venerdì, Marzo 29, 2024
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Crimmigration: un processo marcatamente politico e mediatico

Il presente contributo, di cui è autrice Mariarosaria Ruotolo, è vincitore della Local Essay Competition indetta da ELSA Napoli, dal tema “Crimmigration: la criminalizzazione dello straniero”.

 

Il processo di criminalizzazione dello straniero affonda le sue radici in una realtà lontana nel tempo e, occorre subito chiarirlo, anche nello spazio, in quanto solo in un secondo momento viene inglobato anche nella dottrina italiana. Il fenomeno nasce e si sviluppa come una sovrapposizione tra diritto penale e diritto dell’immigrazione, con il sostegno del diritto amministrativo e del diritto internazionale. La disciplina della “crimmigration”[1] diventa quindi il mezzo pratico che permette la fusione di materie che, prima d’allora, erano completamente slegate. La necessaria evoluzione di tale processo è stato l’inasprimento degli strumenti a disposizione degli Stati nella gestione dei flussi migratori irregolari, cui fa seguito un contestuale e drastico indebolimento delle garanzie dei diritti fondamentali dello straniero. Come anticipato, il fenomeno non nasce nel vecchio continente, ma è stato originariamente osservato e studiato negli Stati Uniti.[2] Esso si è poi esteso alle nostre latitudini e nelle politiche migratorie che, quantomeno negli ultimi decenni, regolano il flusso ingente di migranti dovuto, innanzitutto, all’instabilità politica e sociale di molti Paesi bagnati dal Mediterraneo. Lo studio di prassi e interventi legislativi ha indotto quasi fin da subito la dottrina statunitense a contemplare, in via astratta, tre direttrici lungo le quali si diramerebbe la crimmigration. La prima direttrice riguarda la previsione di conseguenze penalistiche a violazioni di diritto dell’immigrazione, in particolare reati di ingresso o soggiorno illegale, violazione di un ordine di allontanamento o favoreggiamento dell’immigrazione; la seconda, invece, si occupa di conseguenze di tipo amministrativo sullo status di migrante quando questi compie un comune reato; la terza, infine, attiene all’utilizzo di strumenti tipicamente penalistici – in primis, la privazione della libertà – nella gestione del fenomeno migratorio. Guardando alle analisi maturate negli Stati Uniti, si è ormai diffuso anche nella dottrina italiana il neologismo “crimmigration” con il quale si definisce l’intreccio “fra logica criminalizzante ed efficientismo amministrativo nel perseguimento di quello che sembra essere ormai diventato l’obiettivo cruciale delle politiche migratorie di molti paesi occidentali, ossia l’esclusione dello straniero qualificato come indesiderabile”: un intreccio che segna un vero e proprio mutamento di paradigma rispetto ai tradizionali approcci statali in tema di immigrazione, rappresentato dall’assurgere dell’espulsione dello straniero indesiderabile a “obiettivo sistemico dichiarato, a scopo verso il quale tutto il sistema delle norme rilevanti è, almeno ufficialmente, orientato”.[3] La ricostruzione delle tendenze delle politiche lato sensu criminali in tema di immigrazione, alla base della categoria della crimmigration, è del tutto in linea con l’interpretazione delle discipline penali e processual-penalistiche e quelle amministrative preordinate all’allontanamento dello straniero irregolare come espressione di un vero e proprio diritto speciale delle migrazioni e ne individua i tratti fondamentali nella radicale subalternità dell’intervento penale rispetto alla disciplina amministrativa della materia.

