venerdì, Marzo 29, 2024
Uncategorized

Cenni sul regime patrimoniale dei coniugi ed il problema del c.d. rifiuto del coacquisto

A cura della dott.ssa Francesca Caputo

 

Per armonizzare i rapporti patrimoniali alle nuove esigenze della famiglia, queste ultime derivanti dai principi costituzionali vigenti (artt. 2, 3 e 29 Cost.), si è dovuto aspettare l’emanazione della l. 151/1975 con la quale fu riformato completamente il diritto di famiglia.

Difatti, in questo contesto il legislatore ha equiparato la posizione dei coniugi anche sul piano patrimoniale, istituendo la comunione dei beni come regime patrimoniale ordinario dei rapporti coniugali.

Il legislatore ha previsto però, anche la possibilità di dissentire dalla scelta della comunione legale, disciplinando diversamente i rapporti patrimoniali tramite convenzione ai sensi dell’art. 162, optando per un regime di separazione dei beni.

Questa disciplina si applica per analogia anche alle unioni civili tra persone dello stesso sesso[1]. Lo scopo che il legislatore ha inteso raggiungere con la riforma del ’75 è controverso; per un verso si può ravvisare una volontà a costituire una vera e propria parità tra i coniugi, per altro verso potrebbe figurare anche l’intento di retribuire la donna per il lavoro prestato all’interno della famiglia.

Certo è che la riforma ha avuto lo scopo di attuare i principi di uguaglianza dei coniugi di cui all’art. 3 Cost.  e di unità della famiglia di cui all’art. 29 Cost. Il regime patrimoniale, è quel complesso di regole, legali o convenzionali, atte a disciplinare sia l’amministrazione dei beni coniugali, sia la loro titolarità; tale regime dunque, diviene operante all’atto di matrimonio.

La comunione legale dei beni, che è appunto il regime patrimoniale previsto dal nostro legislatore, è regolata dagli artt. 177 ss. c.c. Si noti, che ad essa si attribuisce l’aggettivo “legale” in quanto trova un’applicazione diretta disposta dalla legge in totale assenza di diversa volontà dei coniugi. Le sue caratteristiche essenziali sono: la non universalità in quanto alcune categorie di beni non vi rientrano; la non necessarie poiché i coniugi possono sempre scegliere alternativamente per il regime di separazione o di comunione convenzionale ed infine la vincolatività in quanto ciascun coniuge perde la sua autonomia, non potendo disporre liberamente dei beni comuni.

Ai sensi dell’art. 177 c.c., costituiscono oggetto della comunione “a) Gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali;b) i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione;c) i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati;d) le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.Qualora si tratti di aziende appartenenti ad uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi, la comunione concerne solo gli utili e gli incrementi”.

Nei punti b) e c)del primo comma dell’art. 177 c.c. e all’art. 178 c.c., si costituiscono le cd. ipotesi di comunione de residuo, la quale ha per oggetto beni che non entrano a far parte immediatamente della comunione, ma ne costituiscono oggetto di divisione nel caso in cui sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione.

Al contrario non costituiscono oggetto di comunione, come enuncia l’art. 179 c.c., i beni personali dei coniugi. Il carattere personale è da intendersi sulla base di un criterio restrittivo e dunque ci si deve riferire ad un bene che sia idoneo a fornire la propria utilità esclusivamente ad uno dei coniugi. Per ciò che concerne invece l’amministrazione dei beni in comunione, il legislatore, all’art. 180 c.c., spiega che quest’ultima spetta disgiuntamente a ciascun coniuge, ma che per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione è obbligatorio il consenso di entrambi. Infatti, tutti quegli atti eventualmente compiuti senza il consenso dell’altro coniuge e da questo non convalidati, sono annullabili ai sensi dell’art. 184 c.c.

Lo scioglimento della comunione legale può verificarsi di conseguenza a talune cause, che sono esplicate nell’art. 191 c.c., tra queste menzioniamo la dichiarazione di assenza o morte presunta del coniuge, l’annullamento o lo scioglimento del matrimonio, l’interdizione o l’inabilitazione di uno dei coniugi ecc. Da un punto di vista effettuale, allo scioglimento consegue la divisione dei beni che si effettua ripartendo in parti uguali l’attivo e il passivo (art.194 c.c.).

Tornando però a discutere dell’art. 177 c.c., si può asserire che tale norma ammette che ciascuno dei coniugi stipuli, a proprio esclusivo favore, un atto di acquisto di un determinato bene immobile o mobile registrato, e che da quel momento il bene entrerà a far parte in automatico della comunione legale, disciplinando un vero e proprio acquisto automatico. A tal proposito, in dottrina e in giurisprudenza sorge un problema rispetto alla configurabilità del cd. rifiuto del coacquisto, che indica la possibilità e la volontà del coniuge di sottrarsi all’effetto dell’acquisto automatico.

Si sono dunque avallate tesi diverse; talune assolutamente ostili al rifiuto del coacquisto altre, più favorevoli. Partendo dalle prime si afferma che parte della dottrina nega la possibilità di considerare operante il rifiuto del coacquisto, poiché asserisce che in nessuna disposizione normativa si ammette la configurabilità di tale rifiuto e quindi, legittimando un soggetto ad escludere un bene dalla comunione legale, si andrebbe a stravolgere completamente la ratio dello stesso istituto. Questo orientamento è stato avallato anche dalla Corte di Cassazione[2]la quale afferma che già si percepisce in modo chiaro, in base ad un’interpretazione letterale dell’art. 179 c.c., che nelle ipotesi previste dal legislatore, l’intervento del coniuge non acquirente non è sufficiente ad escludere dalla comunione legale il bene che non abbia carattere personale. Altra parte della dottrina, avallando una tesi più favorevole, ha ritenuto possibile configurare il rifiuto del coacquisto sia in virtù del principio di autonomia privata, in base al quale un soggetto può liberamente ed autonomamente regolare i propri interessi, sia in virtù del potere di autodeterminazione che concede al soggetto la possibilità di decidere della propria sfera giuridica, e sia in virtù dell’esistenza del divieto di obbligare un soggetto all’acquisto di un determinato bene contro ogni sua volontà.

Anche in questo caso, la Suprema Corte[3]si è espressa avallando la tesi ed affermando che sarebbe possibile concedere ad uno dei coniugi di manifestare la propria volontà (in considerazione dei principi summenzionati) escludendo un bene determinato dalla comunione legale. Tuttavia, tale impostazione positiva, rispetto al rifiuto del coacquisto, si è rivelata fallace ed è stata ampiamente criticata dalla dottrina maggioritaria e dalla Cassazione[4], quest’ultima infatti, afferma che “da nessuna disposizione legislativa è desumibile la possibilità che, in regime di comunione legale dei beni, uno dei coniugi possa efficacemente rinunziare alla contitolarità di un singolo bene al di fuori delle tassative ipotesi di cui all’art.179 cod. civ.” Dunque, in conclusione è pacifico che le tesi dottrinali che si considerano accolte, rispetto al cd. rifiuto del coacquisto, sono senza ombra di dubbio quelle ostili che non prevedono operante una tale dimostrazione di autonomia da parte del singolo coniuge nel rispetto delle regole che disciplinano l’istituto della comunione legale.

[1]Legge n. 76/2016 art.1, co. 13.

[2]Cassazione civile, Sez. Un, 28/10/2009 n. 22755.

[3]Cassazione civile, Sez. I; sent. 02/06/1989 n. 2688.

[4]Cassazione civile, Sez. I, sent. 27/02/2003 n. 2954.

Lascia un commento