venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Dall’horror vacui del disastro innominato all’horror pleni del disastro tipico

Precisazioni giurisprudenziali sulla riforma in tema di ecoreati.

A cura di: Marianna Amitrano, Claudio Forte e Julia Rivieccio. Il presente elaborato è frutto della riflessione comune e del lavoro di tutti gli autori.  Nello specifico i paragrafi 1, 1.1, 1.2 e 2 sono stati redatti da Claudio Forte, i paragrafi 3, 3.1 e 3.2 da Julia Rivieccio, i paragrafi 4, 4.1 e 5 da Marianna Amitrano

Sommario: 1. Introduzione. Il concetto di ambiente nella giurisprudenza della Consulta e riforma del Titolo V. – 1.1. Testo Unico ambientale, riorganizzazione della legislazione ambientale. – 1.2. Opinione pubblica: Gomorra e processo Eternit. – 2. Ecoreati: legge 22 maggio 2015, n. 68. – 3 Le differenze tra l’art. 452 quater c.p. e il 434 c.p. come analizzate nella sent. 2018 n.29901. – 3.1. Il vero oggetto di tutele dell’art. 452 quater: la precisazione giurisprudenziale della nozione di ambiente. – 3.2. Le critiche della dottrina e il superamento delle stesse. – 4. La coesistenza delle due fattispecie incriminatrici. – 4.1. L’inganno della clausola di riserva. – 5. Conclusioni.

1.Introduzione. Il concetto di ambiente nella giurisprudenza della Consulta e riforma del Titolo V

Il focus sul tema ambientale si è delineato solo di recente, in forza della legge di revisione costituzionale n. 3/2001 che per la prima volta ha introdotto la parola ambiente nella carta costituzionale all’art. 117, nel quale si legge che la tutela dell’ambiente è una potestà legislativa esclusiva dello Stato.

Precedentemente vi si riscontrava solo il concetto di tutela del paesaggio all’art.9, ma non c’era ancora, agli albori della Repubblica, una sensibilità verso il tema. Fu infatti solo a partire dagli anni ’70 che iniziarono a percepirsi problemi legati all’impatto dell’uomo sulla natura a causa della forte industrializzazione, dell’inquinamento e dello sfruttamento sfrenato delle risorse naturali non rinnovabili. L’attenzione verso questi temi nell’opinione pubblica internazionale e nel mondo scientifico crebbe tanto da indurre allo svolgimento dei primi studi sull’argomento, che teorizzarono che ai ritmi di crescita e di inquinamento di allora l’umanità sarebbe arrivata a depredare le risorse ambientali in un tempo limitato e che l’unica possibilità per il genere umano sarebbe stata il cosiddetto sviluppo sostenibile[1], da intendersi come una forma di sviluppo economico compatibile con la salvaguardia dell’ambiente per le generazioni future.

Sollecitata dall’eco internazionale di questa problematica, la giurisprudenza della Corte Costituzionale[2] fu la prima a dare voce al bisogno di tutela della stessa, unendo la protezione del paesaggio al diritto alla salute attraverso il combinato disposto degli articoli 9 e 32 Cost., ed individuando in essi il primordiale nucleo di valorizzazione normativa della prerogativa ambientale.

Da un punto di vista sanzionatorio, quindi, questo ancestrale concetto di tutela ambientale, elaborato dalla Consulta, era esercitato mediante il ricorso agli art. 422-452 del Titolo VI, del Libro II del codice penale, recante disposizioni in materia di delitti contro l’incolumità pubblica, ai fini di tutela del diritto alla salute individualmente e collettivamente.

1.1.Testo Unico ambientale, riorganizzazione della legislazione ambientale

La risposta concreta ed effettiva del legislatore a questo nuovo sentire collettivo tardò molto ad arrivare, traducendosi spesso in una legislazione emergenziale frammentata e non omogenea, quale indispensabile risposta ad eventi catastrofici.

