venerdì, Marzo 29, 2024
Criminal & Compliance

Delitto tentato circostanziato e tentativo di delitto circostanziato

LA COMPATIBILITA’ TRA TENTATIVO E ATTENUANTE DEL DANNO DI SPECIALE TENUITA’ NEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO

L’istituto del delitto tentato, di cui all’art. 56 c.p, è volto a reprimere condotte lesive, poste consapevolmente in essere dal reo che, per circostanze indipendenti dalla sua volontà, non giungono a consumazione. Una delle funzioni principali assolte dall’istituto in esame è quella di delineare, per mezzo del combinato disposto dell’art. 56 con le disposizioni di parte speciale, dei nuovi confini di tipicità delle fattispecie, che consentano di assoggettare a pena atti prodromici al delitto concretamente offensivi.

È evidente, infatti, che una condotta di parziale realizzazione del reato non sarebbe sanzionabile alla stregua delle ordinarie diposizioni codicistiche per difetto di tipicità, non essendo sussumibile in fattispecie che presuppongono l’avvenuta consumazione del delitto.

Ne consegue che il delitto tentato, benchè costituisca il prius logico e cronologico del corrispondente delitto consumato, si pone quale fattispecie indipendente rispetto a quest’ultimo, costituendo autonomo titolo di reato, strutturalmente dotato di requisiti propri.

Ulteriore corollario discendente dal cennato rapporto di autonomia è che, sotto il profilo della tipicità, il delitto tentato ha una propria conformazione e richiede dei presupposti strutturali differenti da quelli propri dello speculare delitto consumato.

La circostanza che il delitto tentato costituisca autonoma figura di reato, dotata di una propria tipicità, impone di vagliarne la compatibilità strutturale con altri elementi del delitto. In particolare, sono sorte delle perplessità in ordine alla configurabilità di ipotesi di delitto tentato cui accedano delle circostanze aggravanti od attenuanti.

Preliminarmente occorre, però, distinguere tra la figura di delitto tentato circostanziato, in cui la parziale realizzazione della fattispecie criminosa reca già in sé l’integrazione piena dell’elemento circostanziale, dalla diversa figura del tentativo di delitto circostanziato che ricorre nei casi in cui le circostanze non si sono ancora compiutamente verificate, ma se il delitto fosse giunto a consumazione sarebbe stato qualificato dalla loro presenza. Orbene, mentre risulta pacifica l’applicazione del diverso regime sanzionatorio discendente dalla presenza dell’elemento accidentale nel primo dei casi prefigurati, maggiori dubbi sono sorti in merito all’ammissibilità della seconda categoria. In queste evenienze, infatti, viene in rilievo non solo un illecito tentato ma anche un “tentativo di circostanza[1]”.

In particolare, stante l’autonomia della fattispecie tentata, è pacificamente ammesso che ove la condotta parziale del reo accentri in sé un maggior disvalore o viceversa risulti meno offensiva, in virtù della presenza dell’elemento circostanziale, sia opportuno valorizzarne la portata adeguando correlativamente il trattamento sanzionatorio.  I principi di offensività, individualizzazione dell’illecito ed uguaglianza impongono, infatti, il principio di proporzionalità della pena, che deve essere commisurata nel suo preciso ammontare alla gravità del fatto commesso, da valutarsi, tra l’altro, anche per mezzo degli elementi accidentali del delitto[2]. Peraltro, il meccanismo estensivo tipico dell’art.56 c.p opera senza deroghe anche rispetto a fattispecie di delitto circostanziato, con la conseguenza di considerare applicabili non solo le circostanze comuni delineate per tutti i delitti, dagli artt. 61 e 62 c.p, ma anche quelle speciali, purchè non ontologicamente incompatibili con una fattispecie non giunta a consumazione.

In tali casi, ai fini della concreta determinazione della pena, dal momento che l’elemento accidentale ha trovato piena integrazione, dovrebbe dapprima essere individuata la pena applicabile per il tentativo, in rapporto a quella del delitto perfetto semplice, e poi a questa andrebbe applicato l’aumento o la diminuzione derivante dalla circostanza[3].

Mentre il delitto tentato circostanziato fa riferimento ad elementi antecedenti o concomitanti all’azione delittuosa parzialmente realizzata, il tentativo di delitto circostanziato si configura quando il delitto consumato sarebbe connotato da circostanze non ancora compiutamente realizzatesi allo stadio del tentativo.

