venerdì, Aprile 19, 2024
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Cyberlaundering: una nuova frontiera del riciclaggio nella distributed economy

a cura di Arcangela Gerbino

1. Definizione di cyberlaundering ed inquadramento del fenomeno

Secondo il parere giuridico di Vittorio Manes, il riciclaggio rappresenta una figura delittuosa “ricca di sfumature”, capace di intrecciarsi e mescolarsi con attività lecite della sfera giuridico-economica, dal momento che il principale problema connaturato in tale fenomeno consiste proprio nel riconoscimento della provenienza dei capitali: lo scambio di beni e servizi, infatti, è una prassi comune ad attività lecite quanto a quelle illecite che, tuttavia, a differenza delle prime, possono essere represse secondo le modalità previste dalla legge.[1]

Nel corso del tempo il fenomeno del riciclaggio, previsto e contemplato al 648 bis c.p., ha subito una progressiva evoluzione, specialmente per ciò che riguarda la sua struttura.

Fino agli anni ’80, infatti, potevano individuarsi due momenti principali quali il money laundering ed il recycling: il primo inteso come attività finalizzata ad occultare la provenienza illecita dei capitali, il secondo, invece, consistente nell’attività di rimessa in circolo degli stessi.

Oggi, secondo l’attuale dottrina, lo schema del riciclaggio “tradizionale” si presenta più complesso e articolato.

Si suddivide principalmente in tre fasi: placement, layering ed integration.

La prima coincide con il momento attraverso cui le attività criminali collocano i propri proventi all’interno di un sistema bancario mediante operazioni di deposito di denaro o acquisto di strumenti finanziari, in modo da renderne irrintracciabile l’origine e svolgerne una successiva pulitura.[2] Ciò avviene effettuando piccole transazioni o depositi anonimi ovvero sfruttando l’apertura di un conto bancario a nome di società create appositamente (shell companies). Il corposo numero di transazioni, poi, permette il mantenimento dell’anonimato e rende sicuramente più difficile l’identificazione dell’effettiva provenienza del denaro. Ciò costituisce la seconda fase, il layering, che rappresenta il core del processo riciclatorio e mette in rilievo le potenzialità che tali trasferimenti possiedono per la commissione del reato di riciclaggio.

L’ultima fase, l’integration, pone l’accento su quelle modalità attraverso cui è possibile “ripulire” il denaro e reimpiegarlo in attività lecite. Il reintegro dei proventi delittuosi avviene perlopiù attraverso iniziative imprenditoriali o acquisti immobiliari che ne consentano il mescolarsi con altro denaro legittimo.[3]

Le incessanti innovazioni tecnologiche hanno fatto in modo che la criminalità potesse operare, oltre che nel mondo reale offline, anche in rete.

A sfruttare la “polverizzazione” del denaro via internet è, infatti, un fenomeno del tutto nuovo che negli ultimi anni ha progressivamente preso piede e rappresenta la “nuova frontiera del riciclaggio”, il cd. cyberlaundering, definito «complesso» e comprensivo «di tutte le attività illecite finalizzate a “ripulire” (letteralmente: “lavare”) non solo il denaro (moneylaundering), ma più in generale i capitali, i beni, i valori o le altre “utilità” di provenienza delittuosa, ricorrendo a sistemi o mezzi elettronici o, meglio, “cibernetici”, resi disponibili dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), che coinvolgono oggi soprattutto la rete» [4], vale a dire il web inteso in senso ampio (il cd. Cyberspace), comprensivo sia del world wide web che dei diversi, e più nuovi, protocolli di scambio e comunicazione, ormai sviluppati a livello globale, cioè il deep nonché il dark web.

In estrema sintesi, le attività criminose oggetto d’esame sono commesse nel cyberspace, rientrando quindi nell’ampia categoria dei cybercrimes.

In particolare, il fenomeno del cyberlaundering è riducibile non solo ad attività che rientrano entro la definizione giuridico-positiva del delitto di riciclaggio ex 648 bis c.p., comprendendo anche il “reinvestimento di capitali di provenienza illecita” (art. 648-ter c.p.) e il c.d. auto-riciclaggio (art. 648-ter.1 c.p.), ma tale fattispecie deve piuttosto estendersi, a titolo esemplificativo, ad una pluralità di comportamenti illeciti, quali, ad esempio, la falsificazione di carte di credito o di pagamento, il loro utilizzo indebito, l’abuso di identità o di account ecc.

