L’emersione del concetto di concorso esterno nei reati associativi, seppur risalente all’8001, solo in epoca recente ha assunto notevole importanza a seguito delle diffuse esigenze di politica criminale che hanno determinato il sorgere di una quaestio juris sull’esonero o meno circa la punibilità ascrivibile alla categoria dei “colletti bianchi” (avvocati, notai, imprenditori, commercialisti, etc.) che non partecipino ad associazioni per delinquere di stampo mafioso ma, bensì, forniscano contributi occasionali a favore delle stesse.
Relativamente al tema del concorso esterno in associazione mafiosa, non v’è stata finora nel sistema penale italiano una norma che lo preveda espressamente, anzi, frutto di una « giurisprudenza creativa » per colmare un deficit di criminalizzazione di complesse fattispecie criminali, si è basato sulle disposizioni previste all’art.110 c.p., norma di parte generale, e all’art.416 bis c.p., norma di parte speciale.
Quanto alla prima, essa disciplina il c.d. «concursus delinquetium» ( rectius, concorso eventuale di persone, diverso dal concorso necessario) secondo cui «quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti». Quello previsto all’art.110 c.p., dunque, si estrinseca in un reato astrattamente monosoggettivo a manifestazione plurisoggettiva, rendendo così necessario il “connubio“ tra le due norme di stirpe diversa.
Ad opinione di chi scrive, appare giustificata, in tal senso, la metafora per cui «l’edificio del concorso esterno è stato costruito su sabbie mobili»2 basandosi, di per sé, su una norma estremamente indeterminata, risultando in parte contraria al c.d. principio di determinatezza, desumibile dall’art.25 co.2 Cost. e dall’art.13 co.2 Cost. (« …nei soli casi e modi previsti dalla legge »), e favorendo una facile violazione del c.d. principio di tassatività con la conseguente applicazione della norma penale anche al di fuori dei casi previsti dal legislatore.
L’art.416 bis c.p., invece, introdotto con la c.d. Legge Rognoni-La Torre del 1982 n.646, al fine rendere punibili condotte non riconducibili a quelle previste ex art.416 c.p., cioè all’associazione per delinquere semplice, ed avendo « un’attitudine plurioffensiva», 3 punisce chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone. Più precisamente, «l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali». 4
Non di meno, anche in questo caso è possibile percepire una indeterminatezza della littera legis nell’utilizzo di termini sociologici quali omertà ed assoggettamento come parametri definitori, insieme alla « forza di intimidazione del vincolo associativo », del c.d. metodo mafioso.
Fatte tali generali premesse, il presente contributo ha lo scopo di incentrarsi su quelli che sono i rischi che incorre un professionista legale nell’esercizio della sua attività di difesa e di consulenza verso clienti affiliati a consorterie di stampo mafioso, con un focus sul discrimen tra attività lecita e illecita dell’avvocato nelle ipotesi di concorso esterno o partecipazione ad associazione mafiosa.
La suggestiva tematica non è sicuramente annoverabile nella nuova prassi giurisprudenziale, in quanto già in epoca di associazionismo politico-terroristico, 5 la figura del «difensore-complice» era diffusamente oggetto di dibattito dottrinario.
Difatti, i frequenti interrogativi che alimentavano tali discussioni vertevano proprio sui limiti dell’attività «ultra mandatum» del difensore qualora fosse poi mutata in attività prestata a favore dell’associazione. Quale responsabilità penale?.
Preliminarmente, nel contesto in analisi, pare superfluo precisare il respingimento dell’idea per cui ogni forma di “connivenza“ del difensore con membri di organizzazioni criminali implichi per implicito una contiguità con gli stessi con conseguenti condotte perseguibili, fenomeno che rischierebbe solamente per alimentare una c.d. “giurisprudenza di lotta“ verso atteggiamenti esasperatamente repressivi.
In subiecta materia fondamentale è il rispetto delle norme deontologiche e processuali, richiamando come monito al principio dell’indipendenza del difensore « da ogni interesse personale, da ogni intrigo, da ogni influenza esterna di ogni cliente per quanto importante, da ogni condizionamento».6
Di qui, ne conseguono molteplici criticità nei rapporti tra difesa tecnica, rischio penale e doveri deontologici del professionista.