Proprio per riordinare la legislazione in materia ambientale fu emanato il d. lgs. 3 aprile 2006, n.152, meglio noto come Testo Unico ambientale[3], che non contribuì al “salto di qualità” nel classificare la violazione del bene giuridico “ambiente” come fattispecie incriminatrice; il sistema penalistico di protezione qui riscontrabile era infatti affidato a una serie di disposizioni di carattere quasi esclusivamente contravvenzionale. In particolare, i reati ambientali del T.U.A., salvo alcune rare eccezioni si presentavano quali vuote clausole sanzionatorie “di chiusura”, che si limitavano, attraverso la tecnica del rinvio, ad incriminare il mancato rispetto delle dettagliate procedure previste dal diritto amministrativo. Un modello di illecito penale di mera disobbedienza di precetti posti da altre normative, che sul piano sanzionatorio si è rivelato totalmente ineffettivo, atteso che ad esso conseguiva una pena assai tenue (al limite del simbolico), una prescrizione abbreviata e la possibilità di estinguere il reato tramite oblazione, oltre alla mancata punibilità del tentativo[4].

1.2. Opinione pubblica: Gomorra e processo Eternit

Da quel momento ci sono voluti circa altri dieci anni affinché una legge sugli ecoreati tesa a tutelare l’ambiente e la sua integrità vedesse la luce.

Non si può negare che un’opera come il libro “Gomorra” di Roberto Saviano del 2006 abbia avuto un ruolo significativo di cassa di risonanza sull’opinione pubblica nazionale relativamente al tema dell’economia criminale legata al ciclo dei rifiuti, descrivendo come le organizzazioni camorristiche interrassero rifiuti urbani e industriali tossici in Campania, così da determinare una catastrofe ambientale e sanitaria senza precedenti[5]. Il collaboratore di giustizia Carmine Schiavone nel 2013 aveva addirittura affermato di aver descritto per la prima volta l’economia criminale nel ciclo dei rifiuti nel 1997 ad una commissione di inchiesta, ma tra apposizione del segreto di Stato al contenuto della stessa e insabbiamento nell’apparato statale nessuno intervenne. Ci furono quindi gravi e forse colpevoli ritardi nell’ideare un modello penale di tutela ambientale adeguato alle condotte catastrofiche delle organizzazioni criminali, le quali non furono, peraltro, le sole a determinare questi disastri ambientali. All’agire delle ecomafie, infatti, si aggiunse l’inquinamento prodotto dalle imprese nella lavorazione di materie altamente tossiche.

Un caso eclatante è senza dubbio il caso Eternit, azienda che lavorò per decenni una mistura di cemento e amianto ad elevata resistenza, da cui deriva, per l’appunto, il nome eternit (dal latino aeternitas). I processi celebrati a carico dei relativi responsabili dimostrarono le enormi lacune legislative: non essendo previsto ancora, infatti, un reato di disastro ambientale si fece opera di sussunzione interpretando in modo nuovo, rispetto a vecchi orientamenti consolidati della Corte di Cassazione, l’art. 434 c.p., il cosiddetto disastro innominato. Furono la mancanza di una normativa adeguata e il carattere meramente contravvenzionale dei reati ambientali di cui al T.U.A. a spingere la giurisprudenza a ricorrere alla disposizione suddetta, che seppur carente dei requisiti di tassatività e determinatezza[6],  implicava il delinearsi della responsabilità penale semplicemente all’indomani della commissione di “un fatto diretto a cagionare un disastro”.

2. Ecoreati: legge 22 maggio 2015, n. 68

A sottolineare l’esigenza di un’autonoma incriminazione della fattispecie di disastro ambientale, è stato anche il legislatore comunitario, che con la direttiva 2008/99/CE (art. 3, lett. a) ha imposto agli Stati membri di provvedere a sanzionare lo «scarico, l’emissione o l’immissione illeciti di un quantitativo di sostanze o radiazioni ionizzanti nell’aria, nel suolo o nelle acque che provochino o possano provocare il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell’aria, alla qualità del suolo o alla qualità delle acque, ovvero alla fauna o alla flora».

