mercoledì, Aprile 24, 2024
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Compliance Antitrust: tra rispetto della concorrenza e prevenzione degli illeciti

A cura di Mirella Cerciello

Da un po’ di tempo a questa parte, il termine compliance, abbinato alle più disparate realtà aziendali, risulta essere sempre più inflazionato. Questo principalmente perché la cd. “conformità normativa” è diventata il cuore pulsante di ogni azienda che ponga l’etica – e, più in generale, la “rettitudine” professionale – al primo posto nella propria scala dei valori. Invero, il concetto di compliance si è andato col tempo arricchendo di ulteriori declinazioni, andando a rappresentare non solo la tutela della legalità e, dunque, la precipua osservanza di regole stabilite dalla legge da parte delle aziende e dei suoi dipendenti, ma anche l’insieme degli standard e delle disposizioni tipiche di uno specifico settore. Un quid pluris, quest’ultimo, non propriamente trascurabile, se si considera che l’attitudine aziendale ad essere più compliant e virtuosi possibile si potrebbe tradurre in un significativo vantaggio competitivo (ad esempio, il possesso di un buon livello reputazionale potrebbe portare l’azienda, fidelizzando notevolmente la clientela ed essendo all’altezza delle sue aspettative, ad accrescere e migliorare la propria posizione all’interno del mercato di riferimento, ponendosi come leader del settore).

Ciò premesso e sollevato per un istante il velo di rettitudine di cui si è evidenziata la preminenza, che cosa si nasconde, davvero, dietro al concetto di compliance? E perché è importante preoccuparsi di abbinarla al diritto antitrust?

L’obiettivo principale che si intende perseguire servendosi dello strumento della compliance, da un punto di vista meramente aziendale, è quello di tenersi quanto più alla larga possibile dal rischio di essere sanzionati a seguito di illeciti di varia natura e, nel caso in cui fosse troppo tardi, di predisporre un piano ad hoc, nel tentativo di minimizzare i rischi economici. Si comprende facilmente, dunque, che sebbene si possa parlare di una vera e propria dichiarazione volontaria del proprio harem di valori, trasposta in policy aziendale, ciò che rappresenta la compliance è, essenzialmente, una scelta strategica, un modus operandi di chi vuole apparire come “Corporate Citizens[1] e, allo stesso tempo, mettersi al riparo da eventuali scomode (e onerose) sanzioni, riducendo il carico di responsabilità di chi siede ai vertici.

Tutto ciò gioca un ruolo essenziale se si considera, da una parte, l’importanza, all’interno del mercato, del rispetto del diritto pro concorrenziale e, dall’altra, la necessità di prevenzione della violazione delle norme antitrust, sia nazionali che comunitarie. E’ proprio a presidio di tale rispetto che si insinua la cultura della compliance antitrust, la quale riconosce il diritto alla concorrenza quale fattore necessario per il consolidamento e lo sviluppo dell’economia di mercato, basata sul pluralismo, sulla libertà di accesso ai fattori di produzione e agli sbocchi di mercato, sulla diversità dei prodotti offerti, sull’incremento della libertà di scelta, sullo sviluppo della qualità dei prodotti e sul meccanismo di auto controllo dei prezzi. Intervenire, dunque, al fine di rendere concorrenziali le dinamiche che si generano nel mercato, poste in essere da tutte le aziende che vi operano, ponendosi, in questo modo, a tutela di quegli interessi che si vedrebbero lesi qualora venissero poste in essere condotte anticoncorrenziali.

Un significativo passo in avanti in tale direzione è stato fatto dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale, il 25 novembre del 2018, ha emanato le Linee Guida sulla compliance antitrust, al fine di mettere a disposizione delle aziende un corpus unitario contenente una serie di indicazioni da tenere presenti in sede di definizione dei programmi di compliance, dal momento che “solo un programma disegnato e attuato in coerenza con le caratteristiche dell’impresa e il contesto di mercato in cui opera può riflettere la natura e il grado del rischio antitrust a cui essa è esposta e può, dunque, essere considerato adeguato e potenzialmente efficace[2]. Un manifesto chiaro, dunque, di quelle che dovrebbero essere le best practice attuate dalle aziende, sia a livello nazionale che europeo, al fine di incentivare la promozione di una cultura della concorrenza diffusa nel tessuto imprenditoriale e, al tempo stesso, la prevenzione degli illeciti antitrust attraverso la tempestiva adozione di programmi di compliance efficaci.

