lunedì, Dicembre 2, 2024
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Corte di Strasburgo: controllare le mail dei dipendenti viola l’art. 8 CEDU

L’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) consacra un diritto – il rispetto della propria vita privata e familiare – presente nelle carte fondamentali di quasi tutti i paesi europei. Prendendo in considerazione la Costituzione della Romania, Stato coinvolto nel caso in esame,  l’articolo 28 di quest’ultima garantisce il segreto alla corrispondenza: “la segretezza delle lettere, dei telegrammi o di altre comunicazioni postali, delle conversazioni telefoniche e di qualsiasi altro mezzo legale di comunicazione è inviolabile”.  Ma non solo: anche il codice penale rumeno (art. 195) criminalizza la violazione della privacy “chiunque apra illegittimamente la corrispondenza o intercetti le conversazioni o le comunicazioni tramite telefono, telegrafo, o altro mezzo di trasmissione a lunga distanza, sarà soggetto a reclusione per un periodo dai 6 mesi ai 3 anni”.

Insomma, l’articolo 8 CEDU è finalizzato alla difesa degli individui dalle ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, rappresentando un diritto inviolabile dell’individuo condiviso dalla stragrande maggioranza dei paesi democratici e come tale non suscettibile di deroghe o restrizioni alcuna, se non per esigenze specificatamente stabilite dalla legge: difatti, continua l’articolo al secondo comma: “Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

Il caso

Nel caso in esame (BĂRBULESCU v. ROMANIA, app. no. 61496/08) un ingegnere rumeno, il signor Bogdan Mihai Barbulescu, dipendente di un’azienda privata avente sede a Bucarest in qualità di responsabile alle vendite, lamentava la violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare: dopo essere stato licenziato dal suo datore di lavoro il 1 agosto del 2007, Barbulescu ha deciso di presentare ricorso all’autorità giudiziaria rumena. Il licenziamento disciplinare intimatogli si basava sul fatto che il lavoratore avesse utilizzato la connessione ad internet per scopi personali nel periodo intercorrente  dal 5 luglio fino a quel giorno, scambiando messaggi durante le ore lavorative con il fratello e la fidanzata attraverso l’account Yahoo attivato originariamente dal soggetto al solo fine di gestire le relazioni con i clienti. Dopo aver monitorato le sue mail ed aver avuto prova che il contenuto delle stesse avessero tutt’altro che carattere professionale, l’azienda ha contestato al proprio dipendente non solo la riscontrata improduttività lavorativa, ma anche la violazione del suo regolamento interno: difatti, al momento dell’assunzione, all’ingegnere gli era stato mostrato un documento aziendale che lo avvisava circa il divieto di utilizzare i beni aziendali a fini personali, pena il licenziamento.

La questione quindi è: può un datore di lavoro esercitare un diritto di ingerenza negli “affari privati” di un dipendente, se le informazioni personali sono contenute su un account aziendale utilizzabile per soli fini di lavoro? A questa domanda non è facile rispondere, visto gli interessi coinvolti. Tale problematica si è tradotta anche nella difficoltà di trovare una posizione unanime da parte delle Corti interne e di quelle europee.

Le vicende processuali

Due, quindi, gli interessi e le posizioni assunte dalle parti dinanzi al tribunale rumeno: da un lato, il ricorrente, che riteneva violato il suo diritto al rispetto della corrispondenza tutelato dalla Costituzione e dal codice penale rumeno; dall’altro il datore di lavoro, che sosteneva la violazione delle proprie norme interne, osservando peraltro di aver mantenuto il rispetto della procedura di licenziamento prevista dal codice del lavoro rumeno (l’articolo 40, 1 comma, lettera d, stabilisce che il datore ha il diritto di controllare il modo in cui i lavoratori completano i loro compiti professionali) e di aver debitamente informato il soggetto in merito al contenuto del regolamento. Sulla base delle motivazioni poste dall’azienda convenuta, il ricorso del signor Barbulescu è stato inizialmente rigettato da parte della Country Court di Bucarest nel dicembre del 2007.