La ricezione dei moniti europei è subentrata con ritardo nell’ordinamento italiano, attraverso l’approvazione della legge 22 maggio 2015, n. 68, recante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente” che ha introdotto il Titolo VI bis, art. 452bis-452quaterdecies. I tratti salienti della legge possono riassumersi nell’adozione di una politica criminale volta a sanzionare chiunque attui condotte di inquinamento ambientale, di disastro ambientale, di traffico e abbandono di materiali ad alta radioattività, chiunque impedisca controlli ambientali, prevedendosi aggravanti in caso di commissione in forma associativa dei delitti suddetti; inoltre è anche previsto il ravvedimento operoso che permette una diminuzione della pena dalla metà a due terzi per chi si impegni affinché l’attività illecita non sia portata a conseguenze ulteriori e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi.

Si è guardato, pertanto, con favore all’attesa legge sugli ecoreati, che con il nuovo art.452 quater ha spostato l’ago della bilancia da una visione antropocentrica a quella ecocentrica[7], favorendo una puntualizzazione del disastro ambientale ed una diversificazione dello stesso dal disastro innominato. La nuova fattispecie punisce con un notevole incremento sanzionatorio la condotta che, secondo l’ordinario rapporto di causalità, cagioni abusivamente uno degli eventi di disastro ambientale, ora espressamente tipizzati dalla norma superando il vacuum definitorio di cui soffriva la “vecchia” fattispecie dell’articolo 434 c.p. L’articolo 452 quater c.p. così introdotto recita: «costituiscono disastro ambientale alternativamente:1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, 2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, 3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.»

3. Le differenze tra l’art. 452 quater c.p. e il 434 c.p. come analizzate nella sent. 2018 n. 29901

Resta ancora ad oggi troppo incerto il rapporto tra la nuova e la precedente fattispecie incriminatrice degli ecodisastri, oggetto di una recente sentenza della terza sezione della Corte di Cassazione, del 18 giugno 2018, n. 29901: la vicenda si inserisce in un procedimento cautelare nei confronti del sindaco e del responsabile dell’ufficio tecnico di un comune calabrese, ai quali veniva contestata la mancata adozione di misure idonee a fronteggiare il pericolo di crollo di due edifici totalmente abusivi alla base dei quali, in tempi diversi, si erano aperte due voragini.

È nel primo motivo di ricorso delle parti avverso la decisione del Tribunale del riesame di disporre il sequestro preventivo degli edifici e della strada che si riscontra il richiamo all’annosa questione: in particolare i ricorrenti lamentavano l’insussistenza del concorso colposo in pericolo di disastro ambientale colposo (art. 113, 452 quater co.1 n.3, 452 quinquies co. 2 c.p.) come proposto dalla Procura, ritenendo piuttosto la loro condotta sussumibile nell’ipotesi di crollo di costruzioni di cui al 434 c.p. Invero, le maggiori complessità nel confronto tra le due fattispecie indicate si riscontrano proprio nella terza ipotesi di disastro ambientale di cui all’art.452 quater c.p. Se le prime due figure di reato, nel sanzionare l’alterazione di un ecosistema, che risulti irreversibile (n.1 co.1 art.452 quater c.p.) o di onerosa eliminazione (n.2, co.1 art. 452 quater c.p.), si configurano come reati d’evento a forma libera che puniscono ogni condotta attiva o omissiva la quale abbia cagionato uno degli eventi descritti in via alternativa,  l’ultima, assumendo la forma di un reato di pericolo, risulta l’unica in astratto ricollegabile all’art. 434 c.p. È la torsione applicativa giurisprudenziale subita da quest’ultimo nella sua flessione ambientale che ha comportato tale parvenza di sovrapponibilità delle due figure, peraltro accentuata dall’apparente similarità delle oggettività giuridiche tutelate: entrambe le norme mirano a proteggere la pubblica incolumità, ma il quid pluris dell’art. 452 quater co.1 n. 3 è dato dalla sua configurazione plurioffensiva. L’unica interpretazione che consenta, infatti, di salvaguardare l’art. 434, restituendo dignità anche alla nuova fattispecie normativa, è data dall’intuizione che la tutela alla pubblica incolumità è dalla stessa intesa solo quale riflesso della lesione del bene ambiente, che invece non è elemento costitutivo dell’altra norma. Questa è la soluzione ermeneutica della Corte di Cassazione delineata nella decisione in esame.

