venerdì, Marzo 29, 2024
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La COP26 il suo impatto “green” nel settore moda

La COP26 il suo impatto “green” nel settore moda

a cura di Avv. Martina Cergnai

Alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, conosciuta anche come COP26, che si è tenuta a Glasgow in Scozia dal 31 ottobre al 12 novembre 2021 [1] i grandi paesi industrializzati si sono riuniti per discutere e dar seguito agli impegni assunti nel 2015 alla conferenza di Parigi sul clima e riguardanti in particolare l’obiettivo comune teso ad accelerare la transizione dal carbone all’energia pulita[2] e a proteggere e ripristinare la natura a beneficio delle persone e del clima[3].

Per scongiurare conseguenze disastrose ed irreversibili per il nostro pianeta, tutti i paesi dovranno infatti nel breve termine impegnarsi – tra le altre cose – a ridurre drasticamente le proprie emissioni di carbonio[4], portandole quasi a zero entro il 2050 e in questo quadro complessivo anche l’industria della moda dovrà fare la sua parte.

Il settore del Fashion e più in generale del tessile al giorno d’oggi emette infatti, da solo, fino al 10% delle emissioni globali di gas a effetto serra pertanto una sua “conversione green” è più che mai urgente ed indispensabile.

Secondo quanto emerso dalla Conferenza di Glasgow appena conclusa la COP26 sarà quindi chiamata ad elaborare urgentemente nuovi standard da applicare alla Carta per l’Azione Climatica dell’Industria della Moda.

Tale Carta, stipulata nel 2018, ha come missione quella “di portare l’industria del tessile, dell’abbigliamento e della moda in generale a raggiungere le zero emissioni di gas serra entro il 2050 in linea con l’ambizione dell’Accordo di Parigi di mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi sopra i livelli preindustriali”[5].

La Carta ha finora ottenuto importanti adesioni da parte di 130 aziende e 41 organizzazioni – inclusi alcuni dei marchi più noti come Stella McCartney, Burberry, H&M Group, Adidas, il gruppo Kering, Chanel, Nike, PUMA e altri – che si stanno già impegnando nel contrasto al cambiamento climatico[6].

Burberry in particolare ha annunciato alla Cop 26 che si attiverà per dar seguito agli impegni assunti alla Conferenza di Parigi del 2015 attraverso una nuova strategia volta al rispetto delle biodiversità e che si concentrerà essenzialmente sulla protezione della natura attraverso il Burberry “Regeneration Fund”[7], sull’intensificazione del sostegno alle comunità agricole attraverso le quali il famoso brand si rifornisce di materie prime e sullo sviluppo di catene di approvvigionamento di tipo rigenerativo.

Burberry è inoltre “il primo marchio di lusso ad aver firmato la “Leaf coalition” con un investimento in quella che dovrebbe diventare la più grande iniziativa pubblico-privata del mondo che fornisce finanziamenti basati sui risultati ai paesi impegnati a fare ambiziose riduzioni della deforestazione tropicale. Inoltre, ridurrà anche il proprio impatto sulla biodiversità attraverso l’approvvigionamento di materie prime più sostenibili e assicurando che i materiali chiave siano tracciabili, certificati o riciclati entro il 2025”[8]

Un modello esemplare a livello nazionale – e a supporto della sostenibilità ambientale – è invece rappresentato dalla famosa casa di moda Armani.

La maison ha infatti annunciato di ambire a “dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030 rispetto al 2019 e ridurre del 42% le emissioni derivanti dall’acquisto di beni e servizi e dal trasporto e distribuzione a valle entro il 2029, sempre rispetto al 2019[9] e questo programma risulta perfettamente in linea con quanto stabilito nel succitato Accordo di Parigi del 2015 e con gli obiettivi prefissati con la Cop26.

Ma in questo quadro complessivo in realtà quello che interessa maggiormente è come (e se) il fast fashion, peraltro strettamente legato al mondo dello shopping online, si adeguerà a questi cambiamenti.

Il fast fashion è infatti il settore che presenta maggiori criticità all’adeguamento alle “politiche green” proprio per la sua stessa natura: quella di ridurre i costi e accelerare i tempi di produzione.

Come sappiamo bene infatti per realizzare i propri vestiti le industrie della moda del fast fashion fanno largo uso di materiali quali poliestere e cotone: il primo principale responsabile delle microplastiche nei nostri mari il secondo invece (attraverso le coltivazioni intensive) rappresenta la principale causa di siccità dei paesi in via di sviluppo, disboscamenti e riduzione delle biodiversità[10].

In questo contesto quindi l’obiettivo della COP26 è quello di riuscire a monitorare lo stato di avanzamento dei lavori al fine di valutarne quindi il processo di lavorazione e il suo impatto ambientale.

Un esempio in ambito di commercio online e che sta andando proprio nella direzione della sostenibilità in realtà lo abbiamo già ed è quello rappresentato da Vestiaire Collective, un importante azienda francese, che gestisce – attraverso l’omonimo marketplace – un sito di moda specializzato per l’acquisto di prodotti di seconda mano di lusso.

Questa azienda ha recentemente intrapreso una strategia tesa alla riduzione delle emissioni di CO2 lavorando ad un nuovo servizio di spedizione (che ha permesso fino ad ora alla stessa di risparmiare oltre 1.000 tonnellate di CO2) e ad un packaging innovativo, totalmente riciclato e 100% riciclabile. L’azienda peraltro ha da poco ottenuto la Certificazione B-Corp certificazione che contraddistingue le aziende che la posseggono rispetto alle altre per il loro obiettivo comune teso a massimizzare l’impatto positivo di queste realtà economiche verso la comunità e l’ambiente.La certificazione B–Corp è attualmente presente in 153 settori e in oltre 77 Paesi ed ha un unico obiettivo: “quello di definire un nuovo sistema di business adeguato ai nostri tempi, concreto e replicabile e che contemporaneamente rappresenti una soluzione concreta, positiva e scalabile che crea valore sia per gli azionisti che per tutti gli stakeholder[11]”.

Insomma anche il settore del Fashion sembra stia cominciando a compiere i primi passi verso un deciso cambiamento: le case di moda stanno iniziando a capire l’effettiva importanza di adeguarsi e adattare la propria realtà produttiva in un’ottica più green e sostenibile e stanno cominciando quindi a giocare il proprio ruolo contro i cambiamenti climatici.

[1] UK to host 2020 UN climate summit, COP26, su eciu.net.

[2] Accelerating the transition from coal to clean power, su ukcop26.org.

[3] Protecting and restoring nature for the benefit of people and climate, su ukcop26.org.

4 Azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi, su ukcop26.org.

5 Sul punto si legga L’industria della moda intensifica l’ambizione climatica rinnovando la Carta, edito su Digital360, disponibile al link https://www.esg360.it/environmental/lindustria-della-moda-intensifica-lambizione-climatica-con-la-carta-rinnovata/

6 Cfr. nota n.5

7 Si veda la campagna di Burberry al link https://it.burberry.com/per-un-futuro-migliore/

[8] Si confronti con le fonti edite su Fashion United al link https://fashionunited.it/news/moda/burberry-annuncia-una-strategia-per-la-biodiversita-alla-cop26/2021110922622

[9] Fonte dati: www.Ilsole24ore.com

[10] Si legga L’impatto della produzione e dei rifiuti tessili sull’ambiente (infografica) sul sito del Parlamento Europeo al link https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20201208STO93327/l-impatto-della-produzione-e-dei-rifiuti-tessili-sull-ambiente-infografica

[11] https://bcorporation.eu/about-b-lab/country-partner/italy

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