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Corte di Cassazione, Sez. Unite Penali, sentenza 26 novembre 2020 – 17 marzo 2021, n. 10381 sull’applicabilità dell’art. 384, comma 1, c.p. al convivente more uxorio

A cura del dott. Domenico de Vivo

La quaestio iuris

Con ordinanza n. 1825 del 2020, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione rimetteva alle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: «Se la causa di non punibilità di cui all’art. 384, comma 1, c.p. sia applicabile al convivente more uxorio».

L’istituto

La giurisprudenza più recente qualifica l’art. 384 c.p. come una causa soggettiva di esclusione della colpevolezza, in quanto connessa alla particolare situazione psicologica in cui viene a trovarsi l’agente, che rende inesigibile un comportamento conforme alle previsioni normative.

Più specificamente, la norma de qua prevede – in relazione a numerosi delitti contro l’amministrazione della giustizia, ivi espressamente indicati – che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.

La locuzione “prossimo congiunto” impone un richiamo all’art. 307, comma 4, c.p. che ne offre una puntuale definizione (“…s’intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”) ma non ricomprende nel suo tassativo novero l’ipotesi del convivente more uxorio.

Invero, sebbene la cd. “Legge Cirinnà” del 2016 abbia provveduto ad aggiungere nella summenzionata cerchia la categoria dei soggetti uniti civilmente, continua a non esservi alcun riferimento nei riguardi di siffatti modelli relazionali.

Da ciò trae origine la vexata quaestio.

Il caso

La pronuncia in esame prende le mosse dal ricorso presentato dal difensore dell’imputata L.F. avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Cagliari che, confermando la decisione del Giudice di prime cure, condannava la predetta in ordine al reato di “favoreggiamento personale” di cui all’art. 378 c.p. per aver aiutato N.T. – colpevole dei reati di cui agli artt. 116 e 189, commi 1 e 7, di cui al D.Lgs. n. 285 del 1992 (guida senza patente e mancata assistenza successiva alla collisione tra autoveicoli con feriti) – ad eludere le investigazioni dell’autorità, dichiarando falsamente ai C.C.  intervenuti sul luogo che era lei stessa alla guida dell’autoveicolo coinvolto nella succitata collisione.

In particolare, con due motivi di ricorso, la difesa deduceva il vizio cumulativo della motivazione con violazione dell’art. 603 c.p.p., dolendosi dell’omessa rinnovazione dibattimentale volta ad accertare l’esistenza del rapporto di convivenza tra l’imputata e l’uomo ritenuto alla guida del veicolo; la violazione dell’art. 384 c.p., in relazione alla ritenuta mancata prova dell’esistenza di un rapporto more uxorio tra i coimputati, tenuto conto delle allegazioni che documentavano la loro coabitazione.

La Sesta Sezione della Corte di Cassazione, esaminati i motivi di ricorso, riteneva pregiudiziale rispetto al loro vaglio la questione sottesa riguardante l’applicabilità della causa scriminante di cui all’art. 384, comma 1, c.p. al convivente more uxorio.

Sul punto, la Sezione rimettente rilevava due opposti orientamenti giurisprudenziali: l’uno maggioritario e contrario al riconoscimento di tale estensione, l’altro, più recente, di segno favorevole.

In particolare, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente citato nell’ordinanza di rimessione, non può essere applicata al convivente more uxorio l’estensione della causa di non punibilità operante per il coniuge, anzitutto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 384, comma primo, e 307, comma quarto, c.p. i quali non includono nella nozione di “prossimi congiunti” il convivente more uxorio.

In secondo luogo, tale indirizzo esclude la possibilità di assimilare le convivenze ai rapporti coniugali in virtù della differente fisionomia che li contraddistingue: le prime, caratterizzate da un’affectio revocabile in qualunque momento, i secondi, caratterizzati, al contrario, da stabilità e dalla sussistenza di scambievoli diritti e doveri. Parimenti, rileva il differente fondamento costituzionale sotteso a tali rapporti: il coniugio espressamente tutelato dall’art. 29 Cost., mentre la convivenza dall’art.2 Cost. come formazione sociale in cui si esercita la libertà individuale.

Ancora, l’orientamento contrario all’equiparazione sul piano esegetico del convivente more uxorio al coniuge ai fini dell’operatività del primo comma dell’art. 384 c.p., valorizza:

  • la natura eccezionale della predetta norma, di guisa da escluderne la possibilità di interpretazione analogica (art. 14 delle Preleggi);

  • la presa di posizione compiuta dal legislatore con la cd. “Legge Cirinnà”, che ha modificato, per quel che qui rileva, la definizione dei “prossimi congiunti” agli effetti della legge penale ex art. 307 c.p., non includendovi i conviventi di fatto.

Di contro, secondo l’orientamento più recente e di segno opposto, anch’esso citato nell’ordinanza di rimessione, è possibile estendere in via analogica l’esimente “in bonam partem” per il convivente more uxorio sulla base dell’art. 8 CEDU che considera la famiglia in senso dinamico, come una formazione sociale in perenne divenire, sganciata dal concetto di matrimonio inteso come istituzione immutabile e statica.

Altresì, tale indirizzo giurisprudenziale evidenzia la contraddizione insita nell’orientamento negativo che sostiene l’inammissibilità dell’equiparazione tra coniugio e convivenza ai fini dell’applicazione di una causa di non punibilità, ma nel contempo attribuisce rilievo alla convivenza allorché da ciò derivino effetti giuridici in malam partem: l’esempio è offerto dal reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p., a proposito del quale la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere che la condotta delittuosa possa essere realizzata anche ai danni del convivente.