Un primo punctum dolens è costituito dal segreto professionale. Oltre alle disposizioni contenute nell’art. 622 c.p. e nell’art. 200 c.p.p., emerge dall’art.13 del Codice Deontologico Forense un dato per cui « l’avvocato è tenuto, nell’interesse del cliente e della parte assistita, alla rigorosa osservanza del segreto professionale e al massimo riserbo… » con le dovute eccezioni ex art. 28 co. 4 del CDF.7 Ebbene, con un’applicazione sistematica degli articoli summenzionati, bisogna cercare una soluzione evitando di arrecare un vulnus al diritto di difesa. Dunque, ove il giudice accerti ex art. 200, co. 2, c.p.p. l’infondatezza della dichiarazione resa dal difensore per esimersi dal deporre, l’eventuale risposta di quest’ultimo non potrebbe comunque integrare il delitto di cui all’art. 622 c.p., essendo l’ordine impartito dal giudice una “giusta causa” ai sensi della fattispecie incriminatrice de qua, ma potranno essere applicate sanzioni disciplinari ex artt. 13, 28 e 51 CDF.
Un secondo aspetto critico concerne invece l’attività di consulenza dell’avvocato svolta « ante factum », cioè prima della formale iscrizione a ruolo di un procedimento penale. In simili situazioni, l’associazione e la complessa rete di relazioni tipiche delle associazioni mafiose finiscono per divenire una «pericolosa ragnatela che cattura i professionisti con i quali entra in contatto». 8
L’interesse dei penalisti circa la tematica del concorso esterno è stato più recentemente indirizzato sulla sentenza della CEDU ( Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) e gli effetti che il “caso Contrada” 9( CEDU, sent. 14 aprile 2015, ricorso n. 66655/13, Contrada c. Italia) ha comportato nel nostro ordinamento penalistico.
Come si è visto, è specialmente quando il professionista si trovi ad assistere accusati della stessa famiglia mafiosa che il rischio di ogni suo comportamento finisca per essere perseguibile, qualificandolo come contributo punibile a titolo di concorso esterno.
Si necessita, allora, di una fondamentale fissazione dei minimali termini, in osservanza del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, sulla punibilità della condotta posta in essere dall’avvocato nel caso in esame.
Una prima decisione 10 rilevante degli Ermellini ha previsto, come “tallone di Achille“ per valutare una eventuale responsabilità del difensore, il “grado di coinvolgimento” nelle attività del proprio cliente. Sarà quindi illecita quella attività in cui « l’avvocato si lasci coinvolgere in prima persona nelle attività del suo assistito, appiattendosi in una logica di asservimento degli interessi di quest’ultimo, abdicando così al proprio ruolo e diventando un socio in quella attività ».
L’avvocato, da consigliere, finisce così per mutare in «consigliori» 11(nel gergo italo-americano), cioè «il consigliere di fiducia della associazione mafiosa con il compito, in quanto esperto di leggi e di finanza, di suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenti. Di conseguenza, risponde di concorso (interno o esterno a seconda delle concrete situazioni) in associazione mafiosa l’avvocato che, lasciandosi coinvolgere nella attività del cliente mafioso, abdica al suo ruolo e, o diventando socio in quella attività, o fornendo consigli, pareri e assistenza contra legem, contribuisce con quella sua attività alla conservazione, rafforzamento e realizzazione del programma criminoso dell’associazione mafiosa».
In tempi più recenti, una pronuncia della Cassazione12 ha affermato che «integra la condotta di “concorso esterno” l’attività del professionista che, in esecuzione di una promessa fatta ai vertici dell’associazione mafiosa, assicuri il suo concreto impegno nell’irregolare gestione di un procedimento giudiziario, posto che il sodalizio si rafforza comunque per effetto di quel contributo, non essendo necessario che i propositi delittuosi siano stati concretamente realizzati». In tale situazione, i giudici di legittimità hanno considerato integrata a pieno la sussistenza del reato de quo in quanto il difensore, sprovvisto di mandato difensivo o procedendo nell’attività c.d. ultra mandatum, aveva proceduto in una serie di condotte illecite quali suggerimenti per eludere le investigazioni, influenzando illegalmente gli esiti dei procedimenti penali.
Nello stesso passo della sentenza, emerge una chiaro throwback al concetto di « causalità » pre- Mannino-bis13 , scardinando quei principi garantisti sanciti dalle SU nel 2005, valorizzando in modo eccessivo l’impegno “assicurato“ dall’avvocato al sodalizio ed espandendo nel contempo la nozione di evento.
Può essere interessante notare come tutte queste problematiche, dall’individuazione dei margini di liceità nell’attività del difensore alla causalità nel concorso esterno o anche quello dell’eccessiva centralità che viene attribuita ai c.d. collaboratori di giustizia, quotidianamente oggetto di cronaca giudiziaria, finiscono sempre più per ricadere nella spirale della vasta casistica giurisprudenziale che offre in pejus “un’inseguimento del fatto“ grazie all’elevato potenziale punitivo di repressione delle strutture malavitose fornito dall’art.416 bis c.p..
