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Concessioni balneari: il contrasto tra diritto interno e la Direttiva Bolkestein alla luce della “innovativa” sentenza T.A.R. Puglia, Lecce, 27 novembre 2020, n. 1321

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La proroga delle concessioni al 2033 – 3. La recente sentenza del Tar Lecce n. 1321 del 27 novembre 2020 – 4. Considerazioni finali

 

  1. Premessa

Le concessioni demaniali marittime costituiscono un tema trasversale che coinvolge aspetti economici, sociali e giuridici. Ciò lo si deve al fatto che il bene demaniale marittimo sta assumendo sempre maggiore rilievo nell’offerta turistica dello Stato, presentandosi come un’“occasione di guadagno” per gli imprenditori.

Il difficile bilanciamento tra i diversi e talvolta opposti interessi che emergono nell’istituto delle concessioni marittime genera un continuo contrasto tra il diritto interno e il diritto sovranazionale. Il legislatore italiano, infatti, persiste nell’adottare regimi di proroga automatica delle concessioni in scadenza.

La ratio sottesa alla proroga automatica è rintracciabile nella volontà del legislatore italiano di tutelare gli investimenti effettuati dal concessionario per l’esercizio dell’attività. In questa prospettiva, il legislatore si preoccupa di far fruttare gli investimenti del concessionario prolungando in via automatica la durata della concessione e al di fuori dell’espletamento di una qualsiasi procedura ad evidenza pubblica.

Tuttavia tale scelta legislativa si pone in evidente contrasto con la Direttiva 2006/123/EC (cd. “Bolkestein”)[1]. Nello specifico, la Direttiva Bolkestein ­- nel superare la tradizionale distinzione tra autorizzazioni e concessioni – introduce la nozione generale di “regime di autorizzazione”, inteso quale “qualsiasi procedura che obbliga un prestatore o un destinatario a rivolgersi all’amministrazione allo scopo di ottenere una decisione formale relativa all’accesso ad un’attività di servizio o al suo esercizio” (art. 4, n. 6). Come precisa il considerando n. 39, il “regime di autorizzazione” comprende tutte le procedure per il rilascio di “autorizzazioni, licenze, approvazioni o concessioni”. Il chiaro intento del legislatore europeo è di ovviare a classificazioni di istituti ad opera delle normative del legislatore le quali avrebbero l’effetto di eludere la normativa europea. 

Il regime dell’Unione appena delineato esige che la scelta del nuovo concessionario da parte della Pubblica amministrazione avvenga all’esito di una procedura competitiva, ovvero di una gara ad evidenza pubblica caratterizzata dalla pubblicità e dalla valutazione comparativa delle offerte di tutti gli operatori economici interessati ad ottenere la concessione, a fortiori nel caso di “scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili”[2]. Il rispetto del principio dell’evidenza pubblica, infatti, evita che i soggetti pubblici possano alterare il gioco della concorrenza distribuendo “occasioni di guadagno” sul mercato senza seguire criteri di competitività ed efficienza[3].

In questa prospettiva, come emerge dalla sentenza della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, la selezione pubblica degli aspiranti concessionari assurge a nucleo ineliminabile della tutela della concorrenza, da cui non può mai prescindersi. Pertanto, l’interesse (secondario) del concessionario, correlato agli investimenti effettuati, può venire in rilievo sempre e solo nell’ambito della stessa procedura competitiva, la quale rappresenta la sede più opportuna per consentire alla Pubblica amministrazione di valutare, sulla base di criteri oggettivi e predeterminati, i reali investimenti effettuati dal titolare della concessione in scadenza.

In definitiva, il diritto comunitario non consente di giustificare una proroga automatica delle concessioni allorché, nel loro momento costitutivo iniziale, non sia stata organizzata alcuna procedura di selezione dei candidati.

  1. La proroga delle concessioni al 2033

Il Decreto Legge del 19 maggio 2020, n. 34 (come convertito dalla L. del 17 luglio 2020, n. 77), nel recare “misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all’emergenza epidemiologica da COVID-19”, all’art. 182, comma 2, vieta alle amministrazioni competenti di avviare o proseguire i procedimenti ad evidenza pubblica per il rilascio o per l’assegnazione delle aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto medesimo (L. 17 luglio 2020, n. 77)[4]. La previsione in questione va letta congiuntamente al richiamo, dalla stessa effettuato, all’art. 1, commi 682 e ss., della L. 30 dicembre 2018, n. 145 (Legge di bilancio 2019), secondo cui le concessioni demaniali per lo svolgimento di attività “turistico-ricreative” in essere hanno una durata di quindici anni con decorrenza dalla data di entrata in vigore della legge medesima[5].