3.1. Il vero oggetto di tutele dell’art. 452 quater: la precisazione giurisprudenziale della nozione di ambiente

Punto focale della sentenza è la puntualizzazione ricostruttiva della nozione di ambiente, apprezzabile soprattutto in considerazione delle opinabili formule linguistiche utilizzate dal legislatore. Il «condensato di vaghezza»[8] riscontrabile nelle locuzioni alterazione irreversibile’; ‘ecosistema’; ‘alterazione dell’equilibrio di un ecosistema’; eliminazione che risulti ‘particolarmente onerosa’; conseguibile con ‘provvedimenti eccezionali’ ecc., è oggetto di un tentativo di superamento del giudice di legittimità tramite una definizione creativa e concretizzatrice: si offre una concezione unitaria del bene ambiente in una sua accezione ampia volta a ricomprenderne tanto l’aspetto puramente naturale, quanto quello culturale, risultato delle trasformazioni operate dall’uomo e pur meritevoli di tutela[9].

Richiamando anche alla giurisprudenza costituzionale, l’ambiente viene ricostruito come valore costituzionalmente protetto, un bene della vita materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti, da intendersi quindi non solo da un punto di vista statico e astratto ma in una logica sistematica che ne valorizza l’aspetto più dinamico[10].

Adempiendo al suo ruolo nomofilattico, la Corte di Cassazione, nella sentenza analizzata, provvede ancora a specificare il modus della condotta incriminata, sottolineando che il requisito dell’abusività dalla norma richiamato («chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale») debba essere inteso quale richiamo all’assenza delle prescritte autorizzazioni o all’eventualità per la quale le stesse siano scadute, palesemente illegittime o non commisurate alla tipologia di attività richiesta, o, infine, all’ipotesi di violazione di leggi statali o regionali ovvero di prescrizioni amministrative. È solo nella misura in cui il bene costituzionale ambiente sia oggetto di aggressioni siffatte che, nella prospettiva dell’art. 452 quater co. 1 n. 3, una lesione della pubblica incolumità viene ad entrare in gioco, in un contesto in cui le prerogative di un’imprescindibile connessione vengono enucleandosi.

3.2. Le critiche della dottrina e il superamento delle stesse

Questa impostazione non è condivisa da certa dottrina, la quale nel ritenere che l’ambiente sia scomparso dal fuoco di tutela dell’art. 452 quater co.1 n. 3 c.p. e addebitando siffatta omissione a una svista del legislatore, nega la sussistenza della relazione tra i due beni giuridici di riferimento, correlando la norma all’ingegnosa fattispecie di disastro sanitario[11]. Pur apprezzandosi lo sforzo teso a creare un fil rouge con i precedenti giudiziari[12] rivelatesi fondamentali ai fini dell’emanazione della l. 68 del 2015 in un’illusione di coerenza propria di questa opzione interpretativa, non può che negarsene la pertinenza. Una tale impostazione negherebbe il tenore letterale della disposizione, oltre a ignorarne la posizione sistematica nell’impianto codicistico: la compromissione ambientale è l’unica chiave di lettura per un’interpretazione logica e fedele alla voluntas legis[13], tesa a far salvo l’art. 434 c.p.

4. La coesistenza delle due fattispecie incriminatrici

Nel definire ancor più puntualmente il rapporto tra le due norme[14], la Cassazione correla l’art. 452 quater c.p. al caso di un trattamento penale modificativo dell’art. 434 c.p., in cui il fatto lesivo permane nel suo nucleo essenziale e centrale di disvalore, pur accompagnato dalle rinnovazioni legislative, attraverso l’aggiunta di elementi ulteriori, con funzione e connotati specializzanti. Alla luce del nuovo e composito quadro normativo si conferma l’intento incriminatorio dalla giurisprudenza precedentemente perseguito tramite il ricorso alla generica figura del disastro innominato, superandosene la paventata abolitio criminis: si favorisce il rientro della vocazione ambientalista dell’art. 434 offrendo ad essa una nuova sede normativa, che ha la pretesa di estendere l’area del penalmente rilevante di fronte alla potenzialità dannosa degli ecodelitti.

