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Cass. Pen., sez. IV, 12 novembre 2018, n. 51321

Non esonera il datore di lavoro dalla sua responsabilità la condotta negligente del lavoratore intento a depositare materiale inerte presso l’area di stoccaggio secondaria della cava, il quale, avvicinatosi eccessivamente al ciglio della suddetta area con l’autocarro all’interno del quale stava lavorando, faceva franare la parte del ciglio interessata, precipitando così lungo la scarpata e trovandovi la morte.
Ciò in quanto il suo comportamento non è anomalo rispetto alle mansioni attribuitegli né assolutamente imprevedibile rispetto alla tipologia dell’attività e alle caratteristiche del luogo, ben potendosi prevedere che qualcuno degli autisti che dovevano scaricare il materiale, nell’avvicinarsi al ciglio della scarpata, potesse errare nel mantenere la debita distanza di sicurezza dal predetto ciglio, soprattutto dovendo procedere in retromarcia per effettuare lo scarico.

 

Violazione delle misure di sicurezza dal parte del lavoratore e ripartizione delle responsabilità penali

 

Presidente: MENICHETTI CARLA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 09/10/2018

 

Fatto

1. La Corte di Appello di Roma, pronunciando nei confronti degli odierni ricorrenti, T. M. e B. M., e del coimputato Z. G., con sentenza del 16/3/2016, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, emessa in data 1/2/2011, appellata dal PM, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di T. M. per il reato di cui al capo A) perché estinto per prescrizione ed ha dichiarato entrambi gli imputati (ed anche il coimputato Z., non ricorrente) responsabili del reato di cui al capo B) e concesse loro le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante contestata, li ha condannati alla pena di mesi 8 di reclusione ciascuno, nonché al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite da liquidarsi in separata sede e alla rifusione delle spese di entrambi i gradi del giudizio, con concessione dei benefici di legge agli imputati T. M. e Z. G.
Il Tribunale di Roma, aveva assolto perché il fatto non sussiste, T. M, B. M e Z. G, dalle seguenti imputazioni:
• T. M.
a) del reato p. e p. dagli artt. 9, 2° comma lett. b) , 104, 2° comma lett. a) del D.Lgs. n.624/96 perché quale amministratrice della soc. SO.GE.CA s.r.l, esercente la cava di sabbia e ghiaia sita in località Castel Malnome, ove veniva convogliato materiale sabbioso-ghiaioso prelevato da cave confinanti, ad opera sia di dipendenti che di ditte esterne, ometteva di redigere un DSS (Documento di sicurezza e salute) coordinato, relativo alle operazioni di trasporto e deposito del materiale predetto, individuando puntuali e concrete misure di prevenzione e protezione e le modalità di attuazione del coordinamento. Il DSS esibito dalla T. deve ritenersi mera replica del contenuto delle leggi in materia, senza specifica individuazione di cautele appropriate al caso concreto
• T. M, B. M. (Z.G.)
b) del reato p. e p. dagli artt. 41 e 589 cod. pen. perché con contributi causali autonomi, T. M. quale datore di lavoro come meglio descritto nel capo sub a), B. M., quale direttore dei lavori, (Z. G, quale sorvegliante dei lavori) relativi al deposito del materiale sabbioso- ghiaioso prelevato dalla cava confinante a quella esercita dalla SO.GE,CA. S.R.L., provocavano la morte di O. P. per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché nella violazione della normativa in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro ed in particolare perché, tenendo le condotte rispettivamente attribuite come segue:
• T. M, tenendo la condotta di cui al capo a),
• B. M., quale direttore dei lavori di deposito come meglio descritti nel capo che precede, non pianificando le attività da svolgersi nell’area di stoccaggio dei materiali sabbiosi-ghiaiosi, attraverso controlli e ordini di servizio, in modo da garantire che l’utilizzo dei trasporti sull’area di stoccaggio secondario avvenisse in sicurezza (art.52, 2° comma lett. a e b D.L.vo 624/96),
(Z.G, quale sorvegliante dei lavori in parola, non provvedendo a sospendere l’esecuzione dei lavori che non si svolgevano in sicurezza (art. 7 DPR n. 128/59);
consentivano che O. P., intento a depositare materiale inerte presso l’area di stoccaggio secondaria della cava gestita dalla soc. SO.GE.CA. S.R.L., scaricandolo dal proprio autocarro Fiat *** targato Roma ********, avvicinandosi eccessivamente al ciglio dell’area di stoccaggio, facesse franare, sotto il peso del mezzo, la parte del ciglio interessata, ciò a causa della forte inclinazione della scarpata, interessata tra l’altro da aggrottamenti e dissesti gravitativi, con conseguente precipitazione e ribaltamento dell’autocarro, all’Interno del quale l’O. stava lavorando, trovandovi la morte.

 

In Roma il 6.9.2006
2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo dei propri difensori di fiducia, ciascuno con proprio atto, T. M. e B. M., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’ art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
• T. M
Con il primo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione in quanto ritiene che il giudice di appello pur partendo da un’esatta ricostruzione della causa del sinistro, riconduca in maniera illogica ed erronea la responsabilità della stessa alla T., quale datore di lavoro.
La sentenza impugnata – si duole la ricorrente – assume che il comportamento dell’ O., in ragione delle mansioni e della tipologia dei luoghi e dell’attività, non possa considerarsi anomalo ed imprevedibile, senza però supportare tale affermazione con adeguata motivazione, anzi omettendo qualsiasi argomentazione sulle procedure operative svolte dalla vittima e sulla sua capacità ed esperienza. Su tali circostanze, invece, si era ampiamento soffermato il giudice di primo grado evidenziando l’assoluta ingiustificabilità della manovra compiuta dall’O. nell’ambito del contesto in cui operava.
Il tribunale aveva evidenziato che lo scarico del materiale avveniva su un piazzale posto sulla sommità di una collinetta e che i mezzi giunti in retromarcia per lo scarico procedevano in direzione della scarpata fino ad arretrarsi ad una distanza non inferiore ad otto metri dal ciglio, per poi effettuare lo scarico.
Lo stesso tribunale aveva accertato che i preposti alla sicurezza, Z. e B. avevano dato idonee indicazioni per lo svolgimento delle operazioni in sicurezza anche attraverso un ordine di servizio. I contenuti di tale ordine erano ben noti ai lavoratori e concretamente rispettati, a prescindere dalla sottoscrizione apposta sullo stesso ordine.
Pertanto, alla luce dell’insussistenza di una prassi lavorativa incurante delle condizioni di sicurezza, in primo grado veniva ritenuta inspiegabile la condotta del lavoratore con conseguente assenza di responsabilità del datore di lavoro.
La Corte territoriale, invece, senza contraddire o smentire il ragionamento del primo giudice, si baserebbe su un presupposto di segno contrario affermato in modo del tutto apodittico.
Nessun riscontro argomentativo sarebbe stato fornito sull’affermata tipicità della condotta dell’ O., soffermandosi l’impugnato provvedimento unicamente sull’analisi dei dispositivi di sicurezza adottati dalla So.ge.ca. e sulla valutazione della loro efficacia ai fini della prevenzione.
Quest’ultima valutazione sarebbe stata operata sulla base di dati che nulla rileverebbero ai fini dell’apprezzamento della condotta dell’ O. e richiamati al solo fine di dimostrare l’inefficacia della misure di sicurezza.