Lo smarrimento di fronte ai flussi migratori non è un fenomeno solo giuridico, ma anche sociale, soprattutto a causa della speculazione politica che spinge a una “tautologia della paura” di fronte al migrante.[4] La paura, per tutti, è di tornare al principio di cui scriveva il commediografo latino Plauto: “Homo homini lupus” in cui a prevalere è solo la legge della giungla che premia il più forte. Alla citazione plautiana invece andrebbe contrapposta la frase “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” di Terenzio, che sancisce il principio dell’humanitas latina. Un’importante teoria a tal proposito è la c.d. teoria dell’etichettamento (o della reazione sociale), elaborata dalla scuola di Chicago. Si presenta come una teoria sociologica della devianza che focalizza l’attenzione sul processo di costruzione del criminale non occasionale che sarebbe favorito, in maniera involontaria e paradossale, proprio dalla reazione della collettività e delle istituzioni. Attraverso l’assegnazione dell’etichetta di criminale all’autore di un reato, secondo la teoria, si innescherebbe un processo in grado di trasformare il reo (vero o presunto) di un singolo reato in un delinquente cronico. Il labelling approach è divenuto, quindi, il tratto distintivo della nascente politica criminale tesa verso l’affermazione di un nuovo diritto penale della sicurezza che, deviato da una connotazione di stampo proibizionistico e preventivo, “divora tutti i principi dello Stato di diritto”. L’inaccettabilità di un simile epilogo impone evidentemente la necessità di individuare un “freno d’emergenza” che limiti l’(in)voluzione del volto tradizionale del diritto penale. L’obiettivo si rende infatti possibile solo attraverso una maggiore esaltazione dei principi classici che riescano ad operare un bilanciamento tra libertà e sicurezza a discapito di istanze penal-populiste.[5] I migranti, con il passare del tempo, sono diventati il “nemico pubblico” per eccellenza, una citazione ottimale condita di stereotipi per riportare in auge i concetti di “identità nazionale”, “patriottismo”, “difesa della cultura e delle proprie radici”, ignorando completamente gli insegnamenti storici sull’importanza della mescolanza culturale come fonte assoluta di ricchezza. Secondo uno studio dell’economista Philippe Legrain[6], ci sono vari ordini di motivi per cui l’immigrazione si presenta come una risorsa preziosa, soprattutto in merito all’arricchimento culturale. Infatti, il processo di criminalizzazione dei migranti corrisponde ad un atteggiamento marcatamente politico-elettorale, ma che, prima ancora, è un processo mediatico da cui discende un’ostilità rispetto ad una concezione di rispetto verso colui che giunge da straniero in terra straniera. I media sono fondati sull’importanza delle parole e a tal proposito proprio il linguaggio ha assunto, nel corso degli anni, un significato centrale, portando a considerare lo straniero come “nemico”; la sovrapposizione tra gli immigrati e i “nemici” diventa quindi necessaria nella giustificazione dei processi di criminalizzazione e delle misure politiche e normative adottate conseguentemente, tanto a livello nazionale, quanto europeo. Infatti, una volta che il migrante irregolare è categorizzato come deviante e criminale, è più agevole l’adozione di misure per “reprimere” e “combattere” questo tipo di immigrazione attraverso strumenti penalistici. Fino al 2006, infatti, i documenti ufficiali della Commissione si riferivano ai migranti irregolari come a “clandestini” e ancora nella Direttiva Rimpatri e, fino agli anni più recenti, l’obiettivo primario delle politiche in materia di immigrazione irregolare è rimasto quello della “lotta all’immigrazione clandestina”. L’uso di termini e definizioni tipici del diritto penale e di politiche di criminalizzazione potrebbero giustificare l’uso di misure coercitive che talvolta esulano dall’ambito di applicazione del diritto amministrativo, quella branca del diritto che disciplina anche e soprattutto la materia dell’immigrazione. Soltanto negli ultimi anni, in particolare a partire dall’adozione del Trattato di Lisbona, si è cominciato ad utilizzare i termini, più neutri da un punto di vista politico e sociale, di “migrante irregolare” e “immigrazione irregolare”. Per ricostruire al meglio l’inglobazione del concetto di crimmigration nella letteratura giuridica italiana, risulta necessario fare un passo indietro e ricordare i valori della nostra Costituzione repubblicana che all’articolo 3 recita:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”

Un inno all’uguaglianza che incarna perfettamente i valori repubblicani di un’Italia scottata dal ventennio fascista, presentandosi come il baluardo dei valori e principi fondamentali della nostra carta costituzionale. L’articolo di riferimento sancisce che la legge non può fare discriminazioni in base al sesso dei cittadini, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali.