Uno degli esempi più semplici di cyberlaundering è l’utilizzo di una carta di pagamento (cd. smart card) elettronica ricaricabile con proventi illeciti, che possono essere reimmessi successivamente nel mercato legale attraverso l’acquisto di beni o servizi con moneta elettronica o virtuale.[5]

A ciò si aggiunge anche la possibilità di abusare di sistemi di pagamento o trasferimento di valori online, aprendo ad esempio un account sulla piattaforma PayPal, in cui è sufficiente inserire un indirizzo e-mail ed un numero di cellulare. Tale applicazione permette di ricevere ed inviare pagamenti senza un previo deposito di denaro, posticipando i controlli antiriciclaggio solo nella fase successiva (ed eventuale) di un acconto su un conto corrente bancario.[6]

Si tratta di servizi “a doppio uso”, vale a dire attività non intrinsecamente illecite, ma che possono essere utilizzate a scopo illecito.

Ancora più articolato e particolarmente interessante per il tema trattato è soprattutto il nuovo fenomeno reso possibile dalle TIC e dal web, attraverso dei sistemi di pagamento che facciano uso di valute virtuali, o “criptovalute” – variamente denominate Bitcoin, Ethereum – che prescindono non solo dalla materiale circolazione del denaro quale valore di scambio, ma anche dallo stesso sistema bancario e finanziario, cui invece si connettono pur sempre i servizi di pagamento elettronici e la moneta elettronica di cui si è già detto.

Il cyberlaundering, infatti, trae origine dalla progressiva dematerializzazione del denaro e dall’avvento della cd. moneta elettronica, ma è stato solo con l’introduzione delle valute virtuali che il fenomeno ha avuto una crescita esponenziale. L’art. 1, comma 2, lett. q) del D. lgs. 231/2007 definisce la valuta virtuale come una «rappresentazione digitale di valore, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente», attraverso cui è possibile svolgere operazioni che permettono il consolidamento dei proventi delittuosi senza alcun previo passaggio dalla dimensione reale dell’economia: nella distributed economy il riciclaggio diviene totalmente digitale. Alcuni autori lo definiscono “riciclaggio digitale integrale”, distinguendolo da quello “parziale”, in cui il denaro non è ex ante dematerializzato.

La criptomoneta è resa particolarmente attraente agli occhi degli investitori dalla perfetta fusione dei vantaggi della moneta reale e di quella elettronica: è accessibile a chiunque, ha carattere anonimo e consente di effettuare trasferimenti a distanza.

Le transazioni in valuta virtuale, infatti, permettono agli operatori economici di entrare in contatto con innumerevoli realtà internazionali e di perfezionare, in tali occasioni, in modo istantaneo, passaggi di ingenti somme di denaro.

Per tale motivo, le valute virtuali hanno attirato l’attenzione dei criminali informatici: il cyberlaundering risolve uno dei più grandi problemi del riciclaggio tradizionale, cioè la movimentazione fisica dei grandi flussi di denaro.

Inoltre, i nuovi sistemi “deregolamentati” di pagamento che si sviluppano nel Cyberspace bypassano il ruolo di controllo sulla moneta che viene normalmente esercitato dall’autorità centrale (BCE, Banca d’Italia), sia nella fase dell’emissione che in quella della circolazione.

Occorre, tuttavia, sottolineare che le innegabili potenzialità criminogene non alterano né intaccano la natura potenzialmente neutra della transazione in valuta virtuale, la cui illiceità potrebbe dipendere esclusivamente dalla causa o dall’oggetto di essa.

  1. I reati “presupposto” ed i reati “strumentali” riconducibili al fenomeno del cyberlaundering

L’ampio fenomeno del cyberlaundering non può essere circoscritto ai delitti previsti dal Codice penale agli artt. 648-bis, 648-ter, 648-ter.1. A tal proposito, infatti, possono individuarsi “nuovi” reati presupposto e “nuovi” reati strumentali.

