giovedì, Marzo 28, 2024
Criminal & Compliance

Cass. Pen., Sez. V, 19 novembre 2020, n. 32534, in tema di violenza privata ex art. 610 c.p.

A cura di: Avv. Francesco Bellocchio

Introduzione.

La Suprema Corte di Cassazione è tornata ad argomentare in merito al delitto di violenza privata, previsto e punito dall’art. 610 del codice penale, esprimendo il principio secondo cui “integra il delitto di violenza privata il parcheggiare la propria auto, nel cortile condominiale, in modo tale da impedire ad altri di accedere al proprio posto auto” (così Cass. Pen., Sez. V del 19 novembre 2020, n. 32534).

Prima di entrare nel vivo del caso esaminato dalla Suprema Corte di Cassazione possiamo, in via del tutto preliminare, analizzare il delitto di violenza privata, evidenziandone i suoi elementi strutturali.

Ed invero, l’elemento oggettivo della condotta consiste nell’altrui costrizione a fare, tollerare od omettere qualcosa, adoperando nei confronti della persona offesa una violenza o una minaccia.

Come noto, sia la dottrina che la giurisprudenza si sono soffermate sui concetti di violenza e di minaccia.

In particolare, la “minaccia” designa la prospettazione di un male ingiusto, futuro o prossimo, il cui verificarsi dipende dalla volontà del soggetto agente; la “violenza”, invece, essendo priva di una nozione di portata generale, impone di adoperare un processo interpretativo, attraverso l’analisi di altre fattispecie incriminatrici, quali ad es. l’artt. 392, co. 2, 613 e  628, co. 3, n.2 del codice penale[1].

Ed invero, l’art. 392, 2° co. c.p., prevede che, “agli effetti della legge penale, si ha violenza sulle cose allorché la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione[2]; l’art. 613 c.p. riconduce al concetto di violenza tutti quei comportamenti insidiosi quali, ad esempio, la narcosi e l’ipnosi; in ultimo l’art. 628, 3° co., n. 2 c.p., ravvisa la violenza nell’effetto di “porre taluno in stato di incapacità di intendere e di volere”[3].

Come noto, autorevole dottrina (Antolisei) sembra prediligere una interpretazione c.d. estensiva del concetto di “violenza”, così distinguendo la violenza propria – la quale non si esaurisce nella vis corporis corpori data, ricomprendendo invece ogni mezzo fisico adoperato allo scopo di annullare o limitare la capacità di autodeterminazione, come l’impiego di energia elettrica, l’aizzare un cane – e la violenza impropria, consistente in “ogni altro mezzo che produca il medesimo risultato, esclusa la minaccia”.[4]

Sul punto, anche la giurisprudenza è ormai consolidata nel leggere la nozione di “violenza” in senso estensivo del termine (tra le altre Cass. Pen., Sez. V del 16 ottobre 2017, n. 1913; Cass. Pen., Sez. V, del 18 febbraio 2011, n. 14482; Cass. Pen., Sez. V del 21 maggio 2020, n. 15633).

In merito alla componente psicologica dell’agente (c.d. colpevolezza), la fattispecie criminosa è punita a titolo di dolo generico, il quale consiste nella consapevolezza (cosciente e volontaria) di costringere taluno a tollerare od omettere qualcosa.

La collocazione sistemica dell’art. 610 all’interno del codice penale (Libro II, Titolo XII, Sezione III) all’interno dei delitti contro la libertà morale,  impone di ritenere che il bene giuridico tutelato sia la libertà individuale,  quale libertà di autodeterminazione e di azione dell’individuo; “la giurisprudenza è, ormai, orientata nel senso di ritenere rilevante solamente l’aggressione del bene giuridico tutelato, attraverso condotte che determino una riduzione o una sensibile perdita della capacità di autodeterminazione della vittima[5]”.

Il caso.

La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale territoriale, condannava il sig. F. C. per il delitto di cui all’art. 610 c.p. perché, in molteplici occasioni, l’imputato parcheggiava la propria autovettura nel suo posto auto condominiale oltre la linea di confine con l’adiacente posto auto della costituita parte civile, il sig. G, impedendo, a quest’ultimo, l’accesso al proprio posto auto.