Dal punto di vista legislativo molto è stato scritto negli ultimi anni:

Il 30 luglio 2002 entrava in vigore la legge numero 189, c.d. legge Bossi – Fini in merito alla delicata materia dell’immigrazione che favorisce la criminalizzazione di fatto. Nello specifico la Bossi – Fini toglie la possibilità concreta di fare ingresso nel territorio italiano in maniera regolare per motivi lavorativi. Essa afferma che uno straniero, per poter fare ingresso e soggiornare regolarmente nel Paese, deve obbligatoriamente essere in possesso di un contratto di lavoro (della durata massima di 2 anni) redatto da un datore di lavoro che, però, non ha mai incontrato personalmente.

Scaduto il termine, ex abrupto, il lavoratore dovrà ritornare nel proprio Paese di origine a spese del datore di lavoro. In questo modo, l’alternativa più realisticamente percorribile rimane quella della pericolosa e mortale traversata nel Mediterraneo con i barconi, facendo così ingresso irregolare.

“Alla domanda posta agli italiani se secondo loro gli immigrati rendono il paese un posto migliore o peggiore dove vivere, le risposte sono state le più negative di tutta l’Europa, fatta eccezione per Ungheria e Russia. L’aumento dei flussi migratori nel mediterraneo, dovuto innanzi tutto alla mancanza di vie legali per entrare nel Paese per colpa della Bossi-Fini, è stato colto come occasione per fare propaganda, arrivando, appunto, ad ottenere il risultato che per una parte consistente degli italiani l’immigrazione e l’immigrato (soprattutto africano e nero) è di fatto un problema legato alla sicurezza. Secondo i dati Istat del 2018 in Italia ci sono circa 5,25 milioni di stranieri regolari, di cui solo 3,6 proveniente da paesi extra UE; eppure, ormai si sente parlare di richiedenti asilo, rifugiati, clandestini ed immigrati come se non ci fosse alcuna distinzione tra queste categorie di persone, finendo per mettere nello stesso calderone chiunque abbia la pelle scura.” [7]

Un decreto rilevante in materia è anche il c.d. decreto Salvini[8] che rappresenta un ottimo esempio italiano della tendenza legislativa ad approcciare in chiave securitaria la materia dell’immigrazione: le novità in tale disciplina vengono collocate in un provvedimento che già dal titolo dimostra di considerare il tema dell’immigrazione come inscindibilmente connesso alle problematiche della sicurezza e dell’ordine pubblico. Un primo dato che dovrebbe colpire l’attenzione è relativo al fatto che, con l’unica eccezione dell’intervento del 2009, tutti i pacchetti sicurezza dell’ultimo decennio (compreso il decreto Salvini) sono stati varati mediante lo strumento del decreto-legge, sul presupposto che gli interventi a tutela della sicurezza configurassero quei “casi straordinari di necessità ed urgenza”, che ai sensi dell’art. 77 Cost. consentono il ricorso del Governo a tale forma di legiferazione, con conseguente spostamento del potere legislativo dalle mani del Parlamento a quelle del Governo, per definizione titolare del potere esecutivo. Le cause sono, ancora una volta, politiche e dunque mediatiche, anche perché, come bene evidenziato da diversi commentatori, non mancano le ragioni per mettere in discussione la reale sussistenza dei requisiti di necessità ed urgenza (almeno, lo ripetiamo, rispetto ad alcune delle disposizioni del decreto), e dunque per dubitare della legittimità di un testo normativo approvato in modo non conforme alle regole indicate dalla Costituzione in materia di formazione delle leggi.

“I pacchetti sicurezza del 2008 e del 2009 sono l’ultima occasione in cui il legislatore pone enfasi sulla criminalizzazione delle condotte di soggiorno irregolare. Dopo il 2011, tale opzione non viene espressamente sconfessata, posto che le fattispecie incriminatrici del soggiorno irregolare, nonostante un tentativo di parziale depenalizzazione, rimangono tuttora vigenti; ma l’impossibilità di ricorrere alla pena detentiva in seguito alla decisione della Corte UE[9] rende il ricorso allo strumento penale assai meno attrattivo in termini di politica criminale, tanto che dopo il 2009 (e sino all’ultimo intervento qui in commento) non si riscontra alcun intervento volto a inasprire il trattamento penale del migrante irregolare, pur nell’ambito di prodotti normativi, come i decreti Minniti, che per altri versi non si discostano da un approccio securitario alla tematica migratoria” [10].

