giovedì, Aprile 18, 2024
Diritto e Impresa

Concorrenza sleale parassitaria: origine ed evoluzione del fenomeno nella recente giurisprudenza

a cura di Francesca Michetti

La concorrenza parassitaria è una forma di concorrenza sleale, disciplinata dall’art. 2598, n.3, c.c., che consiste nell’imitazione sistematica, da parte di un imprenditore, delle idee e delle iniziative di un concorrente, avvalendosi «direttamente o indirettamente, di ogni altro mezzo– distinto da quelli relativi ai casi di cui ai precedenti nn. 1 e 2 della medesima disposizione – non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda».

 

Le origini dell’istituto

Risale al 1956 la prima teorizzazione dell’istituto de qua, ad opera del noto giurista Remo Franceschelli, il quale, ispirandosi alla dottrina francese[1]e alla Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale[2], teorizzava l’esistenza di una nuova tipologia di illecito concorrenziale, consistente nel compimento – da parte di un imprenditore concorrente – di plurimi atti eterogenei, sistematicamente e continuativamente imitativi dell’attività imprenditoriale altrui, posti in essere sfruttando parassitariamente il lavoro, gli studi e le attività effettuate dall’imprenditore imitato[3].

Ma v’era chi – nella specie il Carnelutti – si opponeva radicalmente ad una siffatta ricostruzione teorica, considerandola una sorta di«miracolo logico», in virtù della quale atti che, di per sé, risultavano assolutamente leciti, nel loro complesso configuravano un comportamento illecito. Argomentando in termini matematici, egli contestava la possibilità che una somma di zeri potesse produrre una unità, ossia che un comportamento costituito da una pluralità di atti leciti potesse costituire un illecito[4].

E v’era, altresì, altra autorevole dottrina che, seppur con eco minore, rilevava il rischio che la repressione della concorrenza parassitaria potesse favorire la creazione di posizioni monopolistiche da parte delle aziende leaders del mercato[5].

Pertanto, inizialmente, l’introduzione della fattispecie de qua nella normativa italiana non fu priva di resistenze.

È con la celebre pronuncia della Corte di Cassazione del 17 aprile 1962, n. 752 (caso Alemagna c. Motta)[6]che la c.d. concorrenza parassitaria faceva ufficialmente il suo ingresso nell’ ordinamento giuridico italiano, sotto il n. 3 dell’art. 2598 c.c.

A conferma di quanto stabilito in sede d’appello, la Suprema Corte definiva i contorni della nuova fattispecie di concorrenza sleale che ricorre «là dove l’attività commerciale dell’imitatore si traduca in un cammino continuo e sistematico (anche se non integrale), essenziale e costante sulle orme altrui, perché l’imitazione di tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente, l’adozione più o meno immediata di ogni sua nuova iniziativa, seppure non realizzi una confusione di attività e di prodotti, è contrario alle regole che presiedono all’ordinato svolgimento della concorrenza».

Eterogeneità delle attività imprenditoriali imitate («tutto o quasi tutto quello che fa il concorrente»), sistematicità e continuità temporale della condotta imitativa («un cammino continuo e sistematico sulle orme altrui») costituivano, dunque, i caratteri essenziali del nuovo illecito anticoncorrenziale.

Le ragioni dell’illiceità si fondavano sulla considerazione che una tale condotta, «oltre a costituire un esoso sfruttamento dell’altrui iniziativa e organizzazione, contrario all’ampio concetto di correttezza, – esigendo gli usi onesti che nella competizione per la conquista dei mercati si prevalga sui concorrenti avvalendosi dei mezzi di ricerca e finanziari propri –, è idoneo a danneggiare l’altrui azienda, a causa dei minori costi di produzione ai quali deve sottostare l’imitatore, che gli consentono di praticare, a parità di prodotto, prezzi inferiori a quelli del concorrente e di avviare verso la propria impresa una quantità di affari e di clienti che avrebbero potuto invece avviarsi verso l’imprenditore imitato».

A tale riguardo, precisava la Corte, il concetto di correttezza professionale non doveva essere interpretato in senso restrittivo, ossia nel solo caso di inosservanza di una norma giuridica, bensì in senso ampio, «sicché possono sussistere atti che, benché conformi alle disposizioni di legge, siano tuttavia tali da potersi considerare non onesti e non corretti, perché improntati a frode o astuzia».