4.1. L’inganno della clausola di riserva

Il vero nucleo del problema delle interconnessioni applicative tra le fattispecie incriminatrici degli articoli 434 e 452 quater c.p., è sicuramente la clausola di residualità, rinvenibile in apertura di quest’ultimo: alla delineazione del parametro criminoso, il legislatore ivi antepone la dicitura «fuori dei casi previsti dall’art. 434 c.p.» con l’intento di salvaguardare le sorti dei processi già avviati ed evitare il crollo dell’impianto accusatorio ad essi riconducibile. Tale preoccupazione, della cui confessione vi è traccia nei lavori preparatori della legge sugli ecoreati, appare innanzitutto infondata, in quanto a far da argine ad un’applicazione retroattiva della nuova incriminazione sarebbero bastati i più generali principi in tema di successione di norme penali nel tempo di cui all’art. 2 c.p., soprattutto tenendo conto del più incisivo trattamento sanzionatorio della nuova norma[15]. Se è vero che una più esplicita differenza tra gli oggetti di tutela delle due disposizioni avrebbe semplificato il coordinamento tra le stesse, è innegabile altresì che il background culturale, dottrinale e giurisprudenziale in materia di disastro, insieme con l’ambiguità della posizione adottata dal legislatore ha contribuito paradossalmente a rendere meno agevole il ruolo dell’interprete. Diverse sono le alternative prospettate nel tentativo di restituire chiarezza e rigore alla nuova norma[16]; tra esse era parsa inizialmente preferibile quella volta a considerare la clausola applicabile solo quando ricorressero sia gli elementi costitutivi del disastro innominato che quelli del disastro ambientale. Questa lettura avrebbe assegnato alla clausola un autonomo ruolo di risoluzione di un concorso di norme in realtà solo apparente, generando però un pericoloso cortocircuito logico in spregio del principio di sussidiarietà: un paradosso ermeneutico avrebbe obbligato il giudice ad applicare la meno grave ipotesi di cui all’art. 434 ai casi più gravi in cui il disastro ambientale abbia comportato un’offesa alla pubblica incolumità, relegando il nuovo e più grave art. 452 quater alle ipotesi, senz’altro meno gravi, nelle quali il disastro ambientale non abbia provocato alcun pericolo alla pubblica incolumità.

Vanificando la portata della tanto attesa nuova legge dei reati ambientali, la nuova disposizione è stata resa sostanzialmente inapplicabile nonché potenzialmente incostituzionale per il contrasto irrimediabile innescatosi con il parametro della ragionevolezza ex art. 3 Cost.

Di fronte a queste difficoltà interpretative bisogna allora considerare una diversa alternativa che correli la clausola al pur ovvio principio secondo cui, quando non ricorrono i presupposti per l’applicazione della nuova incriminazione, si applica la vecchia, al ricorrere dei relativi elementi costitutivi. Il rapporto tra le fattispecie sarebbe in tal senso regolato dal principio di specialità: nelle ipotesi in cui il disastro ambientale abbia cagionato un’offesa alla pubblica incolumità troverebbe applicazione esclusivamente l’art. 452 quater c.p. in quanto norma speciale rispetto al disastro innominato ex art. 434 c.p. Fermo restando l’improbabilità di tale lettura, che collide con il significato letterale della clausola, interpretata al suo contrario come tesa a garantire l’applicazione dell’art. 434 c.p. “fuori dei casi previsti dall’art. 452 quater c.p.”, la stessa non può che preferirsi, quale panacea degli effetti sistematici dannosi altrimenti inevitabili. Pur conscia delle censure a questa soluzione ermeneutica addebitabili, con la decisione in esame la Cassazione ad essa si conforma.

5.Conclusioni

Nel caso di specie la Corte conclude circa l’insussistenza del fumus di disastro ambientale poiché, sebbene resti innegabile l’illiceità della situazione di riferimento, quale scaturente dalla violazione delle norme in materia urbanistica, la responsabilità per essa non è addebitabile agli indagati, in quanto la realizzazione degli edifici abusivi risalente nel tempo, oltre a non poter essere ad essi ricondotta, non può essere interpretata come produttiva di simili conseguenze ambientali; ragion per cui segue l’annullamento della decisione cautelare impugnata, senza rinvio. Resta innegabile l’apporto fornito da questa decisione nel complesso cammino ermeneutico e chiarificatore relativo alla troppo vaga legge sugli ecoreati. Semplicemente si rimane in attesa, nell’attuale fase di transizione dall’horror vacui del disastro innominato all’horror pleni del disastro tipico, di più pregnanti contributi della giurisprudenza di legittimità e di merito che, rifuggendo da un approccio meramente casistico colmino le lacune interpretative che affliggono la fattispecie dell’articolo 452-quater c.p., riconducendola sui binari della doverosa determinatezza del precetto penalistico[17].