Per il difensore della ricorrente il grave errore motivazionale consisterebbe nella mancata considerazione delle ampie argomentazioni del primo giudice, così evitando di verificare la correttezza del ragionamento che ha determinato il giudizio di condanna. Ed invece tale conclusione avrebbe meritato una rigorosa descrizione dell’iter logico seguito proprio perché tesa a superare una pronuncia assolutoria.
Con il secondo motivo di ricorso deduce altro vizio di motivazione in quanto il provvedimento impugnato avrebbe affermato la penale responsabilità della T. enfatizzando l’inadeguatezza del Documento di Sicurezza e Salute e dei presidi antinfortunistici apprestati dalla So.ge.ca. con riferimento alla particolare attività lavorativa svolta dalla vittima. Tali rilievi, però, deriverebbero da un palese travisamento delle prove acquisite e da una analisi superficiale degli elementi a discarico.
In particolare, sarebbe stata omessa la valutazione di circostanze ritenute decisive dal tribunale, che aveva ritenuto l’adeguatezza delle misure di prevenzione adottate dalla società per lo svolgimento in sicurezza delle mansioni affidate all’O..
La Corte distrettuale avrebbe invece ritenuto il DSS inadeguato e carente rispetto alle concrete esigenze di sicurezza richieste, in quanto non avrebbe preso in considerazione un rischio – il ribaltamento del mezzo di trasporto – assolutamente prevedibile in considerazione dell’attività produttiva svolta e dei luoghi di lavoro. Inoltre i giudici di appello disattendono le considerazioni del consulente di parte, escludendo che l’attività dell’O. potesse essere ricondotta nell’ambito di operatività della scheda “Movimentazione materiali” del DSS, in quanto tale scheda si riferisce alla sola attività di carico, nulla specificando sullo scarico di materiale. Così come viene ritenuto per la sezione del DSS rubricata “stoccaggio del materiale e carico sul camion” nel quale non sono considerate né l’attività di scarico né il rischio di caduta dal ciglio dell’area di stoccaggio. Tali conclusioni, però, sarebbero smentite dalle risultanze probatorie, emerse inequivocabilmente nel giudizio di primo grado e totalmente ignorate dal giudice d’appello.
Si sostiene che, in realtà, come emerso dall’Istruttoria, la T., in veste di datore di lavoro, aveva adottato un DSS contenente le necessarie prescrizioni per lo svolgimento in sicurezza di tutte le attività produttive della cava, avvalendosi della collaborazione del B., responsabile del servizio prevenzione e protezione e direttore dei lavori.
Proprio con riferimento all’attività svolta dall’O., in ricorso si sottolinea che il consulente della difesa aveva evidenziato l’esistenza nel DSS della scheda “movimentazione materiale”, che individuava espressamente, quale rischio grave, alto e probabile, il cedimento del fondo stradale con conseguente ribaltamento dell’automezzo e pericolo per l’autista e per gli operai. Il B. aveva curato l’ordine di servizio del 26/4/2006, costituente parte integrante del DSS e specificamente volto a prevenire i rischi evidenziati nella scheda indicata.
Tale ordine imponeva che le operazioni di scarico del materiale avvenissero ad una distanza di almeno 8 metri dal ciglio della scarpata, al fine di assicurare lo svolgimento delle operazioni di scarico in sicurezza e inibire il rischio di caduta nella scarpata.
Pertanto, a fronte della univocità del predetto compendio probatorio, il giudizio della Corte capitolina sull’inadeguatezza del DSS per l’omessa valutazione del rischio di ribaltamento del mezzo impegnato nelle attività di scarico, non può che essere frutto di una parziale analisi delle risultanze istruttorie, che ha assolutamente tralasciato l’esistenza dell’ordine di servizio richiamato.
La ricorrente evidenzia, inoltre, un ulteriore vizio della motivazione laddove illustra i vari processi produttivi, in più occasioni chiamati in causa per ribaltare le conclusioni del Tribunale sulla adeguatezza del DSS.
La Corte distrettuale afferma infatti che le mansioni dell’O. non potevano essere ricondotte fra quelle previste dalla scheda del DSS, introducendo un confronto fra le mansioni dell’O. e l’attività di coltivazione, prevista dal documento di prevenzione in relazione al pericolo di ribaltamento.
Tali argomentazioni verrebbero, tuttavia, illustrate dal giudice d’appello senza descrizione delle caratteristiche basilari di ognuna delle attività produttive menzionate, incorrendo così in un palese vizio di motivazione.
La mancata descrizione delle indicate attività lavorative impedirebbe, infatti, di verificare se effettivamente le due tipologie di mansioni presentino profili di analogia tali da giustificare un confronto fra i diversi sistemi di sicurezza apprestati e di comprendere se tale diversità non sia semplicemente il frutto della necessità di far fronte a diverse esigenze di sicurezza, piuttosto che un errore valutativo, frutto di superficialità nella redazione del DSS.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione per travisamento della prova e omessa valutazione di dati decisivi nell’apparato motivazione del giudice di primo grado, con riferimento al passaggio della sentenza nella quale si afferma che l’O. verosimilmente non avesse contezza del DSS e, quindi, delle misure di sicurezza previste.
La ricorrente rileva che il provvedimento impugnato adduce una serie di elementi di natura prettamente formale relativi alla mancata sottoscrizione da parte dell’O. del DSS, all’incongruenza fra quanto riportato nel DSS circa la produzione da parte della vittima del POS e l’insussistenza di tale piano fra i documenti menzionati dal consulente della difesa nella propria relazione e, infine, alla mancanza della ricevuta del DSS da parte della ditta dell’O..
Tali elementi, secondo la difesa, non consentirebbero di dimostrare con certezza che il lavoratore non avesse preso parte alla formazione del DSS e che non ne avesse conoscenza, come, del resto, affermerebbe la stessa sentenza impugnata limitandosi ad esprimersi sul punto in termini di semplice “sospetto”.
Sospetto che, secondo la ricorrente, sarebbe facilmente stato superato con una completa disamina delle risultanze dibattimentali.
In particolare, dalle dichiarazioni dei testi D. L e P., colleghi della vittima, impegnati nelle attività di scarico svolte prima di quella effettuata da quest’ultima. Entrambi, infatti, avrebbero dichiarato di avere ricevuto istruzioni per lo scarico, compresa quella di non avvicinarsi al ciglio per almeno 7/8 metri.
Sulla base di tali dichiarazioni il giudice di primo grado aveva dedotto che i dipendenti fossero a conoscenza dei contenuti dell’ordine di servizio e delle prescritte misure di sicurezza, posto che effettivamente le stesse venivano comunque rispettate, come dimostrato dagli scarichi precedenti a quello dell’O., effettuati ben oltre la distanza minima richiesta. Inoltre -continua la ricorrente- non solo dalle testimonianze dei lavoratori non erano emerse prassi distorte e irrispettose delle prescrizioni di sicurezza, ma l’istruttoria dibattimentale non aveva evidenziato nemmeno profili di criticità e di allarme sottolineati dai lavoratori impegnati nelle operazioni di scarico.