Parte della dottrina disconosce l’ammissibilità della figura sulla scorta di molteplici ragioni. Si osserva, innanzitutto che il generale criterio oggettivo imputazione delle circostanze si fonda sull’effettiva esistenza delle medesime, dovendosi escludere che possano sussistere delle circostanze tentate a norma dell’art.59. Si adduce, inoltre, la rilevanza del dato testuale che in alcuni casi, facendo riferimento al “danno cagionato” (artt. 61n.7 e 62 n.4) sembrerebbe escludere a priori la loro rilevanza in forma tentata. Si è osservato, infine, che verrebbe sconfessato il principio di legalità ove si attribuisse a circostanze non realizzatesi la funzione di incidere in maniera penetrante sulla pena, potendosi al più, in ossequio al principio del favor rei, riconoscere alle attenuanti tentate una rilevanza sub specie di circostanze attenuanti generiche. Nondimeno, anche tale ricostruzione viene criticata da parte della dottrina, sull’assunto che verrebbe violato il principio di legalità. Si osserva, infatti, che il legislatore, sulla scorta di una valutazione relativa all’offensività della condotta, abbia riconosciuto valore attenuate sono ad alcune circostanze fattuali specificamente definite. Pertanto, valorizzare la parziale integrazione dell’elemento accidentale, al fine di concedere le attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis, varrebbe a sconfessare la scelta legislativa. In questi casi sarebbe, pertanto, necessario valorizzare, a latere della riproduzione incompleta dello schema dell’attenuante tipica, un elemento ulteriore che sia sintomatico di una minore pericolosità della condotta dell’agente.

La più recente giurisprudenza, anche di legittimità, ha invece ammesso la generale configurabilità della figura, salva un’effettiva incompatibilità strutturale.

Si è, in primo luogo, osservato che l’art. 56 fa genericamente riferimento al “delitto”, senza specificare ulteriormente tra forme base e circostanziata, facendo risultare arbitraria l’espunzione delle fattispecie di tentativo di delitto circostanziato[4]. L’art. 59, inoltre, vieta l’applicazione di circostanze meramente supposte e non anche tentate e, dunque, il suo richiamo sarebbe inconferente. Può quindi affermarsi che dal combinato disposto degli articoli 56 e 59 non si evince alcun elemento da cui si possa desumere che la disciplina del tentativo inerisca il solo delitto base, dovendosi, dunque, includere anche le fattispecie circostanziate.

Peraltro, nessuna disposizione esclude che su una fattispecie base possa operare un duplice meccanismo combinatorio, con contestuale applicazione dell’art. 56, da un lato, e degli articoli 61 e 62 dall’altro. Si tratterebbe di una nuova figura di reato che troverebbe pur sempre il suo fondamento in disposizioni di legge, in piena consonanza al principio di legalità.

Sul versante della tipicità, inoltre, non si riscontrerebbe alcuna anomalia nel riconoscere l’applicabilità di circostanze che, sebbene non realizzatesi compiutamente, emergono in maniera perspicua già dalla realizzazione parziale della fattispecie.

Con approccio di carattere sistematico, parte della dottrina ha, inoltre, evidenziato che il delitto tentato, in quanto reato senza evento, potrebbe essere strutturalmente assimilato ai reati di pura condotta o a quelli a consumazione anticipata, per i quali è prevista la punibilità a prescindere dalla verificazione dell’evento lesivo. Le menzionate analogie indurrebbero a ritenere incongruo che per le categorie di delitti individuate sia pacificamente ammessa la forma circostanziata e che questa vada, invece, esclusa con riferimento alle sole fattispecie tentate.

Infine, sarebbe lo stesso principio di uguaglianza a richiedere un trattamento sanzionatorio differenziato a seconda della effettiva gravità della fattispecie di reato realizzata dall’agente.

Riconosciuta in via generale ed astratta l’ammissibilità della figura, la giurisprudenza ha chiarito che l’interprete non può esimersi da un vaglio concreto di compatibilità, volto ad appurare che la circostanza non presupponga necessariamente la consumazione del reato. Il problema permane, infatti, per quelle disposizioni in cui la realizzazione dell’elemento accidentale segue cronologicamente alla consumazione del delitto. Si pensi a talune delle aggravanti comuni individuate dall’art. 61, quali “l’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso” ai sensi dell’art. 61 n.8,  “l’essersi adoperato spontanemanete ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato”, ex art. 62 n. 2 o “l’avere cagionato, nei delitti che offendono il patrimonio, un danno di speciale tenuità”.

In particolare, le Sezioni Unite della Cassazione sono state chiamate a pronunciarsi  proprio in ordine alla configurabilità, in fattispecie meramente tentate, della circostanza attenuante da ultimo menzionata, atteso che la sua formulazione letterale sembra necessariamente richiedere la consumazione dell’illecito.

Un orientamento giurisprudenziale, infatti, evidenziava l’impossibilità di condurre un giudizio sull’attenuata offensività della condotta, parametrata all’esiguità del danno cagionato, pur in mancanza della verificazione dello stesso. Sarebbe, all’evidenza, mancato il dato empirico di riferimento su cui calibrare il giudizio di disvalore. La giurisprudenza di legittimità aveva, invero, osservato che il pregiudizio patrimoniale deve essere “effettivo, non ipotetico, non potendo essere individuato in alcun momento precedente, sia pure in presenza di atti idonei diretti in modo non equivoco al medesimo scopo[5].