Oltretutto occorre sottolineare che il decreto sicurezza ha sollevato particolare perplessità già all’atto della sua emanazione: lo stesso Presidente della Repubblica ha dichiarato testualmente “[…] in materia, come affermato nella Relazione di accompagnamento al decreto, restano fermi gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato, pur se non espressamente richiamati nel testo normativo, e, in particolare, quanto direttamente disposto dall’art. 10 della Costituzione e quanto discende dagli impegni internazionali assunti dall’Italia” prevedendo il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Centri di permanenza per il rimpatrio, che da 90 giorni salgono a 180, nonché l’abrogazione dei permessi di soggiorno per motivi umanitari o l’ampliamento dei reati che provocano la revoca del permesso di rifugiato, allontana ogni rilettura del sistema in termini di accoglienza in favore di una “amministrativizzazione dei diritti fondamentali” che conferma una (in)sofferenza del sistema al cambiamento culturale, prima ancora che sociale, verso qualsiasi prospettiva d’integrazione. Infatti, secondo molti studiosi della dottrina gli effetti che derivano dall’attuazione delle politiche della criminalizzazione dello straniero sono, da un lato, la restrizione degli spazi di libertà del migrante e, dall’altro, la sua criminalizzazione. Quest’ultima, oltretutto, tende sempre più ad assumere le sembianze non di una criminalizzazione “in senso stretto”, supportata dai classici strumenti del diritto penale, ma di una criminalizzazione “in senso lato”, attuata prevalentemente attraverso l’adozione di misure formalmente amministrative (ma repressive nella sostanza) finalizzate all’espulsione dai confini nazionali o all’esclusione dai circuiti dell’accoglienza. Risulta estremamente utile sottolineare quanto la torsione del diritto dell’immigrazione verso il diritto penale ed istituti ad esso assimilabili immetta, da un punto di vista squisitamente pratico, gli avvocati e i loro assistiti in un circuito dai contorni incerti, (soprattutto quando si ha a che fare con le due principali modalità scelte dal legislatore italiano per dare esecuzione alle espulsioni con accompagnamento alla frontiera del migrante: l’ordine di allontanamento e la detenzione amministrativa.) Un importante apporto è stato fornito della cd Direttiva Rimpatri[11] (2008/115/CE) e dalla conseguente interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione Europea[12] in cui si prese in considerazione la possibilità di cancellare dal nostro ordinamento le previsioni dell’arresto obbligatorio e di reclusione a pena detentiva per lo straniero inottemperante all’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato perché chiaramente in contrasto con gli articoli 15 e 16 della direttiva di cui sopra, che si prefigge l’obiettivo di rendere efficace l’allontanamento e non di immettere lo straniero nel sistema penale. La prima e più evidente manifestazione della crimmigration è rappresentata dal significativo ricorso ad istituti limitativi della libertà del migrante, primo fra tutti quello della detenzione amministrativa. Bisogna innanzitutto, in tale prospettiva, rimarcare le criticità e i profili di illegittimità costituzionale ormai da tempo sottolineati dalla dottrina rispetto a questa forma di limitazione della libertà personale che si pone in aperto contrasto con le garanzie previste dall’art. 13 della Costituzione, che recita:

“La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.”