Rilevato il contrasto giurisprudenziale in essere, la Sesta Sezione della Corte di Cassazione sottoponeva alle Sezioni Unite la questione di diritto in premessa ai sensi dell’art.618, comma 1, c.p.p.

Le Sezioni Unite

Rileva la Corte che l’esame della questione posta dall’ordinanza di rimessione si intreccia, anzitutto, con il tema della mancata equiparazione, nel nostro ordinamento, della convivenza more uxorio alla famiglia legittima.

Sul punto, le Sezioni Unite osservano come il modello normativo disegnato nella Costituzione italiana non diverga, sostanzialmente, rispetto al sistema euro-convenzionale, in cui le differenti tipologie di unioni familiari, pur essendo tutte pacificamente riconosciute, restano diverse e come tali non integralmente assimilate.

A tal riguardo, basti considerare che mentre l’art. 12 CEDU si riferisce alla sola famiglia fondata sul matrimonio, l’art. 8, par. 1, CEDU, include tanto le relazioni giuridicamente istituzionalizzate, quanto quelle fondate sul dato biologico, nonché, le famiglie in senso sociale. Parimenti, l’art. 9 della carta di Nizza riconosce e garantisce “il diritto di sposarsi” in modo disgiunto dal “dal diritto di fondare una famiglia”.

Pertanto, sebbene i diritti dei singoli che nascono e si sviluppano in un nucleo familiare sono pienamente riconosciuti, resta ferma la possibilità per il legislatore di apprestare trattamenti differenziati in virtù delle diversità e delle peculiarità dei vari modelli relazionali familiari.

In altri termini, il fatto che le convivenze abbiano pari dignità rispetto ai rapporti matrimoniali non implica una totale equiparazione dei due modelli, che restano comunque ragionevolmente distinti.

Ciò premesso, sviscerando la scelta operata dal legislatore con la cd. Legge Cirinnà, le Sezioni Unite osservano che tale intervento normativo non può di certo rappresentare una implicita contrarietà alla possibilità di riconoscere una serie di diritti in favore delle convivenze di fatto né all’estensibilità dell’art. 384 c.p. alla figura del convivente.

Invero, ritiene la Corte che il legislatore ha inteso offrire una tutela legale a situazioni affettive mai prima regolamentate attraverso una disciplina sostanzialmente analoga a quella prevista per le “famiglie legittime”. Si è trattato, dunque, di un intervento volto ad occuparsi di situazioni del tutto differenti dalle convivenze di fatto, che, al contrario, basano la loro unione sulla spontaneità di una scelta liberamente revocabile.

Se dunque la “Legge Cirinnà” non osta un’interpretazione estensiva dell’art. 384 primo comma c.p., occorre soffermarsi proprio sulla natura di tale disposizione che ad avviso delle Sezioni Unite non presenta carattere eccezionale.

A tal riguardo, il Collegio ritiene definitivamente superati sia l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la disposizione in parola contiene una causa di non punibilità in senso stretto (in cui la rinuncia alla pena ubbidisce a ragioni del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o della “situazione esistenziale psicologica dell’agente”); sia l’indirizzo, meno recente, che qualifica la l’art.384 come una causa di giustificazione (in cui vengono bilanciati contrapposti interessi e somigliante allo stato di necessità, in cui viene esclusa la responsabilità di colui che pone in essere una condotta costretto dalla necessità di evitare un grave nocumento).

Invero, la Suprema Corte ravvisa nel primo comma dell’art. 384 c.p. una causa di esclusione della colpevolezza connessa alla particolare situazione soggettiva in cui viene a trovarsi l’agente, che rende, dunque, inesigibile un comportamento conforme alle norme indicate dalla previsione in esame.

A sostegno di tale assunto il Collegio richiama – tra l’altro – le Sezioni Unite n. 7208 del 2007, secondo cui l’art. 384 c.p. trova la sua giustificazione nell’istinto alla conservazione della propria libertà, del proprio onore, e nell’esigenza di tener conto, agli stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare in senso lato che il legislatore riconosce come prevalenti e quindi da tutelare.

Ciò premesso, il riconoscimento della sua natura di “scusante a struttura soggettiva” presenta importanti ricadute sul piano ermeneutico, in quanto palesa la possibilità di un’applicazione analogica della norma in bonam partem.

A tal riguardo, le Sezioni Unite rilevano che il divieto di analogia – diretto corollario dell’art. 25 comma 2 Cost. – non conosce, per pacifica giurisprudenza, carattere assoluto ma “relativo” e non ricorre in caso di applicazione di norme di favore, in quanto, proibisce la sola analogia in malam partem.

Altresì, la Corte non omette di osservare che la relatività del divieto di analogia va confrontata con il disposto dell’art. 14 Preleggi che vieta l’interpretazione analogica delle norme eccezionali. Orbene, considerato che né le cause di giustificazione né le scusanti rivestono tale carattere, è ben possibile un’interpretazione analogica in bonam partem.

In conclusione, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione affermano che una volta riconosciuta all’art. 384, comma primo, c.p. la natura di scusante soggettiva – espressione di principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur – ed esclusa ogni valenza eccezionale della stessa, trova piena giustificazione la sua applicazione in via analogica anche alle coppie di fatto.

La massima

“L’art. 384, primo comma, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell’onore”.

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