Orbene, tenga a mente il lettore che, nell’esigenza di espandere la “valvola“ di punibilità, non bisogna finire per ricomprendervi anche quei semplici comportamenti deontologicamente o moralmente scorretti (frutto di condotte di compiacenza o mera vicinanza) che finiscono per non assumere rilevanza penale nei diversi gradi di giudizio; bensì bisognerebbe ipotizzare misure sanzionatorie alternative, arginando al tempo stesso il fenomeno frequente di applicazione indiscriminata del concorso esterno, il che potrebbe «sollevare la giurisprudenza dall’onere di compiere gravose scelte selettive dall’area del penalmente rilevante non confortate da precise indicazioni normative». 14
[1] A. MANNA , Corso di diritto penale. Parte generale, Padova, 2012, p.484;
[2] v. http://dirittifondamentali.it/wp-content/uploads/2019/04/ferrante_2014.pdf p.12;
[3] G.FIANDACA – E.MUSCO, Diritto penale. Parte Speciale,Vol. I, Bologna, Zanichelli, 2012, p.493;
[4] Terzo comma art.416 bis c.p.;
[5] C.VISCONTI, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, Giappichelli, 2003, p. 87 e ss.;
[6] G.C.HAZARD – A.DONDI, Etiche della professione legale, Bologna, Il Mulino, 2005, pp.228; Nel codice attuale il dovere di indipendenza è previsto all’art. 6, ai sensi del quale «l’avvocato non deve svolgere attività comunque incompatibili con i doveri di indipendenza, dignità e decoro della professione forense»;
[7] L’avvocato è legittimato alla divulgazione di quanto appreso nell’esercizio della propria attività se risulta necessario «a) per lo svolgimento dell’attività di difesa; b) per impedire la commissione di un reato di particolare gravità; c) per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita; d) nell’ambito di una procedura disciplinare. In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario per il fine tutelato»;
[8] C.VISCONTI, Difesa di mafia e rischio penale, in Foro it., II, 1997, c.615;
[9]Per i giudici europei, Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti»;
[10] Sent. Cass. Pen. Sez. II , 29 aprile 2014, n.17894
[11] Sent. Cass. Pen. Sez. VI, 9 settembre 2019, n. 25619
[12] Nel caso in esame Tizio era stato accusato di aver svolto la sua funzione in violazione dei doveri professionali, mettendo a disposizione ed in modo stabile la propria attività in favore degli affiliati ad un locale gestito dalla ‘ndrangheta, v. Cass. Pen., Sez. VI, sent. 4 giugno 2019, n. 32373 ( testo sentenza: https://app.vlex.com/#vid/808005585) ;
[13] «Non è affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo», v. Cass. Pen., Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 3374;
[14] C.VISCONTI, Difesa di mafia e rischio penale, cit.,c.630

Federica Lidia Marchitto nasce a Benevento il 10 dicembre 1997. Dopo aver conseguito la maturità scientifica presso il Liceo Rummo, si iscrive nel 2016 alla facoltà di Giurisprudenza presso l’Università di Bologna “Alma Mater Studiorum”. Nel novembre 2021 consegue il titolo di dottore magistrale in giurisprudenza discutendo una tesi in Diritto Amministrativo intitolata “La tutela degli interessi sovraindividuali nel procedimento e nel processo amministrativo” (relatori il Prof. Nicola Aicardi e la Prof.ssa Elena Ferioli).
Durante il percorso universitario sviluppa un particolare interesse per il Diritto Penale e prende parte a diverse attività extracurriculari promosse dall’ateneo come processi simulati e seminari.
Nel corso dell’ultimo anno universitario ha svolto positivamente un tirocinio di 175 ore presso la Procura della Repubblica di Bologna partecipando attivamente alle udienze penali a fianco del Pubblico Ministero.
Attualmente svolge il Tirocinio Formativo ex art. 73 d.l. n. 69/2013 presso la Seconda Sezione Penale del Tribunale di Milano (diritto penale dell’economia), con Magistrato affidatario la Presidente Dr.ssa Flores Tanga.
Frequenta il corso di magistratura ordinario presso la Scuola Greco-Pittella e collabora con l’Area Penale della rivista “Ius in itinere”.
Indirizzo mail : marchittofedericalidia@gmail.com