Nell’ambito della prima categoria deve menzionarsi il fenomeno del phishing, che comprende un insieme di comportamenti illeciti posti in essere nel Cyberspace, i quali possono integrare una serie di reati cibernetici e sfociare, infine, nel cyberlaundering. L’autore di phishing induce, attraverso una serie di raggiri (ad esempio inviando una falsa e-mail che sembri provenire dall’istituto bancario di riferimento della vittima), a fornire i dati riservati d’accesso al servizio home banking, poi utilizzati per operare trasferimenti a danno del titolare del conto, con ingiusto profitto a vantaggio degli autori del reato o di terzi, configurando nell’insieme un’ipotesi di truffa comune ex art. 640 c.p., sebbene commessa nel Cyberspace. A questo punto il phisher opera il trasferimento abusivo dei fondi della vittima a favore di un conto corrente intestato ad un terzo, il c.d. financial manager, il quale solo apparentemente si presta ad un’intermediazione finanziaria, trattenendo “provvigioni” per ogni trasferimento, ma in realtà opera degli ulteriori spostamenti di denaro su altri conti correnti all’estero, a favore del phisher o di terzi a lui collegati. È evidente che al financial manager che sia consapevole della provenienza illecita delle somme dovrebbe applicarsi la disciplina del delitto di riciclaggio ex art. 648-bis c.p., mentre al phisher, che vi concorra e che comunque effettui il trasferimento delle somme ottenute da reati da lui stesso commessi, dovrebbe applicarsi la disciplina dell’autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 c.p.

Ai reati precedentemente elencati si aggiungono nuovi reati informatici definiti “strumento” del cyberlaundering e non più meri delitti-presupposto.

Tra questi possiamo annoverare la fattispecie disciplinata dal nuovo art. 493-ter c.p., rubricata “indebito utilizzo e falsificazione di carte di credito e di pagamento”, che punisce “chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi”, nonché chi alteri o falsifichi dette carte ovvero le possieda, ceda od acquisisca al fine di trasferire proventi illeciti.

In sostanza, è opportuno distinguere la “clonazione illecita” di carte di credito, che può avvenire in un momento anteriore anche ad opera di terzi ignoti, dall’”utilizzazione indebita” successiva da parte di un altro soggetto, che se ne è servito per realizzare delle operazioni di trasferimento idonee ad ostacolare l’individuazione della provenienza illecita del denaro. La condotta di “utilizzazione indebita”, infatti, è stata considerata autonomamente punibile, seppur posta in essere in continuazione con il delitto di riciclaggio.

  1. L’autoriciclaggio: il cyber self-laundering

L’art. 3 della L. 15 dicembre 2014 n. 186 ha introdotto nel Codice penale, all’art. 648-ter.1 c.p., il delitto di autoriciclaggio, che consiste nell’immissione nel circuito dell’economia legale, da parte di colui che ha commesso un delitto (o che ha concorso a commetterlo), dei proventi derivanti dalla sua attività criminosa in modo da ostacolarne il riconoscimento della provenienza.[7]

Ciò che caratterizza la condotta autoriciclatoria è la fase d’integration, in cui il profitto illecito deve necessariamente essere destinato («impiega, sostituisce, trasferisce») ad «attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative» [8] e la condotta in questione deve essere concretamente idonea ad ostacolare il riconoscimento della provenienza delittuosa dei proventi.

Da ciò si può facilmente dedurre che l’introduzione dell’art. 648-ter.1 c.p. permette di stigmatizzare anche quelle condotte di ripulitura del denaro poste in essere nel cyberspazio.[9] Grazie all’elasticità della formulazione dell’art. 648-ter.1 c.p., infatti, è possibile ricondurvi le operazioni di pagamento, trasferimento o scambio che abbiano ad oggetto valute virtuali, considerandole «attività economiche, finanziarie, imprenditoriali» in cui vengono impiegati i proventi delittuosi [10]; qualora, invece, l’autore del delitto utilizzi le valute virtuali, provento di reato, per acquistare virtual currencies, a venire in rilievo è un’attività di tipo speculativo, integrante comunque il delitto di cui all’art. 648-ter.1 c.p.