Tali dati, unitamente alla circostanza che l’O. lavorava da anni per conto della So.ge.Ca., risultando certamente conoscitore dei luoghi ed esperto nelle peculiari manovre richieste dall’attività produttiva svolta, erano stati correttamente valorizzati dal primo giudice con una linearità logico-giuridica che la decisione di appello ignora disattendendone le conclusioni senza argomentazioni contrarie.
Aggiunge la ricorrente che il tribunale, senza accantonare la circostanza che i lavoratori non avessero concretamente visionato e letto l’ordine di servizio nel suo percorso motivazionale l’aveva superata con il dato probatorio dirimente, incentrato sul fatto che i contenuti dell’ordine di servizio erano noti a tutti i trasportatori, a prescindere dal fatto che questi lo avessero effettivamente letto e visionato al momento della sottoscrizione.
Il giudice del gravame, invece, pur di affermare la mancata consapevolezza da parte dell’O. del DSS e delle misure di sicurezza, fonderebbe il proprio convincimento sulla base di meri sospetti, incorrendo in un grave errore metodologico e in un conseguente vizio di motivazione.
Con il quarto motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione con riferimento all’analisi delle misure di sicurezza predisposte dalla So.ge.Ca. a tutela dei rischi sottesi all’attività affidata all’O.
Sul punto la corte di appello affermerebbe la totale assenza sul luogo del sinistro di presidi di sicurezza mobili e fissi, senza considerare la capacità preventiva e dissuasiva della distanza di sicurezza imposta dall’ordine di servizio sopra ricordato e insistendo sull’esistenza di una responsabilità del datore di lavoro conseguente all’omessa predisposizione delle misure di sicurezza.
Le conclusioni della corte di appello sarebbero, secondo la tesi sostenuta in ricorso, del tutto illogiche e contraddittorie, in quanto gli stessi strumenti di cui la Corte d’appello censura l’assenza non avrebbero certamente garantito la sicurezza pretesa, come ampiamente affermato dal Tribunale con un’attenta analisi dell’Istruttoria dibattimentale dalle quale era emerso che tutte le misure invocate dal giudice d’appello fossero inidonee a porre rimedio alla manovra errata dell’O., oltre che incompatibili rispetto alla attività produttiva svolta. Tanto è vero che il primo giudice aveva dichiarato l’inesigibilità di una loro adozione nel caso concreto e la loro inadeguatezza a impedire eventi analoghi a quello in esame.
La ricorrente insiste nella necessità del rispetto della distanza di 8 metri dal ciglio e nella facilità del rispetto da parte lavoratore di tale prescrizione attraverso l’utilizzo degli specchietti retrovisori, evidenziando che l’assenza di segni di frenata e il rinvenimento della retromarcia ingranata sarebbero indice del mancato avvio della procedura di scarico.
Pertanto, conclude che se il lavoratore non ha rispettato le procedure, omettendo di utilizzare gli specchietti retrovisori, sarebbe del tutto illogico ritenere che l’apposizione di nastri o segnalazioni potesse prevenire il rischio di ribaltamento di un autocarro che procede carico di materiale sabbioso.
Infine, rileva che le barriere costituite da cumuli di sabbia, citate dall’impugnato provvedimento, non solo sarebbero state incompatibili con l’attività lavorativa, ma avrebbero potuto costituire fonte di un ulteriore rischio.
La ricorrente lamenta inoltre che i giudici del gravame avrebbero analizzato solo quanto affermato in sede di rinnovazione istruttoria in appello, disattendendo quanto invece emerso nel primo grado di giudizio, all’esito delle dichiarazioni dei medesimi testi. Tale circostanza getterebbe un’ombra sulla loro credibilità.
Con il quinto motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione per travisamento delle prove laddove l’impugnato provvedimento afferma la sussistenza di responsabilità della T. anche per non aver adeguatamente controllato il costante rispetto da parte dei lavoratori delle direttive impartite dai preposti alla sicurezza.
Sul punto vi sarebbe una completa incongruenza ed incoerenza delle conclusioni della corte d’appello rispetto alle risultanze dell’Istruttoria dibattimentale.
Non sarebbe comprensibile in che modo la T. dovesse garantire il rispetto delle predette regole e misure dal momento che non è emersa, al di là della condotta dell’O. nel giorno del sinistro, alcuna violazione delle stesse.
La ricorrente sostiene di avere predisposto il DSS avvalendosi della collabo-razione del B. e utilizzando i POS forniti dai lavoratori e di aver garantito che sullo svolgimento delle vigilassero un direttore dei lavori e responsabile della sicurezza, il B., e un sorvegliante, Z.
Dall’esame dibattimentale dei trasportatori sarebbe emerso che tutti avevano conoscenza delle disposizioni contenute nell’ordine di servizio e che svolgevano l’attività lavorativa nel rispetto delle stesse, come sarebbe confermato dalle modalità con cui si sono svolti gli scarichi che hanno preceduto quello mortale dell’O.
Né sarebbero mai pervenute da parte dei lavoratori perplessità o critiche circa le modalità prescelte per lo svolgimento di quella particolare attività lavorativa.
Giustamente, continua la ricorrente, il tribunale avrebbe escluso la sussistenza presso la cava della So.ge.ca. di una prassi distorta e pericolosa tale da richiedere un intervento correttivo da parte, dei soggetti a ciò preposti, mentre il giudice del gravame, avrebbe smentito la conclusione del primo giudice ponendo alla base del suo ragionamento un modello di vigilanza del tutto inesigibile nei moderni sistemi produttivi.
Non sarebbe, infatti ragionevole chiedere al datore di lavoro di prestare una continua sorveglianza sull’esecuzione di ogni attività e sul rispetto delle disposizioni antinfortunistiche, e di affiancare un preposto a ogni singolo lavoratore impegnato in mansioni richiedenti la prestazione di una sola persona ovvero di organizzare il lavoro in modo tale da moltiplicare verticalmente i controlli fra i dipendenti.
Con il sesto motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione agli artt. 40 e 41 cod. pen.
La ricorrente lamenta la mancata applicazione del combinato disposto degli artt. 40 e 41 cod. pen., atteso il mancato riconoscimento dell’interruzione del nesso di causalità fra le condotte ascritte agli imputati e l’evento, dovuta proprio all’esorbitanza dell’azione dell’O.
Ancora una volta fa riferimento all’abnormità della condotta del lavoratore, rilevando l’errato convincimento della corte distrettuale sull’assenza di anomalie nella condotta dell’O., mentre dall’istruttoria dibattimentale sarebbe emersa l’esorbitanza della manovra compiuta rispetto al processo produttivo.
La ricorrente sottolinea nuovamente che il DSS avesse previsto il rischio di ribaltamento nonché l’esistenza dell’ordine, conosciuto dai dipendenti, di non av-vicinarsi a più di 7/8 metri e l’idoneità di tale misura, con un corretto utilizzo degli specchietti retrovisori esterni, a fronteggiare il pericolo di caduta.
Tali elementi sarebbero stati correttamente valutati dal primo giudice, mentre il giudice di appello non si sarebbe avveduto della circostanza che il lavoratore aveva alterato completamente la procedura di scarico spingendosi a una distanza non richiesta e non avendo azionato il meccanismo per effettuare lo scarico, verosimilmente intenzionato a effettuarlo direttamente lungo la scarpata. Condotta questa mai richiesta e mai effettuata dai lavoratori, a prescindere dal fatto che esistesse o meno nei pressi della collinetta la pala per livellare il materiale sabbioso.
