque interessate. Nè risulterebbe accertato l’alimento specifico in cattivo stato di conservazione, anche per l’assenza di analisi complete circa l’alterazione degli alimenti. Si sottolinea, poi, che non può configurarsi la responsabilità del ristoratore per alimenti serviti ma consumati a distanza di tempo dai commensali e da questi prelevati senza consenso, in assenza, quindi, di qualsiasi possibilità di controllo sullo stato di conservazione.
Infine, si deduce che in ordine alla fattispecie di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. d), contestata e ritenuta dal giudice,
non vi sarebbe alcuna motivazione.
2.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione degli artt. 40 e 43 c.p..
2.2.1. Ai fini della responsabilità per colpa è necessario accertare l’origine della contaminazione. Nella specie, invece, in mancanza di esami completi, è da escludere che la contaminazione sia avvenuta durante la lavorazione degli alimenti acquistati, tenuto, peraltro, conto che l’ispezione presso le cucine del ristorante non avevano evidenziato alcuna carenza.
2.2.2. In ogni caso si invoca la declaratoria di estinzione del reato che sarebbe intervenuta nelle more del giudizio di
cassazione (fatto commesso il (omissis) ).
2.3. Con il terzo motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. e L. n. 283 del 1962, art. 5, lett. b). Non è individuato con certezza l’alimento che ha indotto l’intossicazione avendo peraltro, gli invitati consumato la torta nuziale preparata da un invitato e, comunque, in presenza di analisi eseguite su campioni di cibo (diverso dalle crespelle) di esito negativo.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è manifestamente infondato e, comunque, inammissibile.
2. Il primo motivo è manifestamente infondato.
Con riferimento alla dedotta erronea applicazione della L. n. 283 del 1962, art. 5, comma 1, lett. b) si osserva che, secondo un risalente e consolidato orientamento di questa Corte di legittimità, il cattivo stato di conservazione delle sostanze alimentari considerato dalla disposizione incriminatrice riguarda quelle situazioni in cui le sostanze stesse, pur potendo essere ancora perfettamente genuine e sane, si presentano mal conservate, cioè preparate o confezionate o messe in vendita senza l’osservanza di quelle prescrizioni – di leggi, di regolamenti, di atti amministrativi generali – che sono dettate a garanzia della loro buona conservazione sotto il profilo igienico – sanitario e che mirano a prevenire i pericoli della loro precoce degradazione o contaminazione o alterazione (lett. b) della L. n. 283 del 1962, art. 5: Sez. U, n. 443 del 19/12/2001, dep. 2002, Butti, in motivazione, Sez. U., n. 1 del 27/09/1995, dep. 1996, Timpanaro, Rv. 203094). Con l’espressione “cattivo stato di conservazione” secondo questa Corte di legittimità, quindi, a parametro di giudizio, prima ancora che atti normativi, si pongono regole di comune esperienza, usi e prassi, espressione della cultura tradizionale.
Si è, inoltre, affermato che, in tema di disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari, ai finidella configurabilità del reato di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5, comma 1, lett. b), il cattivo stato di conservazione degli alimenti può essere accertato dal giudice di merito senza necessità del prelievo di campioni e di specifiche analisi di laboratorio, sulla base di dati obiettivi risultanti dalla documentazione relativa alla verifica e dalle dichiarazioni dei verbalizzanti, essendo lo stesso ravvisabile, in particolare, nel caso di evidente inosservanza delle cautele igieniche e delle tecniche necessarie ad assicurare che le sostanze si mantengano in condizioni adeguate per la successiva somministrazione (Sez. 3, n. 2690 del 06/12/2019, dep. 2020, Barletta, Rv. 278248). Ciò premesso, si osserva che, in tale prospettiva ermeneutica, il cattivo stato di conservazione, secondo i dati di cui dà conto la motivazione non illogica del Tribunale, è stato correttamente accertato. Invero, il giudice di merito ha preso in considerazione non solo, come dedotto, le convergenti deposizioni delle parti civili, ma soprattutto elementi di riscontro tratti dall’esito dell’esame della documentazione acquisita e delle dichiarazioni rese dai testi qualificati dell’Unità operativa profilassi e malattie infettive. Da tali risultanze è indicato essere emerso che, tra i 37 intossicati dopo la partecipazione al banchetto nuziale e, comunque, dopo aver mangiato presso il ristorante dell’imputata, vi erano persone che avevano accusato, nelle ore immediatamente successive all’ingestione, gravi disturbi gastro-intestinali o risultate affette da salmonellosi, in quanto positive ad un batterio che si trasmette proprio attraverso l’ingestione di cibi o bevande contaminate, durante la preparazione o conservazione.