  1. Il mixing

Il mixing (o tumbling[11]) è una nuova modalità di cyberlaundering emersa con l’invenzione della blockchain. Per mixing si intende letteralmente “mescolare” o “mischiare” vari frammenti di criptovaluta distribuendoli su più indirizzi, in modo da rendere sempre più difficoltosa la tracciabilità della loro provenienza, che non può che sospettarsi come delittuosa: “il pagamento da A ad A verrà perciò dirottato su B e quello da B a B (di importo corrispondente al primo) verrà dirottato su A, in modo che risultino confusi i nominativi degli ordinanti ed i rapporti in dare e avere tra questi e i riceventi”. [12]

I servizi di mixing[13] costituiscono delle operazioni importanti per la fase di layering e possono essere poi remunerati, a titolo di commissioni di servizio, con piccoli importi di criptovaluta. Il compito del mixer è quello di evitare che l’ammontare di denaro depositato all’inizio possa essere direttamente associato all’ammontare ritirato alla fine.

Le tipologie di tecniche utilizzate per il mixing sono principalmente due: la prima consiste nel traferire i vari frammenti di un importo di criptovaluta a più destinatari (cd. “bounce”, di rimbalzo), per rendere più complessa la serie di passaggi tra i vari indirizzi, la seconda, invece, consiste nel traferire le transazioni dei soggetti che sfruttano il servizio di mixing a un indirizzo “pool”, di raccolta, per poi smistarli a più indirizzi.

Il ciclo si chiude con il rientro dei capitali ripuliti nel circuito della licit economy nelle forme tipiche del riciclaggio analogico oppure senza abbandonare la dimensione dell’economia virtuale.

In conclusione, il mixing offerto da piattaforme online o integrato nel funzionamento di criptovalute diverse dal bitcoin può facilmente integrare la condotta residuale delle “altre operazioni” o anche il “trasferimento” della fattispecie di riciclaggio ex art. 648-bis c.p.

 

5. Considerazioni conclusive

Alla luce di quanto finora analizzato, è opportuno notare che, nonostante il rafforzamento delle misure antiriciclaggio a livello nazionale ed europeo, queste appaiono ancora inidonee a fronteggiare fenomeni criminosi che si configurano nel mercato valutario virtuale.

Il legislatore italiano, ad esempio, è intervenuto prima nel 2017 e successivamente nel 2019 [14], arricchendo non solo il corpus normativo di una definizione di “valuta virtuale”, ma anche di nuovi soggetti vincolati dagli obblighi antiriciclaggio, quali exchangers e wallet providers. Tuttavia, sembra che ciò non abbia intaccato granché l’anonimato di chi sfrutta la blockchain al fine di commettere fatti criminosi, tant’è che vero che per contrastarlo basterebbe incentivare una disclosure da parte di coloro che pongono in essere delle transazioni in valuta virtuale e ottenere informazioni che consentano associare gli indirizzi di tale valuta all’identità del proprietario della stessa.

Il legislatore è intervenuto in ultimo nel 2021. In quest’occasione è stato approvato il decreto legislativo[15] che ha recepito e dato attuazione nel nostro ordinamento alla Direttiva (UE) 2018/1673 sulla lotta al riciclaggio. Si è trattato di un intervento molto atteso, tuttavia essenzialmente volto ad alcuni ritocchi strutturali e di dettaglio.

In estrema sintesi, l’obiettivo di tale riforma è stato quello di estendere il campo di applicazione di norme nazionali già esistenti e di modificare alcune previsioni sanzionatorie attraverso la tecnica della novellazione.

Nonostante la sommaria positività dell’intervento di riforma, sono state comunque registrate alcune immancabili criticità: il legislatore delegato ha deliberatamente scelto di non introdurre alcuna disposizione espressa che chiarisse come nell’oggetto dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio possano rientrare sic et simpliciter anche i beni immateriali.