Aggiunge che in quella mattinata nel piazzale vi erano stati due soli scarichi e che, quindi, lo spazio per il posizionamento dei mezzi era ampio e non vi era nessuna necessità di effettuare una manovra rischiosa.
Inoltre, il provvedimento impugnato non avrebbe minimamente valutato la comprovata esperienza del lavoratore e la sua perfetta conoscenza dei luoghi di lavoro e della manovra da compiere sulla sommità della collina, per essere stata la stessa reiterata in molteplici occasioni lavorative.
Pertanto, conclude che la manovra compiuta dall’O. non può essere ritenuta coerente e prevedibile rispetto all’attività produttiva, integrando, invece, gli estremi delle condotte lavorative c.d. “esorbitanti”, ritenute idonee ad escludere la responsabilità del datore di lavoro in materia di sinistri.
Aggiunge ancora che nel caso di specie ricorrerebbero tutte le circostanze per una corretta valutazione della sussistenza del nesso di causalità, ossia l’analisi del rischio derivante dallo svolgimento del lavoro su un piazzale rialzato, l’adozione di concrete misure idonee a svolgere il lavoro in sicurezza e l’assoluta esorbitanza ed imprevedibilità della condotta del lavoratore, del tutto contrastante con le prescritte misure antinfortunistiche.
Dati questi che, sulla base di una corretta applicazione degli art. 40 e 41 cod. pen. avrebbero dovuto determinare il riconoscimento della sussistenza nella vicenda in esame di una condotta imprevedibile, eccezionale ed avventata del lavoratore, del tutto illogica rispetto al processo produttivo e, dunque, tale da costituire una causa sopravvenuta e da sola sufficiente a determinare l’evento mortale.
Con il settimo motivo di ricorso si deduce violazione e vizio di motivazione in relazione all’art. 533 cod. proc. pen.
Il difensore della ricorrente si duole della mancata valutazione delle prove a discarico inequivocabilmente acquisite.
La corte di appello si sarebbe limitata a fornire una diversa lettura del compendio probatorio esaminato dal tribunale, non risultando dirimenti e innovative le sopravvenute circostanze emerse all’esito della rinnovazione dell’istruttoria di-battimentale. In tal modo sarebbe stato violato il principio sancito dall’alt. 533 comma 1 cod. proc. pen., secondo cui la sentenza di condanna può essere pronunciata solo se l’imputato «risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio».
Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata.
• B.M.
Con il primo motivo di ricorso deduce violazione di legge in relazione agli artt. 41 e 589 cod. pen. e 9, 20 comma, lett. B), 104, 20 comma lett. A), D.L.vo 624/96, e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità.
Il ricorrente rileva che il provvedimento impugnato afferma, in punto di fatto, che il sinistro è da ricondurre ad una condotta errata della vittima O. P., che era alla guida del camion per non essersi lo stesso mantenuto alla distanza di sicurezza dal ciglio della scarpata “tanto non sussistendo prove certe di una frana che, sorprese la vittima prima di raggiungere tale limite di sicurezza”.
Tale considerazione, confermerebbe, quanto emerso dall’istruttoria, ossia che il camion non è caduto a seguito di un crollo del ciglio e/o della parete, che non è mai avvenuto, e che la vittima non solo non si è mantenuto a distanza di sicurezza, ma ha continuato a velocità elevata, senza alcuna frenata.
Tali circostanze escluderebbero, sostiene il ricorrente, la stessa contestazione, fondata su un asserito crollo del ciglio dell’area di stoccaggio, con frana causante la caduta del mezzo.
In tal senso non sarebbe emersa nessuna prova, anzi sarebbe stata acquisita la prova contraria della inesistenza degli asseriti “aggrottamenti e dissesti gravitativi”.
Rileva ancora il ricorrente che dalla rinnovazione della istruttoria dibattimentale in riferimento ai due ispettori minerari, T. G. e C. F., non sarebbe emersa alcuna differenza rispetto alla precedente deposizione pienamente confermata, relativamente alla assoluta sufficienza della distanza prevista per lo scarico del materiale degli autocarri. Gli ispettori minerari hanno poi confermato di non aver elevato contravvenzione alcuna né altre pretese violazioni, entrambi facendo riferimento o ad una “sorveglianza più attiva” o a segnalazioni efficaci, ed escludendo la possibilità di porre in essere presidi fissi.
Aggiunge quindi il B. che la stessa logica impone che eventuali presidi mobili non possano impedire il passaggio di un mezzo, procedente a velocità sostenuta, senza freni e con la marcia indietro ingranata al momento del precipitare.
Rileva che le difese degli imputati avrebbero richiesto, sia in sede di indagine che di udienza preliminare, e, subordinatamente, anche in appello, procedersi all’esame del mezzo, ritrovato con la retromarcia inserita e il cassone non ribaltato, del quale non si conosce né lo stato di funzionamento, né l’esistenza di guasti.
Pertanto, assolutamente erronea sarebbe stata l’applicazione delle norme in tema di responsabilità, dal momento che è stata riconosciuta la sussistenza di un “autonomo contributo causale” del B., cui sono stati attribuiti dei comportamenti, frutto di mere ipotesi, assolutamente non risultanti, ma, al contrario, negati, se non assolutamente contestati.
Il B., si precisa, rivestiva la carica di direttore dei lavori, che, come tale, non ha alcun obbligo di costante presenza in loco, rimessa al sorvegliante, mentre sarebbe certa la predisposizione dell’ordine di servizio, riconosciuto noto anche dall’O. che gestiva un’autonoma piccola Cooperativa, di cui era rappresentante.
La circostanza che l’ordine di servizio fosse conosciuto dall’O. sarebbe assolutamente pacifica e documentata pertanto è assolutamente pacifico, sia per il ruolo dello stesso O., sia per la circostanza che tutti hanno ammesso come avesse già effettuato numerosi trasporti e scarichi di materiale in loco, sicché apparirebbe del tutto gratuita la osservazione della corte di appello sulla circostanza che “non risulta firmato per ricevuta e conoscenza” l’ordine di servizio.
Del resto, si evidenzia che la stessa corte di appello trascura che, prima dell’O., altri avevano effettuato gli scarichi, pochissimo tempo prima, alla distanza prevista e rilasciando cumuli di materiali aventi anche la funzione, oltreché di sicurezza, di segnalare le distanze previste.
In ogni caso, aggiunge poi, la sorveglianza giornaliera spettava al sorvegliante. E, del resto, l’impugnato provvedimento contraddittoriamente riconosce la responsabilità del sorvegliante Z.G. per non aver sospeso i lavori, avvenuti in una situazione di rischio e non aver sorvegliato l’esecuzione dell’attività di scarico con la propria presenza.
Pertanto in tal caso, non potrebbe ravvisarvi una responsabilità del B., che una volta impartite le disposizioni anche al sorvegliante, non poteva certamente avere l’obbligo di presiedere alle singole operazioni.
Infine aggiunge il ricorrente, nel caso di specie l’errore della vittima, peraltro contraddittoriamente riconosciuto, sarebbe stato del tutto eccezionale ed anomalo, in quanto l’autocarro era di sua proprietà e l’incidente è avvenuto per l’utilizzo assolutamente imprevedibile e non ipotizzabile, consistente in una marcia indietro ad altissima velocità, senza l’uso né dei freni né dei dispositivi di sicurezza dello stesso mezzo.
