venerdì, Marzo 29, 2024
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COVID-19: riflessioni in tema di infezioni ospedaliere e di responsabilità sanitaria

1 .   Premessa.

Questo articolo nasce dall’ascolto di una giovane donna che, in piena emergenza Covid-19, si troverà nei prossimi giorni a dover partorire, da sola, il suo primo figlio. Ha confessato di essere in ansia, perché teme che -ricoverandosi presso una struttura ospedaliera- possa entrare in un ambiente potenzialmente veicolo di infezioni. 

Dalle parole di questa giovane donna, emerge come sia attuale e concreto –in questo periodo-  la tematica delle infezioni “ospedaliere”.

Orbene, la paura del contagio da Covid-19 ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica dei temi che prima erano oggetto di dibattito ristretto agli addetti ai lavori (medici e giuristi): le criticità delle infezioni nosocomiali, i metodi idonei per la gestione efficace della prevenzione del risk management, nonché l’individuazione di appropriate pratiche ed idonei dispositivi di protezione per gli operatori sanitari.

Trattasi di tematiche che, oggi più che mai, necessitano di adeguate riflessioni per un dibattito costruttivo sull’auspicata riforma del funzionamento della complessa “macchina” del sistema sanitario.

2 .   Cosa sono le infezioni “ospedaliere”?

Il fenomeno delle infezioni contratte nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, già prima dell’imprevedibile eccezionalità della pandemia del Covid-19, costituiva uno dei principali problemi di “salute pubblica”[1], oltre che fonte di un “fervente” contenzioso giudiziario[2].

Quando si parla di infezioni ospedaliere si fa riferimento alle malattie infettive contratte dal paziente in ospedale o in altri ambienti sanitari che, al momento del suo ingresso nella struttura assistenziale, non erano manifeste clinicamente, né erano in incubazione. Le suddette infezioni possono verificarsi non soltanto nelle strutture ospedaliere ma in ogni ambito clinico-assistenziale: non solo in conseguenza di ricoveri in lungodegenza ma anche in day-hospital, in assistenza ambulatoriale e presso il domicilio del paziente, nonché nelle strutture residenziali territoriali per anziani. Pertanto, la locuzione più corretta per indicare tali infezioni è quella di “Infezioni Correlate all’Assistenza” (ICA)[3].

Sebbene le persone a maggior rischio di contrarre le suddette infezioni siano principalmente i pazienti, anche il personale sanitario (come è tristemente noto in questi giorni) e i visitatori possono contrarre tali infezioni, stante la stretta vicinanza con il paziente. Di qui, la necessità di adottare i “Dispositivi di Protezione Individuale”(DPI), atti a proteggere anche i lavoratori della sanità dal rischio di esposizione ad agenti biologici, nonché la necessità di adottare protocolli per loro sicurezza sul luogo di lavoro.

In generale, la frequenza di infezioni ospedaliere varia molto a seconda delle dimensioni delle strutture sanitarie, del tipo di reparto, della durata della degenza e delle misure di controllo adottate.

Gli studi condotti in Italia, ante Covid-19, hanno stimato che circa il 5-8% dei pazienti ricoverati contrae un’infezione ospedaliera. Ogni anno, quindi, si verificavano in Italia 450-700 mila infezioni in pazienti ricoverati in ospedale (soprattutto infezioni urinarie, seguite da infezioni della ferita chirurgica, polmoniti e sepsi). Di queste, si riteneva che circa il 30% fossero potenzialmente prevenibili (135-210 mila) e che fossero direttamente causa del decesso nell’1% dei casi (1350-2100 decessi prevenibili in un anno)[4].

  1. La necessità di strumenti di prevenzione e controllo del rischio sanitario: sintetico quadro normativo.

Studi accurati della Comunità scientifica distinguono le infezioni ospedaliere prevedibili e prevenibili da quelle inevitabili.

Con riferimento alle prime hanno dimostrato che, se pur non è possibile eliminarle completamente, è possibile ridurne la frequenza, con l’adozione di idonei strumenti di prevenzione e controllo.

Rispetto a tali infezioni, l’inosservanza delle “buone pratiche clinico assistenziali” elaborate dalla comunità scientifica costituisce senz’altro un indice di responsabilità a carico della struttura.