Inutili risultavano le sollecitazioni della persona offesa, affinché il sig. F. C. modificasse il proprio agire.

Il sig. G. si vedeva costretto a sporgere formale querela nei confronti del sig. F. C., producendo la condanna di questi in primo e secondo grado.

L’imputato, a mezzo del suo difensore, chiedeva l’annullamento della sentenza affidandosi a tre motivazioni.

Con il primo motivo il ricorrente lamentava la violazione degli artt. 185 c.p., 2043 e 2049 c.c., 91 e 92 c.p.c. e 539 c.p.p..

Con il secondo motivo veniva lamentata la mancata acquisizione di una prova decisiva, costituita dalle fotografie dello stato dei luoghi ove sarebbero stati commessi i delitti.

Con il terzo ed ultimo motivo il ricorrente sottolineava la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione della Corte d’Appello territoriale.

La motivazione, in sintesi, della Suprema Corte.

Per gli Ermellini il ricorso presentato dall’imputato è manifestatamente infondato e come tale inammissibile.

Il primo motivo di doglianza, relativo alla regolamentazione delle spese processuali, veniva ritenuto dalla Suprema Corte di Cassazione inammissibile.

Ed invero, il Supremo consesso, riprendendo un orientamento ormai consolidato in giurisprudenza[6], argomentava che “in materia di regolamentazione delle spese processuali, se da un lato la reciproca soccombenza nel giudizio di appello legittima la compensazione delle spese sostenute dalle parti contrapposte, da altra parte ben può il giudice – senza violare la legge – condannare l’imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, allorché la sua impugnazione risulti infondata” (Cass. Pen., Sez. V del 19 novembre 2020, n. 32534).

La Suprema Corte di Cassazione riteneva inammissibile, altresì, il secondo motivo, rigettando le argomentazioni della difesa che si fondavano sulla mancata acquisizione di una produzione documentale.

Orbene, la produzione documentale non acquisita avrebbe dovuto dimostrare che l’imputato, essendosi uniformato alle regole comportamentali di tutti gli altri condomini, non avesse quella consapevolezza di commettere l’illecito.

La motivazione degli Ermellini, per fondare la responsabilità penale del sig. F. C. a titolo di violenza privata, s’incentrava sulle ripetute lamentele della parte civile, la quale, anche a mezzo del proprio legale, aveva ripetutamente diffidato l’imputato ad evitare di posteggiare la propria autovettura in modo tale da impedire, o quantomeno ostacolare, l’accesso al proprio posto auto.

Ritenuto presente l’elemento della colpevolezza, nella forma di dolo generico, il Supremo consesso riteneva immune da censure la condanna irrogata.

Infine, anche l’ultimo motivo eccepito dalla difesa dell’imputato veniva respinto dalla Suprema Corte di Cassazione.

Conclusioni.

In relazione alle argomentazioni fin qui condotte, in termini di analisi sia della fattispecie incriminatrice che della casistica esaminata, si può concludere nel senso di ritenere che in tema di “circolazione stradale”, la giurisprudenza è ormai consolidata nel considerare penalmente rilevanti tutte quelle condotte di c.d. “parcheggio selvaggio”.

Ed invero, le sentenze della Suprema Corte hanno più volte condannato le condotte degli automobilisti che, con i loro posteggi irregolari, hanno frapposto ostacoli al libero passaggio, ovvero all’accesso al proprio autoveicolo.

 

[1] M. RIVERDITI, Manuale Tecnico-Pratico di diritto penale – Parte generale e speciale –, ed. 2018, pag. 12 ss.

[2] Art. 392, co. 2 c.p.

[3] Art. art. 628, 3° co., n. 2 c.p.

[4] ANTOLISEI – Manuale di diritto penale, Parte Speciale –  15a ed., integrata ed aggiornata a cura di Grosso, Milano, 2008.

[5] M. RIVERDITI, Manuale Tecnico-Pratico di diritto penale – Parte generale e speciale –, ed. 2018, pag. 1209 ss.

[6] Cass. Pen., Sez. V del 21 ottobre 2008, Colombo, Rv. 242611, n. 46453

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