Mentre assolutamente inutili sarebbero stati i richiamati “presidi fissi” quali “ostacoli” o “parapetti”, oltre che impossibili da fissare sul fronte sempre in movimento della scarpata.
In relazione al documento di sicurezza e salute, oggetto del reato imputato alla sola T. e oggi prescritto, precisa che dallo stesso documento risultavano riportate, tutte le regole ed i rischi per le manovre delle macchine operatrici e “l’elevata velocità dei camion”!
Pertanto sotto tale profilo vi sarebbe, nell’impugnato provvedimento, sia in riferimento all’art. 589 c.p., e 9, 2° comma lett. B) e 104, 2° comma lett. A) D. Lgs 624/1996, un’evidente inosservanza ed erronea applicazione di legge.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione di legge in relazione alla mancata applicazione della sospensione condizionale della pena per erroneo riferimento al secondo comma n. 1 dell’art. 164 cod. proc. pen. risultante dalla certificazione in atti del certificato generale del casellario giudiziario e del certificato dei carichi pendenti della Procura della Repubblica di Viterbo.
La Corte distrettuale avrebbe ritenuto di non applicare al solo B. il beneficio della sospensione condizionale a causa dei “precedenti penali risultanti dal casellario giudiziale”. Rileva, tuttavia, il ricorrente che, oltre a considerare che non ci sono precedenti condanne, va evidenziato come per entrambi i precedenti vi siano state sentenze di assoluzione.
Quindi il beneficio andava applicato, essendo la possibilità di ottenere il beneficio impedita solo dall’eventuale esistenza di una precedente condanna a pena detentiva per delitto.
Chiede, pertanto, l’annullamento senza rinvio o, in subordine, con rinvio, della sentenza impugnata.
3. In data 3/10/2018 è stata presentata memoria nell’interesse delle costituite parti civili C. S., O. L. e O. E., a firma del comune difensore di fiducia, con la quale si controdeduce in relazione ai motivi di ricorsi proposti dagli imputati e si chiede respingersi l’impugnazione, per l’effetto confermando la sentenza della corte di appello anche per le statuizioni civili, con condanna alle ulteriori spese.

Diritto

1. I motivi sopra illustrati sono infondati e, pertanto, i ricorsi vanno rigettati.
2. Il provvedimento impugnato con logica e coerente motivazione, attraverso la rinnovazione istruttoria e un’attenta analisi della motivazione della sentenza di assoluzione di primo grado, giunge alla dichiarazione di responsabilità degli odierni ricorrenti facendo buon uso dei principi in materia di c.d. “motivazione rafforzata”.
Va ricordato, infatti, che è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità quello secondo cui, per la riforma di una decisione assolutoria, non è sufficiente una diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, ma occorre che la sentenza di appello abbia una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto.
Com’è stato analiticamente ribadito in un condivisibile, arresto di questa Corte (Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014 dep. il 2015, Di Vincenzo, Rv. 261556) la radicale riforma, in appello, di una sentenza di assoluzione non possa essere basata su valutazioni semplicemente diverse dello stesso compendio probatorio, qualificate da pari o persino minore razionalità e plausibilità rispetto a quelle sviluppate dalla sentenza di primo grado, ma debba fondarsi su elementi dotati di effettiva e scardinante efficacia persuasiva, in grado di vanificare ogni ragionevole dubbio immanente nella delineatasi situazione conflitto valutativo delle prove. E, ancora di recente, si è ribadito che la decisione del giudice di appello, che comporti la totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza ovvero dell’incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa, convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (…) il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha dunque l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, -ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti (Sez. 3 n. 19322 del 20/1/2015, Ruggeri, Rv. 263513).
Il giudizio di condanna presuppone la certezza processuale della colpevolezza, mentre all’assoluzione deve pervenirsi in tutti quei casi in cui vi sia la semplice “non certezza” – e, dunque, anche il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza (così Sez. 6, n. 20656 del 22/11/2011, dep. il 2012, De Gennaro ed altro, Rv. 252627).
Nello specifico, il principio in ragione del quale la sentenza di condanna deve essere pronunciata soltanto “se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, formalmente introdotto nell’art. 533 cod. proc. pen., comma 1, dalla L. n. 46 del 2006, “presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza” (Sez. 6, n. 40159 del 3/11/2011, Galante, Rv. 251066, e n. 4996 del 26/10/2011, dep. il 2012, Abbate ed altro, Rv 251782).
Perché possa addivenirsi alla riforma in appello di una assoluzione deliberata in primo grado non è, pertanto, sufficiente prospettare una ricostruzione dei fatti connotata da uguale plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, bensì è necessario che la ricostruzione in ipotesi destinata a legittimare – in riforma della precedente assoluzione – la sentenza di condanna sia dotata di “una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza” (così la citata Sez. 2 n. 677/2015).
3. Ebbene, se questi sono i principi giuridici di riferimento, la Corte territoriale pare fare buon governo degli stessi.
La Corte capitolina -in ciò ha ragione di ricorrente- parte dall’assunto che, in fatto, il sinistro occorso all’O., sia stato causato anche da un suo comportamento imprudente, circostanza di cui evidentemente terrà conto il giudice civile nella quantificazione del danno.
La sentenza, tuttavia, correttamente si colloca nell’alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità (cfr. ex multis questa Sez. 4 n. 7364 del 14/1/2014, Scarselli, Rv. 25932l) secondo cui non esclude la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all’evento, quando questo sia riconducibile comunque all’insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal tale comportamento imprudente. (Fattispecie relativa alle lesioni “da caduta” riportate da un lavoratore nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità del datore di lavoro che non aveva predisposto un’idonea impalcatura – “trabattello” – nonostante il lavoratore avesse concorso all’evento, non facendo uso dei tiranti di sicurezza).
Il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all’incolumità fisica dei lavoratori – si è peraltro affermato in altre condivisibili pronunce- ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e, comunque, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (Sez. 4, n. 37986 del 27/6/2012, Battafarano, Rv. 254365; conf. Sez. 4, n. 3787 del 17/10/2014 dep. il 2015, Bonelli, Rv. 261946 relativa ad un caso in cui la Corte ha ritenuto non abnorme il comportamento del lavoratore che, per l’esecuzione di lavori di verniciatura, aveva impiegato una scala doppia invece di approntare un trabattello pur esistente in cantiere).
In tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore, (vedasi per tutte questa Sez. 4, n. 16397 del 5/3/2015, Guida, che ha escluso l’abnormità della condotta del lavoratore, il quale, impegnato nell’installazione di un ascensore, era caduto mettendo il piede in fallo, così battendo la testa e decedendo, dopo essersi sganciato dall’imbracatura di sicurezza per meglio eseguire i lavori di sua competenza, atteso che le modalità esecutive da lui adottate rientravano nel novero delle violazioni comportamentali che i lavoratori perpetrano quanto ritengono di aver acquisito competenza ed abilità nelle proprie mansioni)
In altri termini, l’esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l’evento morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento. (Sez. 4, n. 23292 del 28/4/2011, Millo ed altri, Rv. 250710 che ha precisato essere abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, e che tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli).