A livello europeo, il Consiglio dell’Unione Europea -nel 2009- ha emanato una Raccomandazione nella quale si legge che “la prevenzione e il controllo delle infezioni associate all’assistenza sanitaria dovrebbero fare parte delle priorità strategiche a lungo termine delle istituzioni sanitarie. Tutti i livelli gerarchici e tutte le funzioni dovrebbero cooperare per modificare i comportamenti e l’organizza­zione in base a un approccio improntato sui risultati, definendo responsabilità a tutti i livelli, organizzando strutture di sostegno e risorse tecniche locali e creando procedure di valutazione”.[5]

Quanto all’Italia, sono state adottate già da tempo –sia a livello nazionale che a livello regionale[6]– misure di buone pratiche cliniche in tema di prevenzione delle ICA. Ricordiamo, in particolare, due risalenti circolari del Ministero della Sanità:

  • la Circolare Ministeriale n. 52/1985 “Lotta alle infezioni ospedaliere” nella quale viene raccomandato l’avvio di un programma di controllo delle infezioni in ciascun presidio ospedaliero, con la costituzione di un Comitato multidisciplinare, di un gruppo operativo e la dotazione di personale infermieristico dedicato, affidandone alle Regioni il relativo coordinamento;
  • la Circolare Ministeriale n. 8/1988 “Lotta alle infezioni ospedaliere: la sorveglianza”, nonché il Decreto del Ministero della Sanità 13 settembre 1988 istitutivo del Comitato Ospedaliero per le infezioni nosocomiali.

Ricordiamo, altresì, che la legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. Legge Gelli-Bianco), che reca “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, dedica il suo primo articolo al tema della prevenzione del risk management. Tuttavia, l’articolo finale di tale legge (l’art. 18) contiene la clausola di invarianza finanziaria, sicché la disposizione iniziale potrebbe restare in concreto lettera morta, in assenza di congrui impegni di spesa.

  1. Considerazioni conclusive in tema di responsabilità sanitaria.

Si può configurare un’eventuale responsabilità in capo alle strutture sanitarie nella gestione dell’emergenza sanitaria da Covid-19?

Vi sono gli estremi per dimostrare che la diffusione del contagio era evitabile mediante il rigoroso rispetto dei protocolli e delle linee guida che sono state emesse, in questi concitati mesi, dalle varie autorità sanitarie ed in primis dall’Organizzazione Mondiale della Sanità[7]?

Tali interrogativi sono alimentati dal fatto che, ad oggi, alcune Procure della Repubblica, hanno avviato indagini prevalentemente contro ignoti, per omicidio colposo ed epidemia colposa in relazione alla diffusione intramoenia del contagio da Covid-19, specie nelle case di riposo per anziani. Le indagini -come nella loro natura- sono finalizzate a fare chiarezza su eventuali carenze nella difficile e complessa gestione della terribile attuale emergenza sanitaria e sono doverose in presenza dell’obbligatorietà dell’azione penale.

E’ evidente che non si può operare, a cospetto dell’eccezionalità della pandemia attuale, una mera trasposizione di conoscenze acquisite dalla comunità scientifica con riferimento alle “vecchie” infezioni nosocomiali, di cui si è cercato di dare supra un quadro informativo.

A modesto avviso della scrivente, il problema dell’individuazione di eventuali responsabilità deve tener conto che -riguardo al Covid-19- la comunità scientifica internazionale brancola ancora nel buio, non essendo ancora riuscita ad individuare trattamenti farmacologici e vaccini in grado di curare o prevenire il contagio. Il contrasto al diffondersi della pandemia è affidato, per ora, al distanziamento sociale ed al rispetto di norme precauzionali nate per far fronte alla diffusione di altre e meno gravi infezioni.

Orbene, l’eventuale giudizio sulla responsabilità non può non tenere conto della perdurante carenza di conoscenze da parte della comunità scientifica e dell’imprevedibilità ed eccezionalità della pandemia in atto. Se si volesse configurare una responsabilità colposa, occorre in sede processuale sia la prova dell’esistenza del nesso causale[8] tra condotta ed evento e sia la prova dell’addebitabilità del comportamento. Tuttavia, al giurista non deve sfuggire che, non può ascriversi a colpa un evento imprevedibile ed inevitabile, in relazione alle circostanze del caso concreto. Dunque, in sede giudiziaria –stante il carattere di imprevedibilità ed eccezionalità del Covid-19- i contagi potrebbero essere qualificati come infezioni non evitabili e, dunque, non ascrivibili a colpa né della struttura né del singolo operatore sanitario. Ovviamente, tale soluzione non può essere generalizzata: occorre uno scrutinio attento delle circostanze relative allo specifico fatto oggetto del singolo procedimento giudiziario, non potendosi escludere a priori inadeguatezze e disfunzioni assistenziali della struttura, che la espongano a responsabilità[9], a fronte di proprie carenze rispetto all’attuazione di protocolli, sempre più specifici che continuano ad essere emanati dalle autorità competenti.