In altri termini, viene confermata la proroga automatica delle concessioni “turistico-ricreative” al 31 dicembre 2033, precedentemente disposta dalla Legge di bilancio 2019.

Le criticità sorgono dalla conferma legislativa di un regime di proroghe automatiche già ritenuto incompatibile con i principi comunitari da parte del Consiglio di Stato[6], il quale ha evidenziato come la l’art. 1, commi 682 e ss., della Legge Finanziaria 2019, recando la proroga generalizzata e automatica di concessioni demaniali in essere, configura un rinnovo automatico delle medesime ostativo all’espletamento di procedure competitive, ponendosi in contrasto con i principi comunitari della concorrenza, imparzialità e trasparenza per la scelta del nuovo concessionario”. Tale contrasto, come precisato in sentenza, soprattutto ove sancito dalla stessa Corte di Giustizia dell’UE[7], pone a carico dello Stato membro, da intendere in un’accezione ampia che ricomprenda anche la Pubblica amministrazione, l’obbligo di disapplicare la norma di diritto interno anticomunitaria e di procedere dunque all’espletamento della gara ad evidenza pubblica.

  1. La recente sentenza T.A.R. Puglia, Lecce, 27 novembre 2020, n. 1321

Sullo stesso punto la recente sentenza del T.A.R. Puglia, Lecce, 27 novembre 2020, n. 1321, la quale, allontanandosi dall’orientamento giurisprudenziale maggioritario, ribadisce l’obbligo per la Pubblica amministrazione di adeguarsi in ogni caso alla legge interna, ancorché questa sia in contrasto con il diritto dell’UE. In particolare, viene affermata la doverosità per i Comuni di rilasciare titoli concessori al di fuori dell’espletamento della gara ad evidenza pubblica, in ossequio alla proroga automatica disposta dall’art. 1, comma 682, della Legge di bilancio 2019, al fine di evitare ipotesi di disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del Comune di riferimento.

Nel caso di specie, il ricorrente impugnava il provvedimento con cui il Comune di Castrignano del Capo (LE) aveva disposto l’annullamento d’ufficio[8] della precedente proroga della sua concessione[9], in quanto ritenuta contraria al diritto comunitario e, in particolare, alla Direttiva Bolkestein. Il ricorrente, più nello specifico, richiedeva l’annullamento del provvedimento di autotutela per violazione dell’art. 1, comma 682, della Legge di bilancio 2019 e dell’art. 182 del D.L. 34/2020 ed in quanto espressione di un potere di disapplicazione della norma interna non attribuibile all’amministrazione.

Il T.A.R. Lecce, in via preliminare, ricostruisce i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale in materia di concessioni demaniali marittime, per poi affermare che il “regime di proroga ulteriore introdotto con la Legge Finanziaria 2019 ed avente durata di 13 anni a decorrere dal 31 dicembre 2020, in assenza della approvazione di alcuna normativa di riordino della materia, integra evidente violazione delle prescrizioni contenute nella direttiva servizi e in disparte la certa prospettiva della riapertura di procedura di infrazione, ha determinato uno stato di assoluta incertezza per gli operatori e per le pubbliche amministrazioni”. L’incertezza normativa, come rilevato in sentenza, ha avuto come conseguenza che, nell’ambito del distretto giurisdizionale di riferimento dello stesso T.A.R. Lecce, alcuni comuni hanno concesso la proroga fino al 31 dicembre 2033, altri hanno espresso diniego disapplicando la norma nazionale, altri ancora, dopo aver accordato la proroga, ne hanno disposto l’annullamento in autotutela, come nel caso in esame, altri infine sono rimasti inerti rispetto alle istanze dei concessionari.

Si è posta dunque l’esigenza di superare l’incertezza delle situazioni giuridiche.

Il T.A.R. Lecce, a tal fine, si discosta dal consolidato orientamento giurisprudenziale alla luce del quale è fatto obbligo per gli organi nazionali, giurisdizionali o amministrativi che siano, in quanto espressione dello Stato membro “in tutte le sue articolazioni”, di dare attuazione alla norma comunitaria, disapplicando la norma interna in contrasto con il diritto dell’UE.