Non è specifica, poi, la critica circa l’insussistenza della responsabilità del ristoratore per alimenti serviti ma consumati a distanza di tempo dai commensali e da questi prelevati senza consenso, tenuto conto che la censura non si confronta con la motivazione nella parte in cui afferma che tutti gli intossicati avevano mangiato le crespelle, così individuate come causa dei disturbi riscontrati e che, alcune di quelle affette da tossinfezione, si erano allontanate dal convivio prima del taglio della torta nuziale, portata al banchetto dagli sposi, indicata dalla Difesa come possibile alimento da cui sarebbe potuta scaturire un’intossicazione del medesimo tipo di quella accertata.
Si osserva, poi, che corretta, esauriente e non manifestamente illogica è la motivazione del Tribunale circa la sussistenza della fattispecie di chiusura di cui alla L. n. 283 del 1962, art. 5, comma 1, lett. d) (cfr. pagg. 5 e 6 della motivazione). Sicché la dedotta omessa motivazione sul punto, è censura del tutto destituita di fondamento che la mera lettura del provvedimento impugnato consente di smentire. In ogni caso l’impostazione corretta del Tribunale fa proprio l’indirizzo di questa Corte che, con riferimento ad alimenti contaminati da salmonella, ha individuato la sussistenza della contravvenzione di cui alla citata Legge, art. 5, comma 1, lett. d) (cfr. Sez. 3, n. 15998 del 12/02/2003, Scovenna, Rv. 224248).
2.1. Il secondo motivo è manifestamente infondato.
La norma incriminatrice fa divieto di detenere e vendere sostanze alimentari alterate, indipendentemente dall’indagine sulla consapevolezza del soggetto circa lo stato di alterazione degli alimenti stessi (Sez. 4, n. 7692 del 16/01/2007, Grasso, Rv. 236101).
Trattandosi di contravvenzione, è sufficiente la mera colpa che può consistere anche in una condotta negligente nelle dovute verifiche sulla conformità alla normativa del prodotto alimentare somministrato e preparato. La residua parte della censura, poi, risulta versata in fatto e devolve un riesame delle risultanze istruttorie, non consentito in sede di legittimità. 2.2. Il terzo motivo è inammissibile.
La critica non si confronta con il complesso della motivazione che valorizza, con ragionamento non manifestamente illogico, la circostanza secondo la quale tutti gli intossicati avevano consumato uno stesso alimento preparato dal ristoratore, alcuni di questi si erano allontanati prima dell’apertura della torta nuziale e, comunque, che tra i 37 intossicati vi era anche un cliente del ristorante che non aveva partecipato al banchetto. Così mostrando di aver fatto buon governo della norma sulla valutazione della prova di cui all’art. 192 c.p.p..
2.3. La declaratoria di inammissibilità del ricorso impedisce di rilevare la prescrizione del reato, ove maturata nelle more del giudizio di legittimità. Va ricordato che, nella consolidata interpretazione di questa Corte, un ricorso per cassazione inammissibile, per manifesta infondatezza dei motivi o per altra ragione, “non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. ” (Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, De Luca, Rv 217266; Sez. 5, n. 15599 del 19/11/2014, Zagarella, Rv. 263119; Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Ciaffoni, Rv. 256463; Sez. 4, n. 18641 del 20/01/2004, Tricorni) cosicché è preclusa la dichiarazione di prescrizione del reato ove maturata dopo la pronuncia della sentenza in grado di appello.
3. Segue alla pronuncia, la condanna della ricorrente alle spese processuali, nonché al pagamento dell’ulteriore somma indicata in dispositivo, in favore della Cassa delle ammende, non ricorrendo le condizioni previste dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, importo che si ritiene di determinare equitativamente, tenuto conto dei motivi devoluti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

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