Volendo esemplificare oggi, a più di un mese dalla diffusione del contagio in Italia, non può certo essere considerata esente da colpa una struttura di assistenza per anziani che continui ad omettere attività di disinfestazione e sterilizzazione degli ambienti e dei materiali, che non metta a disposizione e non imponga l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale e che non escluda l’accesso dei visitatori.

Ben diverso, appare il caso del diffondersi dell’epidemia, in un reparto di medicina generale, per effetto del ricovero di un paziente asintomatico nei primi giorni di diffusione della stessa in Italia.

Tuttavia, a modesto avvisto di chi scrive, non è la via giudiziaria della ricerca di precise responsabilità da imputare a singole strutture ed a singoli operatori o quella indennitaria no-fault a poter tranquillizzare la società civile. Il principio della sicurezza delle cure, di cui parla il legislatore italiano, nella già richiamata legge Gelli-Bianco, deve essere attuato -ora più che mai- con efficienti misure ed idoneo impegno di spesa; appare indispensabile un ripensamento, anche livello comunitario, dei vincoli di contenimento della spesa pubblica[10]. Del resto, la pandemia del Covid-19, sembra dare una spallata decisiva alla concezione della tutela del diritto alla salute all’interno di un circuito di bilanciamento con altri valori e principi costituzionali, rispetto ai quali ovviamente non è estraneo il condizionamento derivante dalla disponibilità delle risorse finanziarie e dall’organizzazione del servizio. Invero, la giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale, pur affermando che la tutela della salute deve essere perseguita <<in bilanciamento col valore dell’equilibrio finanziario, presupposto della continuità dell’intervento pubblico nel settore (il dissesto ulteriore e perdurante del sistema porrebbe in pericolo la stessa ulteriore azione pubblica di tutela della salute)>>, ammonisce che, <<al fine di sventare la possibilità che il bilanciamento tenda a comprimere eccessivamente la tutela del diritto alla salute in favore di considerazioni di budget, il bilanciamento stesso non deve essere completamente “libero” e rimesso alla discrezionalità legislativa, ma debba tenere conto dell’esistenza di un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione>>[11].

[1] Sotto il profilo epidemiologico, i dati disponibili nel 2017 dall’European Centre for Disease Prevention and Control, Economic evaluations of interventions to prevent healthcare-associated infections (ECDC) dimostrano che, in Europa, le infezioni contratte nelle strutture sanitarie e sociosanitarie, sono direttamente responsabili di circa 37.000 decessi, nonché in circa 110.000 decessi le infezioni ne rappresentano una concausa.

[2] Nella giurisprudenza civile il tema delle infezioni ospedaliere è stato esaminato soprattutto con riferimento alla probatio diabolica dell’accertamento del nesso causale: invero, nel caso in cui un ricovero è complicato da una infezione ospedaliera, risulta estremamente difficile, se non quasi impossibile, accertare in sede processuale i singoli comportamenti (omissivi di cautele o attivi) cui ricollegare eziologicamente l’insorgenza. Di contro, un ampio filone dottrinale, sollecita da tempo l’introduzione -nel nostro ordinamento giuridico- relativamente al tema delle infezioni nosocomiali, di un sistema  no- fault (indennitario, a carico di un fondo alimentato dalla fiscalità generale, anche in assenza di accertamento di colpa) sulla scorta della legge francese n. 303 del 4 marzo 2002 (c.d. Loi Kouchner). Sul medesimo argomento, si veda -inter alios- A. Davola in Infezioni nosocomiali e responsabilità della struttura sanitaria in Danno e Responsabilità n. 3/2017 pag. 367 e 368; G. Scarchillo in La responsabilità medica: risarcimento o indennizzo? Riflessioni, evoluzioni e prospettive di diritto comparato in Responsabilità civile e previdenza, fasc. 5 2017.

