giovedì, Marzo 28, 2024
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La Corte EDU: sì all’utilizzo di immagini sacre per fini pubblicitari

Con sentenza emessa in data 30 gennaio 2018, la Corte Europea dei diritti dell’uomo pone fine alla discussione che ha visto contrapposte diverse posizioni in riferimento all’utilizzo di immagini sacre per fini commerciali. I giudici di Strasburgo, chiamati a risolvere il contrasto sacro-profano, hanno risposto alle accuse di blasfemia che sono state sottoposte alla loro attenzione, respingendo le stesse dal momento che, nel caso considerato, non emergono offese né comportamenti profani tali da portare a condanna chi abbia utilizzato tali immagini.

La delicata questione nasce nel 2012, quando un’azienda lituana decide di pubblicizzare i suoi capi d’abbigliamento attraverso immagini di Gesù e Maria con indosso jeans e abitini in tenuta sportiva. I manifesti, diffusi in tutto il paese, hanno suscitato l’indignazione dei lituani, che hanno denunciato il contrasto ai loro valori e principi cristiani. Caricandosi sulle spalle le doglianze sollevate, le autorità lituane hanno deciso di condannare l’azienda (la Sekmadienis Ltd), per aver violato le disposizioni riguardanti la morale pubblica, ad una multa di 580 euro. Nonostante l’esiguità della condanna, l’azienda insiste nel far valere l’ingiustizia della relativa pronuncia, e certa della fondatezza della sua pretesa (dopo aver inutilmente esperito i gradi di giudizio interni), decide di rivolgersi alla Corte Europea.

La Corte Edu, chiamata a pronunciarsi sul caso in questione, ha ribaltato completamente la pronuncia lituana. Essa ha accolto il ricorso presentato dalla società, dichiarando come legittimo l’uso dei simboli religiosi nelle campagne pubblicitarie e condannando la Lituania per aver multato l’azienda. Le ragioni date dalle autorità di Vilnus, a parere della Corte,  sono “vaghe e non spiegano con sufficiente esattezza perché il riferimento nelle pubblicità a simboli religiosi era offensivo”. La Corte ha peraltro valutato la natura delle immagini, proseguendo che  le stesse “non sembrano essere gratuitamente offensive o profane” e che “non incidono all’odio” né possono essere considerate un attacco gratuito e violento ad una religione. [1] Il riferimento normativo va individuato nell’articolo 10 della convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali,  che richiama alla libertà di espressione, valore oggetto di tutela nella sentenza della Corte.  Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”.  Di  contro, la libertà di religione che l’articolo 9 dello stesso trattato tutela: “ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”

A parere della Corte Edu il contrasto tra la libertà di espressione e quella di religione invocata dalla parte soccombente,  si risolve sancendo la prevalenza della prima nel caso in questione: ciò in quanto il sentimento religioso non viene in alcun modo leso dalla condotta aziendale che è pura manifestazione della libertà di espressione che le compete.

Disattendendo le posizioni assunte dai giudici lituani, i giudici di Strasburgo hanno criticato il modo in cui i primi hanno conferito priorità totale alla protezione dei sentimenti delle persone religiose, senza prendere in considerazione in modo adeguato il diritto alla libertà di espressione della compagnia.

La sentenza, che diventerà definitiva entro 3 mesi (se le parti non decidano di impugnare),  ha suscitato opinioni discordanti. Secondo gran parte dell’opinione pubblica non solo risulterebbe violato il rispetto della libertà religiosa (e della dignità degli altri membri della comunità), ma con essa si rischierebbe di porre sullo stesso piano la libertà di espressione e gli interessi commerciali, con conseguenze devastanti sull’intera comunità internazionale.

Certo è che la dicotomia libertà di espressione/ libertà di religione non sempre è andata esente da contrasti. Non è la prima volta che la questione relativa all’utilizzo di simboli religiosi è stata portata all’esame della Corte Edu. Si pensi al caso sull’ affissione dei crocifissi nelle aule scolastiche e giudiziarie, che la Corte aveva concluso conferendo priorità al sentimento religioso della comunità e difendendo le fondamenta storiche che ad esso fanno da retroscena.  Il crocifisso, a parere della Corte, costituisce essenzialmente un simbolo passivo, tale da non configgere né con  il diritto dei genitori di scegliere il tipo di educazione da impartire ai propri figli (articolo 2 del Protocollo 1) né con la libertà di pensiero, coscienza e religione; ciò in quanto il crocifisso non ha natura condizionante per il soggetto che partecipa all’interno delle aule, non connotando l’insegnamento complessivo pubblico, e non costituendo alcuna forma di indottrinamento o proselitismo. La pronuncia della Corte costituisce una pietra miliare in materia di libertà religiosa: il simbolo sacro espressione della stessa coincide con l’identità di un interno popolo (quello italiano), essendo parte del suo patrimonio storico e culturale.

D’altra parte, in una sentenza del 1994  resa nel caso Otto Preminger contro Austria, la Corte Europea aveva accordato una protezione speciale alla religione praticata. L’istituito culturale Otto Preminger, aveva trasmesso la visione di un lungometraggio in cui la figura di Gesù veniva accostata a quella di un uomo donnaiolo, e quella di Maria ad una donna di facili costumi e dedita ad intrallazzi. Il tribunale austriaco decise di condannare l’istituto basandosi sulle norme del codice penale (art. 188 codice penale austriaco) che vietano il vilipendio alla religione e ai dogmi religiosi; di fronte a ciò l’istituto propose ricorso alla Corte Europea lamentando la lesione della sua libertà di espressione.  Quest’ultima, ha seguito un ragionamento portato avanti anche nei giudizi posteriori affermando innanzitutto che entrambe le libertà “costituiscono valori fondamentali nelle contemporanee società democratiche e sono tutelati senza differenza gerarchica nella carta europea”, poi calandosi nel caso concreto, ha affermato la facoltà di uno stato membro di ritenere prevalente la tutela del sentimento religioso rispetto alla libertà di esprimersi senza limiti, facendo leva sul giudizio di bilanciamento attribuito al legislatore nazionale dal secondo comma dell’articolo 10 CEDU: “l’esercizio di queste libertà (di espressione, ndr), poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziari”. [2] Il riferimento alla sicurezza nazionale, all’integrità e alla pubblica sicurezza costituiscono fattori limite all’esercizio della libertà di espressione, sempre che alla stessa sia assicurato un minimum di sopravvivenza.

Può allora, la sensibilità religiosa comunemente sentita costituire un effettivo limite alla libertà di espressione?

Non è possibile dare una risposta assoluta che abbracci tutte le ipotesi che postulano un conflitto tra le due libertà. Le esigenze di ragionevolezza ci portano a privilegiare l’opportunità di una valutazione caso per caso da parte dell’ autorità giudiziaria. Solo attraverso un esame approfondito delle singole questioni, in base alle loro caratteristiche,  è possibile sancire la priorità dell’una o dell’altra. In questo modo si riusciranno a tutelare i principi fondamentali che fanno capo all’individuo e ad evitare le loro possibili violazioni.

In materia, trovare una posizione pacifica tra opinione pubblica e giurisprudenza è impresa ardua (che serva un miracolo?! ).

[1] Corte Europea dei diritti dell’uomo, 30 gennaio 2018. CASE OF SEKMADIENIS LTD. v. LITHUANIA. (Application no. 69317/14) . http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-180506

[2] Corte Europea dei diritti dell’uomo, 20 settembre 1994. CASE OF OTTO-PREMINGER-INSTITUT v. AUSTRIA. (Application no. 13470/87). http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-57897

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