Pertanto, ai fini della configurabilità della fattispecie de qua, assumeva rilievo la circostanza che ciascun atto – sia pure in sé lecito – si inserisse all’interno di una precisa e ampia strategia imprenditoriale di continuativa e sistematica ripresa dell’attività imprenditoriale altrui, volta all’ottenimento di un risparmio di spesa che costituiva senz’altro un vantaggio concorrenziale[7].

 

Concorrenza parassitaria diacronica e sincronica

Sulla base dei principi affermati nella suddetta pronuncia, si instaurava un consolidato orientamento giurisprudenziale che ammetteva, come unica ipotesi di concorrenza sleale riconducibile al n. 3 dell’art. 2598 c.c., la concorrenza parassitaria c.d. diacronica, ovvero la condotta imitativa reiterata nel tempo della pluralità di iniziative eterogenee poste in essere dall’imprenditore concorrente.

I contorni della fattispecie in esame rimanevano pressoché invariati fino alla prima metà degli anni ’80, quando, con la pronuncia n. 5852 del 17 novembre 1984[8]– resa nell’ ambito della controversia Application des Gaz c. Liquigas Italiana – la Suprema Corte introduceva una nuova ipotesi di concorrenza parassitaria c.d. sincronica[9].

La fattispecie anticoncorrenziale veniva così suddivisa in due declinazioni: quella diacronica, in cui la condotta imitativa si realizza attraverso una pluralità di atti che si susseguono nel tempo, e quella sincronica, caratterizzata da una pluralità di atti simultanei[10].

Pertanto, ai fini del giudizio di illiceità della condotta, ciò che rilevava non era più l’elemento temporale bensì quello quantitativo dell’imitazione[11].

 

L’originalità delle iniziative imitate

Successivamente, la Corte introduceva un ulteriore requisito per la configurazione dell’illecito concorrenziale, relativa al perdurare nel tempo dell’originalità delle iniziative economiche imitate. In particolare, statuiva che «l’imitazione può considerarsi illecita soltanto se effettuata a breve distanza di tempo da ogni singola iniziativa del concorrente (nella concorrenza parassitaria diacronica) o dall’ultima e più significativa di esse (in quella sincronica)».

Ciò in ragione del fatto che, nel nostro ordinamento, la creatività è tutelata solo per un tempo determinato, «fino a quando, cioè, può considerarsi originale, nel senso che, quando l’originalità si sia esaurita, ovvero quando quel determinato modo di produrre e/o di commerciare sia divenuto patrimonio ormai comune di conoscenze e di esperienze di tutti quanti operano nel settore, essendosi cosi ammortizzato (almeno secondo l’id quod plerumque accidit) da parte del primitivo imprenditore il capitale impiegato nello sforzo creativo, imitare quell’attività che, originale al suo nascere e nel suo formarsi, si è poi generalizzata e spersonalizzata, non costituisce più un atto contrario alla correttezza professionale ed idoneo a danneggiare l’altrui azienda»[12].

 

Recente giurisprudenza sul tema:

Di recente, la Suprema Corte è tornata nuovamente sul tema, con la pronuncia del 12 ottobre 2018, n.25607[13], in cui chiarisce i caratteri distintivi della fattispecie in esame rispetto alla concorrenza sleale per appropriazione di pregi dei prodotti o dell’impresa altrui (art. 2598, n.2. c.c.) e a quella confusoria (art. 2598, n.1, c.c.).

Quanto alla prima, la Corte precisa che la concorrenza sleale parassitaria «consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale»[14].

Quanto alla seconda, la concorrenza parassitaria si differenzia dalla “imitazione servile”, intesa quest’ultima come la mera imitazione dei prodotti del concorrente, che integra la sola fattispecie di concorrenza sleale prevista dall’art. 2598, n.1, c.c. Essa si sostanzia, invece, in un’attività sistematica e complessa, realizzata nel corso del tempo o in relazione ad una pluralità di idee e iniziative del concorrente.

Ne consegue che essa richiede una prova “diversa” rispetto a quella della mera “imitazione servile”; in particolare, a fini provatori, dovranno essere indicate «le attività del concorrente “sistematicamente e durevolmente plagiate”, con l’adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contrari alle regole della correttezza professionale»[15].

[1]Si veda in particolare Y. Saint-Gal, “Concurrence parasitaire et agissements parasitaires”, Paris, 1957. L’Autore distingueva la «concurrence parasitaire» dagli «agissements parasitaires» sulla base del fatto che solo la prima fattispecie esige la sussistenza di un rapporto di diretta concorrenza tra i soggetti coinvolti.

