Coprotagonisti o comparse? Gli Enti Locali nella procedura di stipulazione delle intese ex art. 116, comma 3 Cost. dopo la legge 24 giugno 2024, n. 86
A cura di Alvise Accordati
Nel silenzio della norma
Il 19 giugno 2024 la Camera dei Deputati ha adottato il d.d.l. in materia di autonomia differenziata, già approvato dal Senato della Repubblica, con legge 24 giugno 2024, n. 86 “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” in vigore dal 13 luglio 2024.
Com’è noto, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione, le Regioni a statuto ordinario possono, previa stipulazione di apposita intesa approvata con legge dal Parlamento, ottenere l’attribuzione delle materie soggette alla competenza legislativa concorrente ex art. 117 Cost. Molte Regioni hanno avviato tale procedura di devoluzione, altre hanno manifestato la volontà di farlo.
Dell’argomento si potrebbero approfondire numerosi aspetti: giuridici, politici, economici, finanche sociali. Ciò che queste poche righe si propongono è, invece, un breve approfondimento circa un aspetto specifico dell’iter procedimentale positivizzato tanto dal testo costituzionale quanto dalla recente legge. Il focus è infatti dedicato agli attori costituzionali diversi dalle Regioni, ossia le autonomie locali, erroneamente considerati secondari ma nondimeno significativi nel processo di trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni.
Nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza gli Enti Locali sono i livelli di governo maggiormente prossimi al cittadino e, assieme a quelli sovraordinati, concorrono a pieno titolo a dar vita alla Repubblica (art. 114 Cost.)[1].
Lo spunto da cui muove la presente riflessione è il silenzio della norma, segnatamente dell’art. 116, ultimo comma, Cost. in materia di autonomia differenziata, su quale debba o possa essere il ruolo che gli Enti Locali sono chiamati ad assumere in sede di concertazione dei contenuti delle intese. Invero la norma stabilisce che “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’art. 117[…] possono essere attribuite ad altre Regioni […] sentiti gli enti locali”.
Cosa significa, dunque, “sentire”[2]?
La Carta fondamentale, come riscritta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, non lo precisa. Cionondimeno, trattasi di un rilevante passaggio del testo, per due motivi almeno.
Il primo di essi attiene alla leale collaborazione e al coinvolgimento di tutti gli attori istituzionali nelle strategie di concertazione, anche e segnatamente coloro sui quali dovrà ricadere parte della componente attuativa della devoluzione. Quello più rilevante, tuttavia, impone una lettura sistematica della Costituzione ed in particolare dell’art. 5, collocato tra i principi fondamentali, il quale sancisce che “La Repubblica […] riconosce e promuove le autonomie locali”.
Stante il carattere fondante della disposizione in parola, è chiaro che il procedimento di determinazione dei contenuti della devoluzione non possa prescindere da una adeguata ponderazione delle esigenze dei vari attori istituzionali (Stato, Regioni ma anche autonomie territoriali).
Ciò che queste (poche) righe si propongono è una sintesi delle posizioni già emerse in dottrina ed un confronto con il testo della recente legge.
I nodi irrisolti
La legge 26 giugno 2024, n. 86, ha, inter alia, positivizzato la procedura di formazione dell’intesa e di approvazione della legge di attuazione. Tuttavia, ricalcando il testo costituzionale, la medesima legge ha omesso di stabilire la modalità con cui la Giunta Regionale (od eventualmente il Consiglio) è chiamata a rapportarsi con gli Enti Locali per assumerne le relative posizioni[3].
In sede di determinazione dei contenuti delle intese, che dovranno essere approvate a maggioranza assoluta delle Camere (art. 116, ultimo comma, Cost.), il ruolo degli enti locali è e resta ancora vago.
Tale libertà delle forme può invero essere intesa come un assist alle singole Regioni, affinché le stesse possano autonomamente determinare le modalità, anche procedurali, con le quali gli Enti Locali (perlomeno, i più significativi) possano far sentire la propria voce. E ciò ben potrebbe essere un risvolto di quella libertà che caratterizza la stessa identificazione dell’organo chiamato ad avviare il processo di trattativa con il Governo[4].
Nel silenzio della norma, poi, già in passato la prassi ha fatto il resto. Per comprendere in che misura gli enti locali hanno sin d’ora compartecipato al cammino verso il c.d. “regionalismo differenziato” può essere utile analizzare alcune esperienze recenti per considerare il grado e le modalità di coinvolgimento degli enti più prossimi al cittadino.