[1] Meadows D. H., Meadows D. L., Randers J., Behrens III W.W., Limiti dello sviluppo, 1972, rapporto commissionato al MIT (Massachusetts Institute of Technology) dal Club di Roma.

[2] Corte cost., sent. 30 dicembre 1987, n. 641

[3] Al quale da qui in avanti ci si riferirà in termini di T.U.A.

[4] Per un’approfondita analisi critica in tal senso si rimanda a CAPPAI M., Un “disastro” del legislatore: gli incerti rapporti tra l’art. 434 c.p. e il nuovo art. 452 quater c.p., in Diritto Penale Contemporaneo, 2016, p.2

[5] Saviano R, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, 2006, Mondadori

[6] L’asserito contrasto con i principi di tassatività e determinatezza della fattispecie penale di cui all’art. 434 c.p. fu, invero, oggetto di una questione di legittimità costituzionale, proprio relativamente alla nozione di disastro; con la sentenza n. 327 del 2008, la quale si inserisce nelle tormentate vicende del caso Eternit, la Corte Costituzionale ha chiarito che la norma di chiusura del Tit. VI c.p. ricava dalle precedenti disposizioni gli elementi caratterizzanti una nozione unitaria di disastro valevole anche con riferimento all’ipotesi di disastro innominato, che perciò recupera sia sotto il profilo dimensionale che sotto il profilo della proiezione offensiva la propria tipicità.

[7] Il passaggio è efficacemente espresso da MASERA L., I nuovi delitti contro l’ambiente, voce per il libro dell’anno del diritto Treccani 2016, in Diritto Penale Contemporaneo 2015, p. 3

[8] L’espressione è di RUGA RIVA C. come riportata da AMARELLI G., La riforma dei reati ambientali: luci ed ombre di un intervento a lungo atteso a proposito di Carlo Ruga Riva, i nuovi ecoreati, commento alla legge 22 maggio 2015, n. 68, in Diritto Penale Contemporaneo 2015, pag. 9

[9] Cass. Pen., Sez. III, 18 giugno 2018, n. 29901, pag. 8

[10] Corte Cost., 14 novembre 2007, n. 378

[11] La tesi è di BELL A.H. e VALSECCHI A., Il nuovo delitto di disastro ambientale: una norma che difficilmente avrebbe potuto essere scritta peggio, in Diritto Penale Contemporaneo, 2015, n. 2, pag. 75

[12] Il riferimento concerne tra gli altri, il caso Eternit, come richiamato da BELL A.H. e VALSECCHI A., op. cit.

[13] In tal senso MASERA L., op. cit., pag. 11

[14] E confermando l’orientamento di cui alla Cass., Sez. I, sent. 17 maggio 2017 n.58023 (cd. Sentenza Pellini), prima pronuncia della Cassazione sul tema degli ecoreati come innovato dalla L. 68-2015, scaturita dall’indagine in relazione al traffico illecito e alla gestione abusiva di rifiuti diretti verso la Campania nel corso dell’emergenza risalente a oltre dieci anni fa.

[15] A fronte della pena della reclusione da uno a cinque anni per il mero pericolo per la pubblica incolumità o al più, da tre a dodici anni nell’eventualità dell’effettivo crollo, quali oggetto delle previsioni di cui all’art. 434 c.p., l’art. 452 quater c.p. fa riferimento invece a una pena detentiva più incisiva, ricompresa tra i cinque e i quindici anni e peraltro aumentata nell’ipotesi per le quali il disastro sia prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette

[16] Esse sono tutte oggetto dell’accurato contributo di CAPPAI M., op. cit., al cui articolo si rimanda per una precisa e apprezzabile disamina sul punto.

[17] L’auspicio è condiviso da RICCARDI M., op.cit., p.25

Lascia un commento