Ebbene, se è pur vero che le c.d. valute virtuali o criptovalute potevano essere già ricomprese in via interpretativa nei concetti di «cose», «beni» o «altre utilità» previsti dalle fattispecie di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio, è altrettanto vero che un’eventuale esplicitazione avrebbe sicuramente giovato al tasso di chiarezza dei precetti normativi. [16]

In definitiva, deve affermarsi che per contrastare in modo serio il complesso fenomeno del cyberlaundering non è pensabile che l’intero Cyberspace resti un mondo “senza diritto”, anzi si ritiene opportuno l’intervento del diritto penale, inteso come extrema ratio, qualora nessun altro rimedio risulti sussistente, esperibile e/o efficace a disciplinare e reprimere quelle fattispecie prive di un’esplicita regolamentazione.

La legislazione penale, inoltre, in alcuni specifici casi, potrebbe risultare senz’altro utile per combattere fenomeni di così grande portata, alla cui evoluzione, anche tecnologica, il mondo giuridico deve necessariamente adeguarsi.

[1] V. Manes, Il riciclaggio dei proventi illeciti: teoria e prassi dell’intervento penale, in Rivista Trimestrale Diritto Penale Economico, 1-2/2004, pp. 38 ss.

[2] A. M. Stile, voce Riciclaggio e reimpiego di proventi illeciti, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2009. Inoltre, M. Zanchetti, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Giuffrè, Milano, 1997, p.10.

[3] F. Brizzi, G. Capecchi, A. Rinaudo, La re-immissione della liquidità illecita nel circuito economico ed il delitto di reimpiego tra prevenzione patrimoniale e giustizia penale: prospettive di futura armonizzazione, in Archivio penale web, 2/2014, p. 2.

[4] L. Picotti, Profili penali del Cyberlaundering: le nuove tecniche di riciclaggio, in Rivista Trimestrale Diritto Penale Economico, n. 3-4, 2018

[5] L. Picotti, Profili penali del Cyberlaundering: le nuove tecniche di riciclaggio, op. cit., pp. 593-594

[6] A. Rosato, Profili penali delle criptovalute, in Quaderni di CRST, 2021, p. 72

[7] E. Basile, L’autoriciclaggio nel sistema penalistico di contrasto al “money laundering” e il nodo gordiano del concorso di persone, in Cass. pen., 2017, 3, 1277 ss.

[8] A. Gullo, Autoriciclaggio, cit.; Id, Il delitto di autoriciclaggio al banco di prova della prassi: i primi (rassicuranti) chiarimenti della Cassazione. Nota a Cass. sez. II pen. 28 luglio 2016, n. 33074, in Dir. pen. proc., 2017, 4, 483 ss.

[9] A. M. Tarantola, Dimensioni delle attività criminali, costi per l’economia, effetti della crisi economica, audizione del 6 giugno 2012, 5, disponibile sul sito del Senato.

[10] L. Picotti, Profili penali del cyberlaundering: le nuove tecniche di riciclaggio, cit., 608-609.

[11] S. Rapuano, – M. Cardillo, Le criptovalute: tra evasione fiscale e reati internazionali in Diritto e pratica tributaria, n.1/2019, 60

[12] G. P. Accinni, Profili di rilevanza penale delle “criptovalute” (nella riforma della disciplina antiriciclaggio del 2017) in Archivio Penale n. 1/2018

[13] Tra i più noti ricordiamo Bitlaunder, Easycoin, Sharedcoin e Bitcoin Laundry.

[14] D.Lgs. 125/2019, Modifiche ed integrazioni ai decreti legislativi 25 maggio 2017, n. 90 e n. 92, recanti attuazione della direttiva (UE) 2015/849, nonche’ attuazione della direttiva (UE) 2018/843 che modifica la direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario ai fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo e che modifica le direttive 2009/138/CE e 2013/36/UE.

[15] Si tratta del D.lgs. 195/2021, Attuazione della direttiva (UE) 2018/1673 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2018, sulla lotta al riciclaggio mediante diritto penale.

[16] G. Pestelli, Riflessioni critiche sulla riforma dei reati di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio di cui al d.lgs. 8 novembre 2021, n. 195, in Sist. Pen., 12/2021, pp. 57-61

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