In dottrina si era già evidenziata l’opportuna posizione del CAL (Consiglio delle Autonomie Locali), quale organo costituzionalmente previsto e sede di confronto fra le realtà territoriali e regionali. È stato osservato che “ll loro ruolo, con riguardo alla procedura di cui all’art. 116, comma 3, Cost. non dovrebbe risultare puramente marginale o ratificatorio, proprio perché essi sono stati immaginati come organi chiamati a svolgere funzioni consultive con precipuo riferimento alla funzione legislativa”[5]. Nondimeno, la mancata menzione dell’art. 123, comma 4 Cost. nel testo dell’ultimo comma dell’art. 116 della Carta fondamentale aveva portato taluni ad escludere che si potesse immaginare un vero e proprio richiamo del Consiglio delle Autonomie, seppure previsto dal testo costituzionale[6].
Un rilievo critico attiene alla rappresentatività del CAL e al suo essere effettivo portatore delle istanze delle realtà territoriali. Dopotutto, è la legge regionale che stabilisce le modalità di organizzazione e di composizione dell’organo. Ove lo stesso appaia rappresentativo solo di porzioni delle collettività locali che insistono nel territorio regionale, sarebbe lecito dubitare della effettiva coralità della posizione che lo stesso potrebbe assumere. Tuttavia, l’autonomia statutaria si è sovente premurata di assicurare che l’organo collegiale sia caratterizzato da rappresentatività territoriale. Ne è un esempio l’art. 16, comma 2 dello Statuto della Regione del Veneto il quale stabilisce che “La legge regionale disciplina la composizione del Consiglio, secondo criteri di rappresentanza territoriale”, assicurando altresì, al successivo comma, “la partecipazione, senza diritto di voto, di rappresentanti delle autonomie funzionali e, in particolare, delle camere di commercio, industria, artigianato ed agricoltura e delle università venete”[7] .
Diversamente, un pieno coinvolgimento degli enti territoriali mediante audizione “come singoli” (quindi mediante un’interpretazione assai ampia del verbo “sentire” utilizzato in primis dal testo costituzionale) imporrebbe l’audizione di ciascun Comune e Provincia (o Città Metropolitana, ove esistente) mediante acquisizione di osservazioni su bozze di intesa già predisposte dall’organo regionale trattante. Ciò non solo appare complicato alla luce della molteplicità di enti che la Regione sarebbe tenuta a sentire, ma verrebbe anche da domandarsi se una tale partecipazione coram populi in questa forma avrebbe senso, dal momento che aggraverebbe eccessivamente il procedimento di convergenza sui contenuti dell’intesa.
Interessante in questo senso il caso del percorso verso l’autonomia differenziata seguita dalla Regione Emilia-Romagna. Il documento approvato dalla Giunta Regionale in data 28 agosto 2017, come evidenziato dalla dottrina, è stato oggetto di preventive concertazioni con gli enti locali del territorio (segnatamente, Comuni capoluogo, le Province e la Città Metropolitana di Bologna) ed anche enti ed istituzioni espressione di interessi socioeconomici regionali[8].
I casi di Veneto e Lombardia offrono invece spunti di riflessione per paragonare la realtà dei fatti con il dettato costituzionale. Il 22 ottobre 2017 gli elettori regionali sono stati chiamati alle urne per esprimere in via referendaria la propria adesione al percorso verso l’autonomia differenziata. A prescindere dal merito, ciò che interessa in questa sede è il coinvolgimento dell’elettorato nella scelta di proseguire il cammino verso la devoluzione di competenze dallo Stato alle Regioni. Aver infatti coinvolto la collettività regionale in una scelta di questo tipo ha consentito, nell’ottica regionale, di sondare direttamente la volontà territoriale (ritenuta così eventualmente “assorbente” la posizione degli Enti Locali, ferma la possibilità di effettuare comunque forme di consultazione degli enti territoriali).
Restano in ogni caso non chiariti dalla littera legis almeno un paio di nodi procedurali già evidenziati dalla dottrina[9].
La stipulazione dell’intesa (o di una sua bozza) senza la previa audizione degli enti locali comporta la violazione diretta del testo costituzionale (e, da poco, anche di quello legislativo)[10].