[2]Convenzione di Parigi del 1883, firmata il 20 marzo 1883, riveduta a Bruxelles il 14 dicembre 1900, a Washington il 2 giugno 1911, all’Aja il 6 novembre 1925, a Londra il 2 giugno 1934, a Lisbona il 31 ottobre 1958 e a Stoccolma il 14 luglio 1967. Fu uno dei primi trattati sulla proprietà intellettuale e proprietà industriale. https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/19670148/200904070000/0.232.04.pdf

[3]R. Franceschelli, “Sulla concorrenza sleale”, Riv. Dir. Ind., 1954, I, p. 589 ss.

[4]F. Carnelutti, “Concorrenza parassitaria?”, in Riv. Dir. civ., 1959, p. 491 ss.

[5]G. Ghidini, “La c.d. concorrenza parassitaria”, in Riv. Dir. Civ., 1964, I, p. 616 ss.

[6]Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 752, 17 aprile 1962, in Riv. dir. ind., 1962, II, 12 ss. (caso Alemagna c. Motta). Nella nota vicenda giudiziaria, una delle parti contestava, ad opera dell’altra, il compimento di plurime attività imitative, reiterate nel tempo, delle proprie iniziative imprenditoriali (queste ultime comprensive sia di atti di per sé illeciti, quali la contraffazione di marchi e brevetto, sia di atti di per sé “neutri”, quali la produzione di un analogo prodotto –un gelato di tipo americano e della sua confezione –, l’adozione della medesima forma cubica per la vendita di un gelato nonché di un analogo sistema di vendita per il panettone).

[7]D. Arcidiacono, “Parassitismo e imitazione servile non confusoria”, Torino, 2017, p. 119 ss. Sul punto, si veda Cass. Civ. Sez. I, sentenza n. 752, 17 aprile 1962 «poiché nel giudizio di concorrenza sleale non va isolatamente preso ciascun atto, che può anche essere lecito, ma va compiuto un apprezzamento complessivo dei fatti, ai fini della loro valutazione rispetto ai principi della correttezza professionale, la combinazione di essi può essere rivelatrice della manovra ordinata ai danni del concorrente, in quanto quegli atti, nella loro coordinazione, mettono capo all’attuazione di un mezzo sleale».

[8]Cass. Civ., sentenza n. 5852, 17 novembre 1984, in Riv. dir. ind., 1985, II, 3 e ss. Nel caso in questione, la società fornitrice di prodotti da campeggio contestava all’ex distributore l’imitazione e la commercializzazione, sotto il medesimo marchio e con slogan considerato denigratorio, del medesimo assortimento di prodotti venduti in costanza del rapporto di distribuzione.

[9]Chiarisce, infatti, la Corte che, se giurisprudenza e dottrina hanno ammesso la figura della concorrenza parassitaria, «non v’è ragione di ritenere indispensabile la ripetitività nel tempo di più atti imitativi, essendo perfettamente logico che, la sistematicità e continuità, da cronologicamente successive che sono nell’ipotesi di base, possano anche essere simultanee ed esprimersi nei caratteri quantitativi dell’imitazione».

[10]C. Paschi, “La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente”, Riv. dir. ind., fasc. 4-5, 2012, p. 223 ss.

[11]C. Paschi, op cit.

[12]Cass. Civ., Sez. I, sentenza n. 13423, 20 luglio 2004.

[13]Cass. Civ., Sez. I, sentenza n.25607, 12/10/2018 https://www.foroeuropeo.it/materie/concorrenza-diritto-civile/36027-concorrenza-parassitaria-nozione

[14]Cass. Civ., Sez. I, sentenza n.25607, 12/10/2018.

[15]Cass. Civ., Sez. I, sentenza n.25607, 12/10/2018.

 

Francesca Michetti

Francesca Michetti. Nasce a Chieti nel 1992. Laureata in giurisprudenza presso la LUISS Guido Carli con 110/110 e lode. Durante la stesura della tesi, dal titolo “Il divieto di perizia psicologica sull’imputato”, sviluppa un particolare e profondo interesse per lo studio del complesso rapporto tra il diritto, la psicologia e le neuroscienze. Spinta dal desiderio di avvicinarsi alla conoscenza scientifica del comportamento umano e dei meccanismi cognitivi e celebrali che lo governano, intraprende il dottorato in Business and Behavioral Science presso l’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara. Si descrive come una persona curiosa, riflessiva, precisa e determinata: le piace andare oltre la superficie di tutte le cose, alla ricerca del senso più profondo, di sé e degli altri.

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