Il quadro appena delineato si riempie ulteriormente di senso se si considera un’altra fattispecie, che determina una (ulteriore) maggiore appetibilità per la compliance aziendale: ci si riferisce alla previsione di un trattamento premiale per le società che si siano dotate di un programma di compliance, ossia una sensibile riduzione della sanzione – quale circostanza attenuante – purché tale programma risulti effettivamente idoneo a ridurre il rischio antitrust e garantisca, altresì, la rispondenza del programma alle caratteristiche specifiche dell’impresa e al mercato in cui la stessa opera. In altre parole, ciò che deve risultare chiaramente e senza impedimenti di sorta è l’adeguatezza del programma, seguita a ruota dalla sua attuazione. Questo perché, come si legge chiaramente all’interno delle Linee Guida, “al fine di ottenere il beneficio dell’attenuante, non è sufficiente la mera approvazione del programma da parte dell’organo di gestione dell’impresa, ma è necessaria la fattiva e concreta attuazione dello stesso, in tempo utile perché la stessa sia valutata dall’Autorità nel corso del procedimento[3]. La stessa “fattiva, concreta e continuativa implementazione e attuazione del programma[4] risulterà determinante anche, e soprattutto, in relazione alla quantificazione dell’attenuante, la quale, a ben vedere, sarà riconosciuta soltanto qualora venga rilevato l’effettivo funzionamento del programma. Nello specifico, le Linee Guida si preoccupano altresì di sottolineare che, ai fini dell’eventuale concessione dell’attenuante, saranno presi in considerazione e valutati positivamente soltanto i programmi di compliance adottati, attuati e trasmessi entro sei mesi dalla notifica dell’apertura dell’istruttoria.

Viene da domandarsi, a questo punto, com’è possibile mettere a punto un programma di compliance che sia il più adeguato ed efficace possibile?

Innanzitutto, come punto di partenza, sembra imprescindibile diffondere all’interno dell’impresa la cultura della concorrenza e la conoscenza delle tematiche antitrust, attraverso l’adozione di una policy aziendale conforme e l’implementazione di cicli di formazione ad hoc. Accanto alla formazione attiva, un ben congegnato sistema di audit, che si sostanzia nella previsione di sistemi di controlli interni costantemente aggiornati, è quello che contribuisce, concretamente, a mettere in atto il programma di compliance nelle sue varie articolazioni. In parallelo, risulta altrettanto importante prevedere un sistema di sanzioni disciplinari per i dipendenti che pongono in essere condotte contrarie alle prassi procedurali interne e, in generale, per coloro i quali si mostrino non compliant rispetto a quella scala di valori che alimenta la vita aziendale[5].

A ben vedere, dunque, i programmi di compliance si fondano su due cardini principali: l’impegno del management a “fare la cosa giusta”[6] e la predisposizione dello stesso affinchè ciò sia concretamente realizzabile. Certamente non si tratta di un iter sprovvisto di insidie. Le aziende devono faticare non poco per riuscire a tenere fede ai propri propositi, e quelli di rispettare il gioco concorrenziale e non incorrere in pratiche scorrette non sono, per definizione, propositi semplici da perseguire. Proprio per questo motivo è fondamentale profondere intelligentemente risorse e garantire un costante aggiornamento dei propri sistemi dei controlli interni e, se del caso, attuare una vera e propria “rivoluzione” nel segno della compliance.


[1]Corporate citizenship involves the social responsibility of businesses and the extent to which they meet legal, ethical, and economic responsibilities, as established by shareholders. Corporate citizenship is growing increasingly important as both individual and institutional investors begin to seek out companies that have socially responsible orientations such as their environmental, social, and governance (ESG) practices”, tratto da What Is Corporate Citizenship? di A. Hayes, 2020, disponibile qui: https://www.investopedia.com/terms/c/corporatecitizenship.asp.

[2] Linee Guida sulle modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità in applicazione dell’articolo 15, comma 1, della legge n. 287/90, par. Il contenuto del programma di compliance antitrust (punto 5).

[3] Linee Guida sulle modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità in applicazione dell’articolo 15, comma 1, della legge n. 287/90, par. Il trattamento premiale dei programmi di compliance antitrust adottati dopo l’avvio del procedimento istruttorio (punto 28).

[4] Linee Guida sulle modalità di applicazione dei criteri di quantificazione delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’Autorità in applicazione dell’articolo 15, comma 1, della legge n. 287/90, par. Il trattamento premiale dei programmi di compliance antitrust adottati dopo l’avvio del procedimento istruttorio (punto 29).

[5] A tal fine, tra le iniziative che potrebbero essere implementate, vi è quella di istituire un articolato sistema di reporting interno e/o di whistle-blowing (sistema integrato per la segnalazione di violazioni interne).

[6] Ghezzi F., Compliance Antitrust Programs, in Rossi, G., a cura di, La corporate compliance: una nuova frontiera per il diritto?, 2017.

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