Ancora, altro nodo centrale attiene al momento in cui gli enti locali sono chiamati a rendere nota la propria posizione: è stato osservato che “nel silenzio del testo, tutte le soluzioni appaiono legittime”[11]. In una prospettiva logica e di favor partecipationis parrebbe forse più condivisibile la tesi secondo cui gli enti territoriali siano chiamati ad esprimersi preventivamente sulla proposta di intesa, cioè prima della sottoscrizione tra Stato e Regione[12], affinché il prodotto finale sia effettivamente il risultato della vox populilocale confluita nelle istanze fatte proprie dall’organo titolare dell’iniziativa a livello regionale. Va in ogni caso evidenziato che il punto non è pacifico, stante il carattere laconico della previsione costituzionale, ove può ben essere che l’avallo (o il rilievo critico) degli enti locali intervenga in un momento in un momento diverso.
Quale ruolo per gli Enti Locali?
Al netto delle considerazioni effettuate, in realtà più un compendio di spunti già emersi in dottrina, la questione di fondo è una e cioè se si sia perduta la possibilità di specificare, mediante la recente legge “procedurale”, il ruolo che le autonomie locali possono assumere in sede di concertazione dei contenuti delle intese.
Senz’altro è importante che la norma lasci all’autonomia statutaria delle singole Regioni la scelta sulle modalità con cui acquisire le posizioni degli Enti Locali che compongono i rispettivi territori. La prospettiva di coinvolgimento del CAL può apparire opportuna e, trattandosi di organo costituzionalmente previsto, forse la menzione nel testo legislativo poteva essere apprezzabile. Dopotutto, si tratta del luogo di confronto fra le istanze locali e regionali e sede di elaborazione di prospettive quanto più possibile sinergiche. Spingere per una sua maggiore valorizzazione nei cammini di attuazione dell’art. 116, ultimo comma Cost. eventualmente attivabili dalle Regioni significherebbe riconoscere importanza ad un importante strumento di raccordo introdotto dalla riforma del Titolo V.
Va comunque precisato che le posizioni espresse da un CAL potrebbero comunque essere superabili da parte della Regione: sempre lo Statuto della Regione del Veneto, per esempio, prevede la facoltà di superare motivatamente il parere del CAL espresso nelle materie in cui lo stesso può essere chiamato ad esprimersi (tra le quali non rientrano, in quanto non menzionate, le intese ex art. 116 Cost.)[13].
Per quanto attiene, invece, ai nodi procedurali relativi a quali debbano essere gli enti coinvolti (Comuni capoluogo, Province, Città Metropolitane, Unioni di Comuni), al momento di in cui i pareri delle autonomie locali debbano pervenire alla Giunta (o al Consiglio Regionale) prima ovvero dopo l’elaborazione della bozza di intesa e al grado di vincolatività degli stessi, probabilmente la vaghezza della formulazione legislativa è una clausola di salvezza dell’autonomia organizzativa dell’iter a livello territoriale.
All’indomani della nuova legge, ciascun ordinamento regionale potrà dunque, con propri strumenti normativi, eventualmente specificare tali modalità senza invadere le scelte procedurali attuate dal Parlamento con la legge n. 86 del 2024. Si tratta, a ben vedere, di un coinvolgimento a “geometria variabile” che ben può perciò adattarsi alle diverse situazioni territoriali. E pare proprio questa la prospettiva del Legislatore, dal momento che lo stesso art. 2, comma 1 della legge n. 86 del 2024, disciplinando la formazione dell’atto di indirizzo, richiama espressamente “le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria”, tra le quali, tra l’latro, rientra la stessa consultazione degli Enti Locali.
[1] Sul punto va doverosamente menzionata la prospettiva ermeneutica ben ricostruita da G.M. De Muro in Commento all’art. 114 della Costituzione (in Commento alla Costituzione, Utet, 2006, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti) pp. 7 e ss. In tal senso, la norma costituzionale va letta in combinato disposto con l’art. 5 Cost., che sancisce l’indivisibilità della Repubblica. Ciò comporta che, come sostenuto in C. Pinelli, L’ordinamento Repubblicano nel nuovo impianto del Titolo V, in S. Gambino (a cura di), Il ‘nuovo’ ordinamento regionale. Competenze e diritti, 2003, pp. 160-161 cit., “Il “nuovo” titolo V […] “parifica” gli enti territoriali autonomi, ma non ammette che, in virtù della parità, un potere locale possa prevalere sull’unità e l’indivisibilità della Repubblica”. È questa peraltro la prospettiva di Corte cost. n. 274/2003 e, in tal senso, anche di Corte cost. n. 365/2007. Per approfondimenti, si rinvia a R. Di Maria, C. Napoli, A. Pertici, Diritto delle Autonomie Locali, Giappichelli, Torino, 2019, p. 232 e ss.