4. Il provvedimento impugnato, con motivazione priva di aporie logiche, offre una corretta applicazione del principio conformemente affermato da questa Corte di legittimità in relazione al concetto di comportamento abnorme del lavoratore tale da risultare assolutamente imprevisto ed imprevedibile e da collocarsi al di fuori della sfera di responsabilità del datore di lavoro, interrompendo il nesso di causalità tra la condotta e l’evento dannoso.
Nel caso che ci occupa certamente non può definirsi abnorme il comportamento del lavoratore, in quanto la condotta di guida si inserisce nell’ambito dell’attività lavorativa dell’O.
Certamente l’avvenuto riconoscimento della condotta errata da parte della vittima, per non essersi mantenuto alla distanza di sicurezza dal ciglio della scarpata non vale ad esonerare il datore di lavoro dalla sua responsabilità, non avendo lo stesso approntato le necessarie misure di sicurezza e soprattutto non risultando assolutamente imprevedibile l’errore in cui è incorso il lavoratore determinato da molteplici fattori tra cui anche la visibilità in un momento in cui i raggi rasenti del sole impedivano la vista e non vi erano sul posto né segnalazioni visibile né qualcuno a guidare la manovra che veniva svolta in retromarcia.
Peraltro, come rileva la Corte territoriale, è indubbio che il comportamento del lavoratore non si appalesi anomalo rispetto alle mansioni attribuitegli né assolutamente imprevedibile rispetto alla tipologia dell’attività e alle caratteristiche del luogo, ben potendosi prevedere che qualcuno degli autisti, che dovevano scaricare il materiale, nell’avvicinarsi al ciglio della scarpata potesse errare nel mantenere la debita distanza di sicurezza dal predetto ciglio, soprattutto dovendo procedere in retromarcia per effettuare lo scarico.
Né può considerarsi assolto l’obbligo di sicurezza, come pretenderebbe la ricorrente T., attraverso il richiamo dell’ordine di servizio del 26/4/2006.
Detto ordine, infatti, come osserva la corte di appello non solo non risulta mai firmato per ricezione dall’O., ma venne comunicato all’Ispettorato della Polizia Mineraria soltanto in data 19/9/2006, quindi successivamente all’incidente, allegandovi due dichiarazioni di esserne a conoscenza sottoscritte dai lavoratori nelle date del 13/9/2006 e 14/9/2006 sempre successive alla morte dell’O.
Corretto appare anche il ragionamento relativo all’assoluta inadeguatezza del DSS rispetto all’evento verificatosi, contemplando lo stesso fasi lavorative completamente differenti da quella svolta dall’O.
5. Le responsabilità della T. e del B., nelle rispettive qualità, concorrono.
Questa Corte di legittimità, infatti, ha più volte sottolineato che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell’obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l’omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione (così questa Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253850 in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l’esistenza di un preposto di fatto).
Nel caso che ci occupa, come evidenzia la sentenza impugnata, assolutamente erroneo e non condivisibile è l’assunto del primo giudice secondo cui il posizionamento di barriere e cartelli non era assolutamente esigibile ed era incompatibile con il continuo avanzamento del fronte della scarpata dovuto al continuo scarico del materiale e sarebbe stato insolito ed addirittura sconsigliabile atteso che avrebbe creato un inutile dispendio di energie e causato un ulteriore aggravio per le operazioni di scarico del materiale.
Per la Corte territoriale, che fa proprie le argomentazioni di accusa, la motivazione de qua rasenta il livello massimo di illogicità nel momento in cui disconosce mancanze degli imputati così numerose e gravi, oblitera norme di sicurezza e finisce con esigere che, il lavoratore non commetta errori di manovra nel procedere alla guida di un camion in retromarcia, verso un ciglio di un rilevato alto dodici metri, con il sole radente, senza alcun riferimento fisso, mero cartello, barriera solida o amovibile che sia.
Sul punto i giudici del gravame del merito valorizzano le dichiarazioni rese, in sede di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale gli ispettori della Polizia Mineraria G. T. e F. C., intervenuti a seguito del sinistro, che avevano effettuato gli accertamenti del caso.
L’ispettore C. dichiarava specificatamente che la zona interessata dall’incidente, pur tenendo conto del tipo di attività, andava segnalata, con una facile operazione, con dei cartelli “monitori” e anche con un nastro giallo (v. teste C. ff. 10-11, 18, 20), che erano necessarie una sorveglianza più attiva (C. ff. 20-22) e la presenza di barriere come cumuli di sabbia (v. C. ff. 19-20-21). L’ispettore T. si riportava alla relazione redatta all’epoca dell’incidente.
Come rileva la Corte territoriale già nella relazione, in atti, a firma di entrambi» gli Ispettori rilevava che, data la natura e le caratteristiche dell’attività, “la società esercente la cava avrebbe dovuto esigere il rispetto dell’ordine di servizio emesso dal direttore dei lavori mediante una sorveglianza più attiva e/o interdire l’area prossima al ciglio del rilevato mediante cartelli di divieto o mezzi di pari efficacia”.
Al contrario, come si è detto, sul piazzale non erano presenti presidi fissi o mobili (ostacoli, parapetti o quant’altro) e né cartelli che indicassero agli autisti il limite da non superare avvertendoli del pericolo.
Vero è che vi erano i due cumuli di sabbia scaricati in precedenza dagli autisti D. L. e P. (il provvedimento impugnato richiama sul punto le deposizioni di T. ff. 40; C. f. 70; e foto n.9 scattata dagli ispettori) ma si trattava solo di cumuli che non formavano alcuna barriera, tant’è che il camion dell’O. passava in un punto in cui non vi era alcun cumulo di sabbia che lo ostacolasse (così il teste C., nelle dichiarazioni rese il 3/6/2015 dinanzi alla Corte territoriale, trascr. f 18: “.. perché se ci fosse stato il cumulo intruppava lì con le ruote ‘).
Per contro, solo una fila di cumuli sarebbe stata, in ipotesi, efficace poiché in questo caso il materiale avrebbe impedito al mezzo di andare avanti, come precisato dall’ispettore C. (così trascr. f. 20: ” mettere una fila di cumuli è un mezzo di efficacia perché il camion non può andare., il cumulo ti impedisce di andare e nello stesso tempo tu lo aumenti il cumulo, perché ti fermi e rovesci dell’altro materiale…”).
La sentenza impugnata dà dunque atto, nella sua articolata motivazione, che la presenza di cumuli di sabbia, non costituente barriera, era, quindi, insufficiente ai fini della sicurezza, potendo concretamente accadere che un autista, non prestando la dovuta attenzione alla posizione dei cumuli già presenti sul piazzale o mal calcolando le distanze, andasse avanti superandoli e passando attraverso il varco libero sino ad avanzare oltre il limite di. sicurezza per raggiungere il ciglio. E siffatta situazione di rischio e pericolo era prevedibile, date le caratteristiche dei luoghi ed il tipo di attività.