Mai come oggi è avvertita la forte necessità di tutelare e proteggere i diritti umani, diritti inalienabili dell’uomo riconosciuti ad ogni individuo per il solo fatto di appartenere al genere umano, indipendentemente dalle origini. Il tema, che acquista particolare rilievo per la sua capacità non solo di toccare trasversalmente molte discipline anche esterne al diritto, ma capace di tangere la società intera, è trattato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 e composta da un preambolo di trenta articoli che sanciscono: diritti individuali, civili, economici, sociali e culturali di ciascuna persona. L’articolo 2, in particolar modo, affermando che tutti i diritti e libertà enunciati nella Dichiarazione spettano ad ogni individuo, potrebbe sembrare pleonastico rispetto all’articolo 1, ma è invece il suo completamento con una precisa ammonizione: giù le mani dalla dignità della persona e dai diritti che le ineriscono. L’espressione “senza distinzione” è quella con cui tale articolo richiama implicitamente il principio di eguaglianza e introduce quello di non discriminazione, che verrà esplicitato dall’articolo 7. Il divieto di discriminazione è espresso, in termini generali, anche nell’articolo 1 della Carta delle Nazioni Unite, che annovera tra i fini quello di “conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale ad umanitario, e nel promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione”. L’atteggiamento quasi schizofrenico della società civile verso il problema dell’immigrazione, oscillante tra accoglienza e rifiuto, è uno specchio che fedelmente rappresenta gli interventi normativi e politici in materia di cui si è scelto di dare solo una visione d’insieme, ponendo l’attenzione sulle questioni ritenute più significative per comprendere, almeno in parte, la vastità e complessità del tema trattato.

 

Mariarosaria Ruotolo

[1] Cfr. M. Joao Guia, M. Van Der Woude, Social Control and Justice: Crimmigration in the Age of Fear, Eleven Intl Pub, 11 ottobre 2012: “Crimmigration law consists of the letter and practice of laws and policies at

the intersection of criminal law and immigration law. Crimmigration law has two horns.

The first is the expansion of migration consequences, such as deportation or exclusion

grounds that are based on criminal convictions. […] The second horn of crimmigration

law is the expansion of criminal law and criminal procedural tools as a way to regulate

migration and especially unauthorized migration.”

[2]  Cfr. J. Stumpf, The crimmigration crisis: immigrants, crime and sovereign power, in American University Law Review 2006.

[3] cit. L. DI RISICATO, “Diritto alla sicurezza e sicurezza nei diritti: un ossimoro invincibile?”, Giappichelli, 2019.

[4] HASSEMER, “Il diritto attraverso i media: messa in scena della realtà?”, in Ars interpretandi, 2004, 147 e ss.; ancora, ALTHEIDE, I mass media, il crimine e il “discorso di paura”, (a cura di) FORTI – BERTOLINO, in La televisione del crimine, Milano, 2005, 287-305; DINO, I media ed i nemici della democrazia, in Quest. giust., 4, 6, 836.

[5] F. BRICOLA, “Forme di tutela ante-delictum e profili costituzionali della prevenzione”, in “Le misure di prevenzione”, Atti del Convegno di Alghero, Milano, 1975. Così, NAUCKE, “La robusta tradizione del diritto penale della sicurezza”, in “Sicurezza e immigrazione”, cit, 86 e ss.

[6] Cfr. P. Legrain, Open Up, Europe! Let Migrants In, New York Times,  6 maggio 2015, disponibile in: https://www.nytimes.com/2015/05/06/opinion/open-up-europe-let-migrants-in.html?smid=tw-share

[7] cit. Z. ABDUL, “La criminalizzazione dello straniero” in Ultima voce. Liberi di intendere e di volare, disponibile qui:

[8] D.L. 14 giugno 2019, n. 53, Disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, G.U. Serie Generale n.138 del 14-06-2019, entrata in vigore del provvedimento: 15/06/2019. Decreto-Legge convertito con modificazioni dalla L. 8 agosto 2019, n. 77 (in G.U. 9/08/2019, n. 186).

[9] CGUE, Sentenza 28 aprile 2011, Hassan El Dridi, Causa C-61 PPU.

[10] L. MASERA, “La crimmigration nel decreto Salvini”, in Legislazione penale, 2019.

[11] L’obiettivo di questa direttiva, enunciato nell’art. 1 del testo, è quello di stabilire per gli Stati membri norme e procedure comuni relative al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi soggiornanti irregolarmente sul territorio dell’Unione, fermo restando il rispetto dei diritti dell’uomo.

[12] CGUE, Sentenza 28 aprile 2011, Hassan El Dridi, Causa C-61 PPU.

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