[2] Un’efficace sintesi delle problematiche attinenti alla questione è proposta da D. Casanova, Il procedimento di attuazione del regionalismo differenziato, in Convegno Gruppo di Pisa “Il regionalismo italiano alla prova delle differenziazioni” 18-19 settembre 2020, consultato al link https://gruppodipisa.it/images/convegni/2020_Convegno_Trento/Daniele_Casanova__Il_procedimento_di_attuaz
ione_del_regionalismo_differenziato.pdf
[3] Si veda l’art. 2, comma 1 del testo, che sostanzialmente ricalca la fonte costituzionale sovraordinata.
[4] Non sono mancate esperienze regionali in cui l’iter procedimentale ha visto un protagonismo dell’organo consiliare. Su tutte, si veda quella della Lombardia, laddove uno degli atti più significativi del cammino verso l’autonomia differenziata è la deliberazione del Consiglio Regionale n. 97 del 7 ottobre 2017. Più diffusamente sul punto v. D. Casanova, Il regionalismo italiano, cit., p. 3.
[5] G. Tarli Barbieri, Verso un regionalismo differenziato o verso un regionalismo confuso? Appunti sulla (presunta) attuazione dell’art. 116, comma 3, cost., in Osservatorio sulle fonti, 2/2019, cit., p. 17.
[6] Evidenzia il mancato richiamo esplicito all’art. 123, comma 4 Cost. il contributo di M. Olivetti, Il regionalismo differenziato alla prova dell’esame parlamentare, in www.federalismi.it, 6/2019, cit., p. 20.
[7] Si veda, nello specifico, la L.R. 25 settembre 2017, n. 31 “Istituzione del Consiglio delle Autonomie” a termini della quale (art. 2, commi 2 e 3), per garantire la rappresentatività dell’organo: Sono componenti di diritto: a) i presidenti delle province del Veneto; b) il sindaco della Città metropolitana di Venezia; c) i sindaci dei comuni capoluogo di provincia e di Regione, ovvero il vicesindaco del comune capoluogo, qualora il sindaco cumuli anche la carica di presidente di provincia o di sindaco della Città metropolitana; d) un rappresentante dell’Associazione regionale comuni del Veneto (ANCI); e) un rappresentante dell’Unione nazionale comuni comunità enti montani – delegazione regionale del Veneto (UNCEM); f) un rappresentante dell’Associazione nazionale piccoli comuni d’Italia (ANPCI). 3. Sono componenti elettivi: a) dieci sindaci di comuni non capoluogo di provincia di cui sei appartenenti a comuni con popolazione fino a cinquemila abitanti e comunque di cui almeno uno per provincia; b) due presidenti di unioni di comuni; c) un presidente di unione montana”.
[8] C. Tubertini, La proposta di autonomia differenziata delle Regioni del Nord: una differenziazione solidale?, in www.federalismi.it, 7/2018, cit., p. 323
[9] Si veda, sul punto, D. Casanova, Il regionalismo italiano, cit. p. 5
[10] Sotto questo punto di vista sarebbe immaginabile un vizio dell’intesa, sub specie di violazione di legge, ove la stessa omettesse completamente il passaggio in parola. Sul punto, si veda anche G. Tarli Barbieri, Verso un regionalismo differenziato, cit., p. 17. Il problema andrebbe però inquadrato alla luce della natura dell’atto, che parrebbe piuttosto rientrare tra quelli immuni dalla giurisdizione amministrativa ex art. 7 c.p.a. quale “atto politico”.
[11] A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art.116, comma 3, della Costituzione, in Federalismo fiscale, 1/2017, cit. p. 171.
[12] Ibidem, cit.
[13] Art. 16, comma 7 dello Statuto regionale. Ma sul punto si veda anche l’art. 54, comma 4 dello Statuto della Regione Lombardia che consente di superare motivatamente i pareri del CAL.