In sentenza si evidenzia anche come non appaia inverosimile che l’O. avesse avuto indicazioni, già in precedenza, di avvicinarsi al ciglio per scaricare direttamente il materiale nei pressi, al fine di lasciare posto nel piazzale ad altri cumuli di materiale, a ciò conducendo le dichiarazioni dell’O. L. e del teste D. L. M. In particolare quest’ultimo dichiarava che alle volte quando in cantiere non era presente la ruspa, al fine di non occupare tutto il. piazzale, scaricavano la sabba “quasi vicino al ciglio ” (v trascr. f 21), secondo le indicazioni di G. cioè dello Z.: v trascr. f. 24526 .” se potete, la ruspa sta da una parte, se potete, scaricare un pò là vicino” (v. trascr. ff. 21-26, 29, 33). E quella mattina in cantiere non era presente la pala meccanica.
6. Come evidenziato dagli ispettori della Polizia Mineraria era dunque necessario, al fine di prevenire incidenti, non soltanto il posizionamento di cartelli di avvertimento ma anche di barriere che potevano anche consistere in nastri gialli posizionati al limite invalicabile, da potere spostare ad ogni avanzamento dello spiazzo e certamente era necessaria la massima sorveglianza degli addetti al controllo.
Al contrario al momento dell’incidente non solo mancavano gli avvertimenti e qualunque presidio di sicurezza idoneo ma era anche assente il sorvegliante Z.G. Giovanni che avrebbe dovuto sospendere l’attività che avveniva in condizioni di rischio e che, se fosse stato presente, avrebbe ben potuto controllare che lo scarico del materiale avvenisse in sicurezza, impedendo all’O. di effettuare la manovra pericolosa, soprattutto perché offuscato dal sole della mattina, che all’ora dell’incidente era rasente, come affermato dall’lng. A. M., consulente tecnico dell’imputata T. M., al f. 30 della sua relazione acquisita in atti all’udienza del 12/7/2010.
Va aggiunto che non appare rilevante la mancanza di dissesti nella collinetta da cui è caduto l’autoveicolo condotto dalla persona offesa, a fronte, comunque, della presenza di un ciglio pericoloso e della mancanza di qualunque segnaletica e/o dispositivo amovibile di cui si è detto in precedenza.
La T., nella sua qualità di legale rappresentante della ditta SO.GE.CA., è stata condannata – va ricordato- per avere redatto un Documento di Sicurezza e Salute (D.S.S.) del tutto generico senza alcun riferimento specifico all’attività di trasporto e deposito materiale che si svolgeva nella cava e, quindi, senza individuazione dei rischi e pericoli connessi allo svolgimento dell’attività in questione e privo dell’individuazione delle cautele necessarie per il caso concreto.
In particolare, non era previsto nel D.S.S. coordinato il rischio di caduta dell’autocarro, dal ciglio del rilevato, nell’area di stoccaggio durante le operazioni discarico e non venivano previste le misure di prevenzione e sicurezza per ovviare a tale rischio.
La Corte territoriale, sul punto, alle pagg. 25 e 26 del provvedimento impugnato, evidenzia come la scheda MM020 (Movimentazione materiali) contenuta nel D.S.S. coordinato della ditta SO.GE.CA. (acquisito in atti dal Tribunale all’udienza del 12/7/2010: v. trascr. f. 30 e, come si è detto, mai sottoscritto dall’O.i) che riporta la tabella dei rischi con la loro individuazione e valutazione, individuando, in particolare, al punto 2, il cedimento del fondo stradale e il conseguente ribaltamento dell’automezzo con pericolo per l’autista e per gli operai a ridosso dell’automezzo on probabilità magnitudo grave e rischio alto di cui ha parlato il consulente tecnico dell’imputata T., Ing. A. M. riguarda una fase lavorativa che nulla a che fare con l’attività di scarico sull’area di stoccaggio, elevata circa mt. 12, di cui si discute.
7. La Corte territoriale opera un buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità laddove rileva che la responsabilità di T. M. è indubbia, in quanto per la stessa, rappresentante legale della SO.GE.CA s.r.l., qualificata “datore di lavoro” nel D.S.S. nella “Scheda amministrativa e tecnica della cava” (v. il D.S.S. f. 69), vale il principio affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261105 e ss. secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l’obbligo giuridico di analizzare ed individuare, secondo la propria, esperienze e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all’ interno dell’azienda e, all’esito, redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi (D.S.S.) previsto dall’art. 28 del D.Lgs. n.81 del 2008 (Testo Unico in materia di sicurezza sul lavoro): all’interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori.
In definitiva, va dunque riaffermato il principio che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro quale responsabile della sicurezza gravato non solo dell’obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente la loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all’art. 2087 cod civ., egli è costituito garante dell’Incolumità fisica dei prestatori di lavoro” (vedasi anche questa Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, Ottino, Rv. 263200). E che, qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema antinfortunistico sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile Sez. 4, n. 4325 del 27/10/2015 dep. il 2016, Zappalà ed altro, Rv. 265942).
Va anche ricordato che la mera designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, come nel caso che ci occupa, non costituisce una delega di funzioni e non è dunque sufficiente a sollevare il datore di lavoro ed i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (così Sez. 4, n. 24958 del 26/4/2017, Rescio, Rv. 270286 nella cui motivazione, la Corte ha precisato che il responsabile del servizio di prevenzione e protezione svolge un ruolo di consulente in materia antinfortunistica del datore di lavoro ed è privo di effettivo potere decisionale).
8. Infondato appare anche il ricorso del B., direttore dei lavori e responsabile del servizio prevenzione e protezione come qualificato nel D.S.S. nella “Scheda amministrativa e tecnica della cava” (così il D.S.S. f. 69).
Costituisce ius receptum di questa Corte il prneiotíper cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l’adozione di misure prevenzionali doverose (Sez. 4, n. 2814 del 21/12/2010 dep. il 2011, Di Mascio, Rv. 249626).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che, in tema di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all’interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l’obbligo giuridico di adempiere diligentemente l’incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all’attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all’occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (così Sez. Un. n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e altri, Rv. 261107, che hanno ha ritenuto penalmente rilevante la condotta del responsabile del servizio che aveva redatto il documento di valutazione dei rischi con indicazione di misure organizzative inappropriate, sottovalutando il pericolo di incendio e omettendo di indicare ai lavoratori le opportune istruzioni per salvaguardare la propria incolumità).
In relazione al mancato esame dello stato dell’automezzo, che dalla lettura del provvedimento non sembra nemmeno essere stato richiesto in sede di appello, lo stesso appare comunque ininfluente ai fini dell’odierno decidere, stante l’assoluta mancanza di minimi dispositivi di sicurezza in cui operavano l’O. e gli altri addetti allo scarico del materiale.
Né può dirsi esonerato da responsabilità il B. in quanto non aveva l’obbligo di presiedere alle singole operazioni. Se infatti a carico dello stesso non sussisteva tale obbligo, sussisteva certamente quello di disporre idonee misure perché lo scarico avvenisse alla necessaria misura di sicurezza, attraverso segnalazioni e la predisposizione di personale di assistenza nella manovra.
Certamente la circostanza che sul posto quella stessa mattina fossero già avvenuti due scarichi e che vi fossero dei cumuli di materiale non vale a ritenere che detti cumuli potessero fornire un sufficiente presidio di sicurezza, né tantomeno che l’attività lavorativa si svolgesse in condizioni di sicurezza.