In primo luogo, il Collegio minimizza la portata della statuizione di principio espressa dalla C.G.U.E. del 14 luglio 2016, ripresa dalla menzionata sentenza del Consiglio di Stato del 18 novembre 2019, n. 7874. Sul punto il giudice leccese rileva che la pronuncia del giudice europeo non possa ritenersi dichiarativa di interpretazione autentica della norma comunitaria (la quale sarebbe dotata di efficacia erga omnes) “perché essa non ha ad oggetto alcuna individuazione della ratio legis di una specifica norma comunitaria, ma attiene invece alle generali regole e modalità di applicazione della normativa unionale in generale considerata, dovendosi riguardare alla stregua di mero obiter dictum.

In secondo luogo, il T.A.R. Lecce evidenzia come il potere/dovere di disapplicazione della legge interna in contrasto con il diritto dell’UE non può che fare capo al solo giudice amministrativo, in quanto “trattando della disapplicazione della legge non può prescindersi dal collegamento logico con l’attività di esegesi e di interpretazione della norma, perché la disapplicazione della legge costituisce null’altro che il risultato del previo esercizio della funzione interpretativa”. Infatti, la funzione interpretativa deve essere esercitata secondo precisi e consolidati canoni ermeneutici di cui solo il giudice, e non la pubblica amministrazione, può essere ritenuto titolare.

Questa tesi è suffragata, a giudizio del Collegio, dall’attribuzione esclusiva al giudice della facoltà di rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia circa il sospettato contrasto tra norma interna e norma comunitaria. Questa facoltà, prodromica e funzionale rispetto alla eventuale e successiva disapplicazione della norma interna, non sarebbe invece attribuita alla pubblica amministrazione o, per essa, al dirigente o funzionario preposto.

Proprio questa considerazione induce il giudice leccese a ritenere che “la norma nazionale, ancorché in conflitto con quella euro-unionale, risulti pertanto vincolante per la pubblica amministrazione e, nel caso in esame, per il dirigente comunale, che sarà tenuto ad osservare la norma di legge interna e ad adottare provvedimenti conformi e coerenti con la norma di legge nazionale”. Ciò vale ancor di più quando, come nel caso di specie, la norma comunitaria da applicare non sia autoesecutiva, ovvero necessiti di interventi legislativi di attuazione, e questi non siano stati ancora adottati. In questo senso, disapplicare la legge interna comporterebbe un vulnus, in quanto la norma alternativa applicabile ­– che dovrebbe prevedere regole stringenti e dettagliate nell’ambito della selezione pubblica – è inesistente.

Inoltre, la sentenza considera che la disapplicazione della norma nazionale ad opera del giudice si inserisce in un contesto coerente e tendenzialmente unitario, quale quello proprio del sistema di tutela giurisdizionale offerto dall’ordinamento, che garantisce uniformità di applicazione della norma sul territorio nazionale; laddove la disapplicazione vincolata ed automatica disposta dalle singole pubbliche amministrazioni determinerebbe una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata in ipotesi da disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del comune di riferimento. In altri termini, il Collegio ritiene inderogabile il dovere per la pubblica amministrazione di adeguarsi alla legge interna la quale, se illegittima in quanto contrastante con il diritto sovranazionale, potrà essere disapplicata (nella sola) sede giurisdizionale.

In conclusione, il T.A.R. Lecce, esprimendosi sull’esercizio dell’autotutela da parte del Comune, rileva che esso non è stato supportato né da adeguata valutazione dell’interesse pubblico all’annullamento, né dalla valutazione del legittimo affidamento indotto nel titolare della concessione per effetto della norma nazionale e del precedente favorevole provvedimento di rilascio del titolo concessorio in proroga fino al 31 dicembre 2033, pertanto, ha dichiarato “illegittimo l’impugnato provvedimento del Comune di Castrignano del Capo con cui il Dirigente preposto al settore ha determinato l’annullamento in autotutela della proroga della concessione di titolarità della ricorrente già assentita fino all’anno 2033”.

  1. Considerazioni finali

La pronuncia del T.A.R Lecce si pone nel solco di un contrasto ormai pluridecennale, causato “dall’indecisione” della normativa italiana che si traduce in un’incertezza delle situazioni giuridiche non più tollerabile.

In quest’ottica, la recente pronuncia tenta di diminuire ambiguità normativa esonerando la pubblica amministrazione dal compito di disapplicare la norma anticomunitaria e affermando l’ineludibile obbligo della stessa a conformarsi in ogni caso alla normativa nazionale, riservando al solo  giudice amministrativo la decisione sull’incompatibilità comunitaria della legge interna con conseguente sua disapplicazione. Solo in questo modo, a giudizio del T.A.R. Lecce, si possono scongiurare le ipotesi di disparità di trattamento tra gli operatori economici a seconda dell’agire dell’amministrazione.