Di fronte a tale decisione, Barbulescu presentò ricorso in Corte d’appello il 17 giugno del 2008 che ha confermato la decisione di primo grado, fondando la sua motivazione sulla Direttiva comunitaria 95/46/EC sulla protezione dei dati personali, la quale dispone all’articolo 6 che i dati personali devono essere “rilevati per finalità determinate, esplicite e legittime, e successivamente trattati in modo non incompatibile con tali finalità” ed in più  devono risultare “adeguati, pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali vengono rilevati e/o per le quali vengono successivamente trattati”; sulla base di ciò, pertanto, la Corte ha ritenuto che la condotta del datore di lavoro era stata ragionevole e che il controllo delle comunicazioni era avvenuto in modo leale e lecito, costituendo l’unico mezzo attraverso cui stabilire se vi fosse stata o meno un’infrazione disciplinare (la violarea secretului corespondenței non ledeva la privacy del soggetto interessato).

A questo punto,  con la ostinata volontà di far valere i suoi diritti, l’ingegnere licenziato decise di rivolgersi alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, invocando l’articolo 8 della Convenzione, ma incassando una nuova delusione con la pronuncia del 12 gennaio 2016: la Corte ha ritenuto, infatti, che se da un lato l’utilizzo privato delle mail aziendali sono tutelabili (in quanto rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 8), dall’altro lato nel caso di specie, a parere della Corte, non sussisteva una “ragionevole aspettativa di privacy” in capo al dipendente (essendo stato in tempo utile informato), pertanto non vi era stata alcuna violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare.

La controversia ha poi trovato la sua conclusione con una nuova pronuncia della Corte Europea, la quale ha ribaltato completamente la situazione: la Grande Camera di Strasburgo, 15 mesi dopo, ha riformato la precedente decisione, ritenendo che la Romania avesse violato l’articolo 8 della CEDU, in quanto incapace di garantire il rispetto della riservatezza di un suo cittadino.

La sentenza datata 5 settembre 2017 è chiara sul punto: ciò che la Corte contesta è l’intensità della violazione: secondo la stessa, i tribunali nazionali non avevano, da un lato, verificato se il dipendente fosse stato avvertito in anticipo della possibilità che le proprie comunicazioni potessero essere sorvegliate e, dall’altro, non hanno tenuto conto che Barbulescu non era stato informato della natura e della durata di questa sorveglianza e del grado di intrusione nella sua vita privata. Anche il monitoraggio effettuato è stato ritenuto eccessivo ed  il datore di lavoro avrebbe dovuto usare modalità meno intrusive per i controlli, limitandoli nel tempo e nel contenuto.

I controlli da parte delle aziende possono avvenire si, ma a certe condizioni.

Nella sentenza di condanna, la Corte EDU ha sostenuto, inoltre, che le autorità nazionali non abbiano saputo effettuare un giusto bilanciamento tra gli interessi in gioco, ossia tra l’interesse del lavoratore al rispetto della sua vita privata e quello del datore di lavoro al corretto svolgimento delle attività svolte dai propri dipendenti. Rientra tra i suoi obblighi quello di valutare che sussista “un principio di proporzionalità tra la misura contestata e lo scopo perseguito”, che possa eventualmente giustificare l’ingerenza nella vita privata del soggetto, ai sensi dell’articolo 8, 2 comma. Tra gli obblighi positivi dello Stato, infatti, rientra anche questo: valutare che le misure adottate garantiscano il rispetto effettivo “della vita privata e familiare”. Tale rispetto, a parere della Corte, non era avvenuto.

La “vittoria” processuale del dipendente ha avuto un eco smisurato negli ordinamenti europei: la materia relativa al rapporto di lavoro subordinato è, infatti, tra quelle più sensibili e spesso, valutare il contemperamento tra gli interessi del contraente “debole” e di quello “forte” non è mai così semplice. La decisione della Corte può essere un esempio, in tal senso, di come la giurisprudenza comunitaria si stia adoperando in modo da garantire e tutelare la libertà e l’autonomia dei singoli.

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