Come rileva la Corte territoriale, B. M., è colpevole per essersi limitato alla redazione dell’ordine di servizio datato 26/4/2006 (acquisito dal Tribunale all’udienza del 12/7/2010: v. trascr. f. 30) senza essersi curato di predisporre gli accorgimenti necessari per ovviare al rischio di caduta dei mezzi che procedevano allo scarico del materiale con l’installazione di cartelli e di transenne quantomeno mobili. Né -come rilava argomentatamente il provvedimento impugnato- può dirsi che l’assenza di tali cautele era giustificata dalla particolare natura dell’attività che si svolgeva sul piazzale, ossia dal fatto che lo scarico del materiale comportava un continuo aumento del fronte del piazzale tale da rendere impossibile, inutile ed anzi causa di aggravio di lavoro il posizionamento di barriere fisse per prevenire eventuali cadute dall’alto. Ciò in quanto non era per nulla impossibile installare dei cartelli e posizionare barriere che non dovevano essere necessariamente fisse ma potevano essere mobili, tali da poter essere spostate dagli addetti ad ogni avanzamento del fronte, ma idonee a segnalare il limite invalicabile.
Sul punto, come ricordato in precedenza, l’ispettore minerario C. nell’udienza avanti la Corte territoriale teneva a precisare che con “presidi fissi”,
indicati come necessari nella loro relazione, certamente non intendevano indicare “barriere di cemento” (v. trascr. f. 22). Del resto – come si legge nel provvedimento impugnato- che l’apposizione di segnali o barriere fosse un’operazione materiale possibile e attuabile si evince dallo stesso D.S.S. che per altri processi di lavorazione contiene prescrizioni simili a quelle che avrebbe dovuto prevedere per l’attività in oggetto.
La Corte territoriale ricorda in proposito che dallo stesso D.S.S. si rileva che per altri processi di lavorazione erano previsti presidi di sicurezza, sia pure spostabili, ritenuti tecnicamente possibili e non dispendiosi, mentre nulla risultava invece indicato come rischio e individuato come misura eli sicurezza e tutela per la specifica attività di stoccaggio di cui era incaricato l’O. Si palesava poi imprescindibile la continua sorveglianza dell’attività di scarico, stante la pericolosità della manovra anche per il fatto che i mezzi dovevano procedere in retromarcia per poi scaricare.
Il B., invece, nella qualità, si limitava alla redazione di un ordine di servizio assolutamente inadeguato in quanto non seguito dall’installazione di cartelli indicanti il limite invalicabile con pericolo di caduta e di transenne, quanto meno mobili, che materializzassero sul luogo il limite di sicurezza dal ciglio.
Per i giudici del gravame del merito, condivisibilmente, desta, poi, perplessità il fatto che non risulti documentalmente provato che il predetto ordine dì servizio datato 26/4/2006 sia stato portato a conoscenza degli operatori nell’immediato e quantomeno, per quanto qui interessa, in epoca precedente l’incidente, risultando invece, come già evidenziato in precedenza, che il B. solo in data 19/9/2006, cioè alcuni giorni dopo l’incidente, ebbe a comunicare all’Ispettorato della Polizia Mineraria il predetto ordine di servizio controfirmato dallo Z., allegando due dichiarazioni di essere a conoscenza dell’ordine di servizio sottoscritte dai lavoratori nelle date successive all’incidente, del 13/9/2006 e 14/9/2006 (v consulenze ing. A. C. e ing. A. M.).
In ogni caso è provato che l’ordine di servizio non risulta firmato per ricevuta e conoscenza dal defunto O. P.
Va rilevato ancora che, con motivazione corretta in punto di diritto, la Corte capitolina rileva che il B. nemmeno può invocare a sua discolpa il comportamento imprudente dell’O., in quanto il responsabile della sicurezza sul lavoro, che ha negligentemente omesso di attivarsi per impedire l’evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l’errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa (così questa Sez. 4, n. 18998 del 27/3/2009, Trussi ed altro, Rv. 244005 che, In applicazione del principio, si è ritenuto che il direttore e delegato alla sicurezza di uno stabilimento, cui era stato contestato di non avere predisposto o fatto predisporre idonee protezioni al fine di evitare cadute dall’alto degli operai che si recassero sui lucernai dello stabilimento per lavori di manutenzione dei canali di gronda, non potesse invocare a sua discolpa la condotta imprudente del lavoratore).
Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, in altri termini, pur in assenza di una previsione normativa di sanzioni penali a suo specifico carico, può essere ritenuto responsabile, in concorso con il datore di lavoro od anche a titolo esclusivo, del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l’obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l’adozione, da parte del datore di lavoro, delle iniziative idonee a neutralizzare tale situazione (Sez. 4, n. 32195 del 15/7/2010, Scagliarmi, Rv. 248555).
9. Del tutto destituita di fondamento è la doglianza del B. in punto di mancata concessione della sospensione condizionale della pena.
La Corte territoriale ha ritenuto, a differenza degli altri imputati, che il beneficio in questione non gli potesse essere concesso “stante i precedenti penali a suo carico risultanti dal certificato del casellario giudiziale (di cui due per lesioni colpose ed uno per violazione delle norme relative alla sicurezza e salute dei lavoratori nelle industrie estrattive” (così a pag. 30 della sentenza impugnata.
Orbene, in ricorso, il ricorrente nega che tali condanne ci siano state, ma dall’esame degli atti, cui questa Corte di legittimità ha ritenuto di accedere in ragione del tipo di doglianza proposta, e nello specifico dal certificato penale n. 6105/2015/R si evincono a carico del B. (alle date del 14/10/2002, 10/12/2003 e 25/11/2005) proprio i precedenti penali citati dalla Corte capitolina, in relazione ad uno dei quali, peraltro, risulta anche già concessa la sospensione condizionale della pena.
La sentenza impugnata, immune da vizi di legittimità anche sul punto, appare fare buon governo della giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in tema di sospensione condizionale della pena, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (cfr. sez. 3, n. 30562 del 19.3.2014, Avveduto ed altri, rv. 260136; conf. sez. 2, n. 19298 del 15.4.2015, Di Domenico, rv. 263534; sez. 3, n. 6641 del 17.11.2009 dep. il 2010, Miranda, rv. 246184, in un caso in cui la Corte ha ritenuto esaustiva la motivazione della esclusione del beneficio fondata sul riferimento ai precedenti penali dell’Imputato).
Non va dimenticato, peraltro, che costituisce ius receptum il principio per cui legittimamente il beneficio della sospensione condizionale della pena è negato dal giudice in base a prognosi sfavorevole nella quale rientrano, oltre le sentenze di condanna riportate dall’Imputato, anche i precedenti giudiziari di cui all’alt. 133 cod. pen. in quanto il giudizio prognostico ex art. 164, comma primo, cod. pen., per altro, è del tutto indipendente dai limiti relativi alla misura della pena fissati dall’art. 163 cod. pen. che determinano la concedibilità in astratto del beneficio ma non certo il contenuto favorevole della prognosi (così questa sez. 4, n. 4073 del 23.2.1996, Avena, rv. 205188).
10. Al rigetto del ricorso consegue, ex lege, la condanna al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili C. S, O. L. e O. E., che liquida in complessivi euro 3500,00 oltre accessori di legge

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili C. S, O. L. e O. E., che liquida in complessivi euro 3500,00 oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 9 ottobre 2018

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