Il principio enucleabile dalla sentenza del T.A.R. Lecce assume un’apprezzabile rilevanza nel caso di specie, il quale presenta una natura peculiare. Infatti, il Comune di Castrignano del Capo ha dapprima rilasciato il titolo concessorio a favore dell’originario concessionario – al di fuori della selezione pubblica dei candidati e in ossequio al disposto dell’art. 1, comma 682, Legge di bilancio 2019 – per poi ritornare sui suoi passi procedendo all’annullamento del provvedimento concessorio per la sua contrarietà agli obblighi comunitari: ciò avrebbe determinato una violazione del legittimo affidamento, indotto nel titolare della concessione discendente del precedente provvedimento favorevole  di rilascio del titolo concessorio in proroga fino al 31 dicembre 2033.

Tuttavia, estendere il principio a tutti gli altri casi in cui la pubblica amministrazione debba rilasciare nuovi titoli concessori, comporterebbe il paradosso per cui il provvedimento con il quale si dispone l’avvio della gara ad evidenza pubblica dovrebbe considerarsi illegittimo in quanto contrastante con il diritto interno. Infatti, seguendo il ragionamento condotto dal T.A.R. Lecce, si può sostenere – paradossalmente – che la Pubblica amministrazione, procedendo all’evidenza pubblica per conformarsi agli obblighi comunitari, di fatto disapplichi la normativa nazionale e dunque eserciti – seguendo il ragionamento del Collegio –  un potere di cui la medesima non è provvista, con l’ulteriore conseguenza di generare un vulnus, data l’assenza di specifici criteri-guida da prevedere su base legislativa della procedura competitiva. Allo stesso modo, una disapplicazione della legge interna da parte del giudice risulterebbe legittima ma inutiler, in quanto allo stato dei fatti non esiste alcuna norma alternativa compatibile al diritto comunitario ed infatti, il T.A.R. Lecce non procede alla disapplicazione della norma interna, ancorché dallo stesso considerata contrastante con i diritto dell’UE.

Da una siffatta pronuncia deriva il rischio di una deresponsabilizzazione sia degli organi amministrativi che degli organi giudicanti, i quali si limiterebbero ad applicare la legge interna “non sostituibile”.

In realtà, il pacifico contrasto della legge interna con il diritto unionale, accertata sia a livello nazionale sia a livello sovranazionale, richiede uno sforzo maggiore soprattutto da parte degli organi giurisdizionali, tenuti a ristabilire l’osservanza delle regole poste dall’ordinamento nel suo complesso, comprensivo anche gli obblighi comunitari.

Ciò vale ancor di più se si tiene conto del fatto che una norma interna applicabile esiste, e può ritrovarsi nell’art. 4 del D. Lgs. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici). L’art. 4, infatti, prevede che: “L’affidamento […] dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica”.

In forza di quanto disposto dall’appena illustrato art. 4 del codice, anche per l’affidamento dei contratti per i quali non è prevista l’applicazione della specifica disciplina di evidenza pubblica, come nel caso delle concessioni demaniali marittime, valgono i principi comunitari generali posti a tutela della concorrenza, sanciti nel TFUE e richiamati dallo stesso art. 4[10].

Pertanto, con riferimento alle concessioni marittime, non è necessaria la previsione legislativa di regole stringenti e dettagliate nell’ambito della selezione pubblica potendo la pubblica amministrazione pervenire all’espletamento di una gara informale che rispetti i principi comunitari applicabili ad ogni contratto che genera un’“occasione di guadagno” sul mercato[11].

Alla luce di quanto rilevato, si può affermare che la sentenza del T.A.R. Lecce ha sicuramente una “portata innovativa” e tuttavia limitata e circoscritta, dovendosi affermare la generale necessità di disapplicare la norma interna contrastante con il diritto dell’UE al fine di garantire l’applicazione dei principi comunitari generalmente posti a tutela della concorrenza.

Da precisare, infine, che la tesi dell’impossibilità per la P.A. di disapplicare la norma interna sostenuta dal giudice leccese, si sovrappone al principio, sancito dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile della P.A., per cui l’omessa disapplicazione della norma interna in contrasto con quella comunitaria evidenzia di per sé l’esistenza dell’elemento soggettivo, atteso che la condotta lesiva è stata posta in essere da un “operatore qualificato” tenuto a conoscere il sistema delle fonti, laddove solo la dimostrazione dell’inconoscibilità incolpevole della disciplina di riferimento può escludere la colpa in capo all’agente[12].