[3] Le infezioni correlate all’assistenza (ICA) si definiscono come infezioni che insorgono nel corso di un ricovero ospedaliero o in un luogo di cura e assistenza, non presenti né clinicamente, né in incubazione, al momento del ricovero stesso oppure si manifestano dopo la dimissione, pur essendo causalmente riferibili per tempo di incubazione, agente eziologico e modalità di trasmissione al ricovero stesso. Tale nozione è riportata dall’OMS in Prevention of hospital-acquired infections – A practical guide, 2nd ed. (2002).

[4] Per maggiori riflessioni sul tema, si consiglia di consultare il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica a cura dell’Istituto Superiore di Sanità (Epicentro).

[5]  Raccomandazione del Consiglio del 9 giugno 2009 sulla sicurezza dei pazienti, comprese la prevenzione e il controllo delle infezioni associate all’assistenza sanitaria (2009/C 151/01).

[6] Tra le misure adottate a livello regionale occorre menzionare l’Agenzia Sanitaria e Sociale della Regione Emilia-Romagna che ha coordinato, su mandato e con il sostegno finanziario del Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CCM) del Ministero della Salute, attività inizialmente mirate a valutare la fattibilità di un programma di sorveglianza nazionale delle infezioni correlate all’assistenza e, successivamente, a mantenerlo ed estenderlo nelle diverse regioni.

[7] Si ricorda che l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 27 febbraio 2020, ha emanato raccomandazioni per gli operatori sanitari nell’applicazione delle adeguate misure di prevenzione e controllo delle infezioni in generale e delle infezioni respiratorie, in particolare. Sul sito del Ministero della Salute è riportato, altresì, il Rapporto ISS COVID-19 n. 2/2020 – aggiornato al 28 marzo 2020 Indicazioni ad interim per un utilizzo razionale delle protezioni per infezione da SARS-COV-2 nelle attività sanitarie e sociosanitarie (assistenza a soggetti affetti da Covid-19) nell’attuale scenario emergenziale SARS-COV-2 in sui si forniscono indicazioni sull’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale da parte del personale sanitario durante l’assistenza ai pazienti. Le indicazioni contenute nel suddetto documento sono state approvate dal Comitato Tecnico Scientifico attivo presso la Protezione Civile e recepite dal Ministero. Il documento indica quali sono i dispositivi di protezione (guanti, mascherine, camici o occhiali) nei principali contesti in cui si trovano gli operatori sanitari che entrano in contatto con i pazienti affetti da Covid-19 raccomandando l’uso delle mascherine con filtranti facciali (FFP2 e FFP3) in tutte le occasioni a rischio.

[8] In sede penale, l’accertamento del nesso causale dovrebbe essere condotto alla luce della regola pretoria dell’“alto o elevato grado di credibilità razionale, prossimo alla certezza” (Cass, pen. S. U. n. 30328 del 2002: sentenza Franzese).In sede civile, invece, l’accertamento andrebbe condotto in forza principio del “più probabile che non” (Cass. civ. S. U. n. 581 del 2008) e l’onere della prova sarebbe governato dalle regole derivanti dalla natura contrattuale della responsabilità della struttura (ex art. 7 della legge n. 24/2017).

[9] In sede civilistica, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 24/2017, la responsabilità della struttura sarà di tipo contrattuale, ex artt. 1218 e 1228 c.c: la struttura sarà liberata dal risarcimento dei danni solo qualora dimostri di aver adottato tutte le misure organizzative utili e necessarie per prevenire e contenere il fenomeno infettivo.

[10] Per ulteriori spunti di riflessione sul medesimo argomento si v., R. Cuomo in La responsabilità civile sanitaria: luci ed ombre della copertura assicurativa nella Legge 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli-Bianco)in https://www.iusinitinere.it/rivista-semestrale-di-diritto/numero-1-2019.

[11] Su questo tema, v. –inter alios– E. Catelani e P. Milazzo in La tutela della salute nella nuova legge sulla responsabilità medica. Profili di diritto costituzionale e pubblico, in Istituzioni del federalismo 2. 2017, pagg. 319 e 320. Gli Autori richiamano le seguenti sentenze della Corte Cost.: sent. 416/1995; 445/1990; 509/2000; 94/2009; 111/2005.

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