Nel tentativo di superare l’orientamento riportato, parte della giurisprudenza, aveva ritenuto di attribuire, ai fini della valutazione della minima entità del danno, prioritario rilievo all’intenzione soggettiva dell’agente di non cagionare un pregiudizio di rilevante entità. Tuttavia, risulta evidente come un dato di carattere prettamente psicologico non possa aver alcun rilievo nella valutazione della gravità oggettiva di una fattispecie parzialmente perfezionatasi.

Per tali ragioni, la giurisprudenza di legittimità successiva ha ritenuto di incentrare la propria indagine su elementi di carattere oggettivo, quali il bene inciso dalla condotta lesiva e le modalità della stessa. Dirimente risulta, pertanto, l’individuazione del bene leso, poiché è soltanto a seguito di una valutazione concernente il valore dello stesso che potrebbe effettuarsi una adeguata valutazione prognostica in ordine all’entità del danno patrimoniale che sarebbe derivato dalla condotta, se questa fosse stata portata a termine.

A tale indirizzo, a composizione del contrasto delineato, hanno ritenuto di aderire le Sezioni Unite della Cassazione. La Corte ha, infatti, chiarito che è possibile svolgere, attraverso una prognosi postuma ex ante ed in concreto, una valutazione sui profili di lesività della condotta idonea ad evidenziare che, se il reato fosse stato portato a compimento, il danno prodotto sarebbe stato di lieve entità. Le Sezioni Unite, puntualizzano che è necessario che l’interprete verifichi la compatibilità della circostanza con la condotta concretamente posta in essere dall’agente, allo scopo di verificare se sia riscontrabile la sussistenza dell’elemento accidentale. A tal fine chiarisce che il predetto accertamento si sostanzia certamente in “ una valutazione ipotetica ma non per questo inibita al giudice, atteso che , ad esempio , del tutto ipotetico è il c.d giudizio controfattuale cui è chiamato in tema di reato omissivo ed ipotetico, in ultima analisi, è il giudizio in tema proprio di delitto tentato[6].

Tale soluzione si pone, peraltro, in piena consonanza al principio di proporzionalità, evidentemente leso ove non vi sia una modulazione del trattamento sanzionatorio corrispondente al reale peso delle conseguenze derivanti dal reato.

Sulla scorta di questo arresto, è stata inoltre riconosciuta la compatibilità dell’aggravante del danno di rilevante entità (art. 61 n.7) con il delitto tentato di furto ove, dalle modalità della condotta e dalle acquisizioni probatorie, emergano indicazioni univoche sull’ingente entità del danno che sarebbe derivato dalla consumazione del delitto.

In tali casi, ai fini del calcolo della pena, atteso che il tentativo riguarda tanto il delitto quanto la circostanza, la pena sarà determinata in rapporto a quella del delitto perfetto circostanziato.

Conclusivamente, è opportuno evidenziare che anche le aggravanti aventi una connotazione prettamente psicologica sono compatibili con le fattispecie di delitto arrestatesi allo stadio del tentativo. Si pensi, in particolare, all’aggravante prevista dall’art. 62 n. 2 che determina l’applicazione di un incremento sanzionatorio laddove il delitto sia commesso allo scopo di eseguirne un altro, di assicurare a sé o ad altri il prodotto, il profitto o il prezzo di un altro reato, ovvero al fine di occultare altro reato o di conseguirne l’impunità.

In tali evenienze, infatti, la circostanza in esame può essere legittimamente contestata anche ove il delitto-fine non abbia trovato compiuta realizzazione o non venga conseguito lo scopo perseguito. A tal fine, risulta sufficiente che, sulla scorta delle evidenze probatorie, emerga l’intento soggettivo del reo e la rappresentazione mentale di una connessione teleologica tra i delitti.

Parimenti, è predicabile una piena compatibilità tra l’attenuante della provocazione e la realizzazione parziale del delitto, nei casi in cui la condotta rappresenti una mera reazione determinata dallo stato d’ira indotto da un fatto ingiusto altrui.

 

[1] R. GALLI, Nuovo corso di diritto penale, edizione 2017

[2] . D. Messina, Manuale breve di diritto penale, undicesima edizione

[3] R. Garofoli, Manuale di diritto penale parte generale, undicesima edizione

[4] Cfr. Fiandaca e E. Musco, Diritto Penale parte generale, sesta edizione

[5] Cass. Sez V, sent. n.233885 del 2005

[6] Sezioni Unite n. 28213 del 2013

Lascia un commento