[1] La Direttiva Bolkestein è stata recepita in Italia con il decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (“Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”).

[2] E’ utile richiamare l’art. 12 (“Selezione tra diversi candidati”) della Direttiva n. 2006/123/CE: “1. Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento. 2. Nei casi di cui al paragrafo 1 l’autorizzazione è rilasciata per una durata limitata adeguata e non può prevedere la procedura di rinnovo automatico né accordare altri vantaggi al prestatore uscente o a persone che con tale prestatore abbiano particolari legami. 3. Fatti salvi il paragrafo 1 e gli articoli 9 e 10, gli Stati membri possono tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni di salute pubblica, di obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori dipendenti ed autonomi, della protezione dell’ambiente, della salvaguardia del patrimonio culturale e di altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”.

[3] In questo senso, cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10 gennaio 2007, n. 30; Cons. Stato, sez. VI, 25 gennaio 2005, n. 168; T.A.R. Puglia, Lecce, sez. I, 17 gennaio 2020, n. 36: “Il mancato ricorso a procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, determina un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato e, conseguentemente, il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia; tale principio si estende anche alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative le quali hanno come oggetto un bene/servizio “limitato” nel numero e nell’estensione a causa della scarsità delle risorse naturali; la spiaggia è un bene pubblico demaniale (art. 822 cc) e perciò inalienabile e impossibilitato a formare oggetto di diritti a favore di terzi (art. 823 c.c.), sicché proprio la limitatezza nel numero e nell’estensione, oltre che la natura prettamente economica della gestione (fonte di indiscussi guadagni), giustifica il ricorso a procedure comparative per l’assegnazione”.

[4] Art. 182, comma 2, D.L. n. 34/2020: “Fermo restando quanto disposto nei riguardi dei concessionari dall’articolo 1, commi 682 e seguenti, della legge 30 dicembre 2018, n. 145, per le necessità di rilancio del settore turistico e al fine di contenere i danni, diretti e indiretti, causati dall’emergenza epidemiologica da COVID-19, le amministrazioni competenti non possono avviare o proseguire, a carico dei concessionari che intendono proseguire la propria attività mediante l’uso di beni del demanio marittimo, lacuale e fluviale, i procedimenti amministrativi per la devoluzione delle opere non amovibili, di cui all’articolo 49 del codice della navigazione, per il rilascio o per l’assegnazione, con procedure di evidenza pubblica, delle aree oggetto di concessione alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.

[5] Art. 1, comma 682, L. n. 145/ 2018: “Le concessioni disciplinate dal comma 1 dell’articolo 01 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge hanno una durata, con decorrenza dalla data di entrata in vigore della presente legge, di anni quindici. Al termine del predetto periodo, le disposizioni adottate con il decreto di cui al comma 677, rappresentano lo strumento per individuare le migliori procedure da adottare per ogni singola gestione del bene demaniale”.

[6] Cons. Stato, sez. VI, 18 novembre 2019, n. 7874.

[7] Corte di giustizia UE, sez. V, 14 luglio 2016, n. 458.

[8] Art. 21 nonies della Legge 241/90 (“Annullamento d’ufficio”): “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21 octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21 octies, comma 2, può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo. È fatta salva la possibilità di convalida del provvedimento annullabile, sussistendone le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole”.

[9] Titolo concessorio rilasciato ex art. 1, comma 682, L. n. 145/ 2018 (Legge Finanziaria 2019), ovvero senza preventiva selezione pubblica dei candidati.

[10] Pur ritenendo che le concessioni demaniali marittime rientrino tra i “contratti esclusi” dall’applicazione del Codice dei contratti pubblici, ha ribadito l’applicazione generalizzata dei principi fondamentali, di derivazione europea, a tutela della concorrenza e del mercato: Cons. Stato, sez. VI, 17 luglio 2020, n. 4610. Ciò ha consentito l’applicazione del principio di “evidenza pubblica” nell’individuazione del contraente-concessionario anche alle concessioni demaniali marittime.

[11] Cfr. Cons. Stato sez. IV, 21 maggio 2014, n. 2620; Tar Campania, Napoli, sez. I, 28 agosto 2020, n. 1067.

[12] Cfr. Cass. civ., sez. III, 29 dicembre 2011, n. 29736; Cass. 10 maggio 2005, n. 9800.

Riccardo Palliggiano

Riccardo Palliggiano, 24 anni. Laureato, con lode, presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Napoli "Federico II" con tesi in diritto amministrativo ("Le concessioni demaniali marittime").

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